Il libro “Piciocus”
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Cagliari (Italia)

A tu per tu con gli autori, Francesco Abate, Gianni Zanata, Paolo Maccioni, Gianluca Floris, Silvia Sanna

Piciocus” (ragazzini, in dialetto sardo) sono figli di una realtà ormai scomparsa che, con abilità, gli autori hanno racchiuso in un solo termine capace di richiamare alla mente uno spaccato di vita sociale, sarda e anche italiana, forte, drammatico, a tratti esilarante. Se da un lato, gli anni ’70, in Italia, sono anni di fermento politico e sociale in cui i giovani vivono tra disordini e fenomeni di guerriglia urbana, accompagnati dalla crescente diffusione di attentati e violenza, dall’altro lato, la Sardegna e con essa i “piciocus” non erano immuni dal respirare, se pur in maniera più lieve, la pressione dei venti rivoluzionari e di libertà che arrivavano dal vicino “continente”.

Sono anni importanti gli anni ’70, sono quelli durante i quali, la maggior età viene portata da 21 a 18 anni, il divorzio viene legalizzato, viene garantita la tutela della donna e la parità tra i coniugi, muore Pier Paolo Pasolini. Anni in cui in Italia va in onda l’ultima puntata di Carosello e di li a poco la Rai avrebbe dato inizio alle trasmissioni a colori. Anni in cui debuttano, sugli schermi italiani, i cartoni animati giapponesi e in cui Pertini, eletto presidente della Repubblica, ricorderà nel suo discorso, l’assassinio di Aldo Moro. Sono anni in cui si approva la legge Basaglia che abolisce i manicomi, e anche se con molte polemiche, quelli in cui si approva la legge sull’aborto. Sono gli anni in cui le Brigate Rosse assassinano Aldo Moro, mentre, in quello stesso giorno, muore a Cinisi, ucciso dalla mafia, Peppino Impastato.

La forza di questa spirale terroristica che contraddistinse l’intero decennio, non risparmia, di certo, la vita sociale e politica della nostra isola, in cui la protagonista indiscussa era rappresentata dall’anonima sequestri o anonima sarda dedita, in quegli anni, ai sequestri di persona: nessuno di noi dimentica il sequestro del cantautore ligure Fabrizio De Andrè.

Piciocus” sono figli della fine di un “boom economico” segnato dal declino di alcune aree industriali nell’economia dell’isola cui segue un grave crollo della produzione e una inesorabile perdita di migliaia di posti di lavoro che provocano ulteriori disgregazioni sociali. “Piciocus” sono anche lo specchio di quei mali irrisolti di un’isola che dietro i trionfi positivi del Cagliari di Gigi Riva non nascondono il corso inarrestabile di un mutamento di costumi in cui emerge con forza il sentimento di riscatto e di orgoglio identitario. “Piciocus” sono la svolta sociale che, grazie ad una maggiore scolarizzazione dell’intera società sarda, fa si che la Sardegna possa abbandonare gli ultimi posti tra le regioni italiane, non certo per livelli di reddito e di prodotto interno lordo pro-capite. “Piciocus” sono i primi ad essere colpiti dai processi di modernizzazione che coinvolgono la Sardegna, soprattutto a causa dell’omologazione indotta dalla televisione e da modelli socio-economici diversi da quelli tradizionali.

Da un paesaggio marino, estivo del Lido-Crema degli anni ’70, meta ambita dei cagliaritani, “militarmente” protetto da speciali guardiani cui bisognava sottostare, alla realtà scolastica e sociale cagliaritana e non, emergono, di riflesso e con forza, i rapporti emotivi di partecipazione collettiva che legavano i piciocus al proprio ambiente; tra disagi e difficoltà, gioie e dolori, paure e coraggio, i piciocus si abbandonano al sentimento della socialità andando alla ricerca dei rapporti di parità con i coetanei e verso forme ideali di amicizia che non rispondono più alla necessità di avere solo compagni con cui giocare e divertirsi ma amici con cui coltivare ideali e condividere idee.

Piciocus” appartengono agli anni ’70, ad un periodo storico italiano particolarmente vivo, ad una Sardegna in cui ciascun “piciocu”, ancora, si sentiva padrone a casa propria, di ogni angolo, di ogni via, di ogni ciottolo!

