È piuttosto insolito che l’idea della morte venga associata a situazioni grottesche, paradossali o surreali, addirittura comiche, ma nel cinema tutto può succedere e il tema della morte è stato affrontato in base ai più svariati punti di vista. Numerosi spunti in questo senso sono giunti anche dall’ultima edizione del MedFilm Festival, appena conclusosi a Roma, un appuntamento ormai irrinunciabile per tutti gli appassionati di cinema mediterraneo. Il MedFilm, infatti, rappresenta ormai da anni un’occasione unica per viaggiare attraverso le diverse realtà che popolano lo straordinario puzzle di culture, tradizioni, credenze e stili di vita che è il bacino del Mediterraneo attraverso la produzione cinematografica, che di tali culture è l’espressione più vivida, immediata e più facilmente fruibile. Così, con oltre 100 titoli fra lungometraggi, corti e documentari, anche quest’anno il MedFilm ha aperto molteplici finestre sulla sfaccettata realtà mediterranea, portandone alla luce le diversità ma anche i punti di contatto.
È dunque interessante riflettere sul come l’idea della morte nel Mediterraneo possa essere in parte legata anche alle vicende storiche e alle realtà che ogni singolo Paese o area geografica hanno vissuto. Pensiamo, per esempio, a come l’idea della morte in un Paese come l’Algeria possa spesso essere legata al dramma del terrorismo. È dunque una morte violenta, inaspettata, inspiegabile e perciò straziante, un dramma che crea ferite impossibili da rimarginare e pronte e riaprirsi in qualsiasi momento. Il senso dell’impossibilità della catarsi o della redenzione di qualsiasi genere è forse ciò che prevale nel film “Le repenti” di Merzak Allouache, in cui la vita di Rachid, un terrorista islamico “pentito” deciso a cambiare vita in seguito ad una sorta di amnistia concessa dal governo algerino, si intreccia con quella di un farmacista la cui figlia, come si scoprirà in seguito, è stata rapita e uccisa dai terroristi. La precarietà dell’esistenza dei personaggi, che sembrano lasciarsi vivere da una realtà a cui non appartengono e che non hanno scelto, crea un costante senso di ansia e tensione nell’attesa che la tragedia in agguato finalmente esploda portando anche con sé la speranza di una salvezza finale. La scena conclusiva però fa cadere ogni illusione sul fatto che possa esserci una soluzione ad una dramma come quello dell’uccisione di una bambina e questa tragedia familiare diventa quasi paradigma del dramma di un intero Paese.
In un altro Paese arabo invece, il Marocco, la morte arriva spesso dal mare, quel Mediterraneo che si vuole attraversare in cerca di una vita migliore. “Shi ghady w shi jay” (Boiling dreams) di Hakim Belabbes affronta questo tema tristemente attuale da molteplici punti di vista. Al centro c’è senza dubbio il dolore della giovane moglie e dei due figli piccoli di Ahmed, che ha deciso di raggiungere illegalmente la Spagna, promettendo di fare avere sue notizie entro pochi giorni. La tanto attesa telefonata però non arriva e la famiglia aspetta quasi rassegnata la notizia della morte di Ahmed. Allo stesso tempo però c’è il senso di sconfitta e pentimento di chi non è partito; la rabbia e la vergogna per il fallimento di chi torna indietro; la rassegnazione di chi crede che, qualsiasi cosa si faccia nella vita, alla fine è il fato che decide perché il destino di ciascuno é già scritto. Ciò su cui il film fa maggiormente riflettere, ed è un aspetto spesso trascurato, é ciò che chi parte si lascia alle spalle: non solo miseria, ma anche famiglie che vivono nel dolore e nell’incertezza, a contatto con quel mare che é allo stesso tempo speranza e presagio di morte.
Altri due film hanno invece affrontato il tema della morte in maniera decisamente diversa. Il corto “Stevan M. Živkovic”, del serbo Vladimir Tagic, racconta la morte in modo paradossale e surreale, a tratti comico, con la storia di un uomo che, per un errore burocratico, risulta essere deceduto. Il protagonista, dopo che la tv per cui lavora ha ormai diffuso la notizia della sua morte, dovrà affrontare enormi difficoltà per far accettare agli altri il fatto che egli sia invece vivo, in un gioco paradossale in cui la “verità televisiva” sembra essere più attendibile della stessa realtà. Significativa ed evocativa la scena finale, in cui un televisore galleggia abbandonato lungo il fiume creando, con il suo riflesso nell’acqua, la forma di una bara.
Molto più complesso l’iraniano “Peleh akhar” (The last step) di Ali Mosaffa, pellicola labirintica che non si sviluppa in modo lineare, bensì attraverso uno scambio ininterrotto e senza soluzione di continuità fra passato e presente, reale e immaginario, verità e bugie. Il triangolo amoroso in realtà é solo una cornice per una riflessione più profonda del rapporto fra realtà e finzione: Leili è un’attrice che, in seguito alla morte del marito Koshrow, ha delle risate isteriche sul set che le impediscono di terminare la scena che sta girando. Siamo poi riportati indietro a quando Koshrow era ancora in vita, ed é lui stesso a dare la propria versione di come i fatti si siano sviluppati. L’uomo è tormentato dal rapporto con la moglie, diventato sempre più difficile, e afflitto da dei dolori che gli fanno pensare di avere un cancro. Amin, un medico amico di gioventù della coppia che, dopo aver vissuto per 20 anni in Germania, torna in Iran per aprire una clinica tutta sua, convince Koshrow che il suo timore è reale. Koshrow, credendo di avere ormai i giorni contati, cerca di recuperare il rapporto con la moglie in attesa della morte, che arriva invece in modo talmente inaspettato e improvviso da risultare quasi surreale e tragicomica.
Ma la morte torna invece ad essere dramma universale e condiviso nel corto “Le cordon”, del marocchino Lakkimi Farid, storia di una ragazza madre nel Marocco rurale che, non potendo affrontare lo scandalo decide di liberarsi del bambino abbandonandolo in un ospedale di Fez. Finisce poi per perdersi fra le vie della città alla disperata ricerca della strada che la riporti alla clinica per riprendersi il piccolo, ma distrutta dal rimorso e dalla disperazione si lascia morire in un parco, quasi a ricordarci che, per quanto condizionata da vicende storiche e culturali, la tragedia della morte consiste fondamentalmente nel privarci di qualcuno che fa parte della nostra vita e il dolore che ciò provoca è un elemento universale che tutte le culture condividono.