Abbiamo incontrato e domandato agli autori come nasce l’idea di Piciocus

Francesco Abate: “Gli autori hanno lavorato a questo progetto in volontariato, hanno regalato i propri racconti alla casa editrice “Caracò” fondata e diretta da Mario Gelardi, amico del cuore di Roberto Saviano e che con Roberto, ben prima che Gomorra diventasse un romanzo, scrisse Gomorra, innanzitutto, come opera teatrale. Roberto ne fece poi il grande libro che tutti noi conosciamo. Mario continua ad essere un registra teatrale però, negli incontri che ha avuto con diversi scrittori e anche con me, ha maturato l’idea di voler iniziare un nuovo percorso editoriale.

In un momento in cui i piccoli, che siano librai o editori, sono in difficoltà perché devono fare i conti con un mercato globale e con quella che è la grande distribuzione, noi come scrittori ci siamo chiesti: “Cosa possiamo fare?” Non possiamo dimenticare la polemica, di pochi mesi fa, partita proprio dai librai sardi che lamentano una non correttezza da parte delle grandi case editrici per i il fatto di immettere un libro di un grandissimo autore, immediatamente, con uno sconto cosi alto che a loro, ai librai, non resta veramente niente, se non distribuirlo, incassare e ridare i soldi. Ricorderei, innanzitutto, Michela Murgia che ha fatto una grandissima assemblea a Sassari per una libreria che stava chiudendo, in cui ognuno di noi ha portato una testimonianza in difesa delle librerie di quartiere, dei piccoli editori, perché non può esserci spazio soltanto per ciò che vende tantissimo o che sta in classifica, ci deve essere anche la piccola editoria e noi piccoli scrittori.

Detto ciò, abbiamo deciso di regalare un libro a Mario. E mi sono chiesto: “ma che libro possiamo regalargli?” E come tutti noi che stiamo ore ed ore su internet, nei momenti di pausa, incappo casualmente, in questa bellissima fotografia scattata da Daniele Longoni, nel quartiere di “Is Mirrionis”. Se questo libro ha una primogenitura è, a sua insaputa, proprio di Daniele Longoni che scatta questa fotografia e la mette su internet.

Raccontiamo storie di ragazzini!”, questo mi venne in mente. Volli che a raccontarle fossero degli amici che, nel frattempo, sono diventati scrittori, ma con i quali realmente ho condiviso l’adolescenza. Io, Paolo e Gianluca abbiamo fatto il ginnasio e il liceo insieme, quindi più ragazzini di cosi si muore. Con Gianni invece da ragazzini, abbiamo percorso, in lungo e largo, non i corridoi del Dettori, ma palchi, sottopalchi e retropalchi, perché entrambi appassionati di Rock. Composta questa squadra, ho deciso che l’ultimo tassello potesse essere quello di un racconto che si differenziasse dai precedenti, improvvisamente, scritto da Silvia Sanna, una giovanissima scrittrice ed editrice sassarese che ho conosciuto quando era ragazzina. Mi piaceva l’idea di dare questo sguardo diverso.

Il progetto Piciocus non termina qui, ma prevede un’ulteriore pubblicazione di Piciocus 2 su cui stiamo lavorando. Il mio ruolo è quello di fare un po’ da collante su una memoria che non è solo dei cinquantenni, ma anche dei quarantenni e dei trentenni, di ricomporla e conservarla”.

Gianni Zanata: Il progetto “Piciocus” nasce da un racconto di Francesco Abate che stava “cercando casa” e che ha trovato forma definitiva in questo raccoglitore di storie legate all’infanzia, alla fanciullezza e all’inizio dell’adolescenza. La storia che racconto insieme a quella di Gianluca Floris si differenzia dal tenore e dal registro narrativo degli altri racconti, più divertito e divertente. I nostri (il mio e quello di Gianluca) hanno toni più malinconici.

La storia è ambientata temporalmente dal giorno in cui viene rapito Aldo Moro, nel 1978, al giorno in cui viene ucciso. In questo arco di tempo si sviluppa la trama che vede coinvolti due adolescenti immersi nel clima degli anni di piombo. È una storia che mi appartiene, in quegli anni stavo per compiere sedici anni. In essa ho voluto richiamare alcune sensazioni, stati d’animo, profumi dell’epoca che hanno segnato, presumo, l’adolescenza di molti. Ho ben nitido quel periodo, rivolte studentesche universitarie, diverse da quelle del ’68, molto più gioiose, più fantasiose, che ho vissuto come studente liceale, in modo diverso dagli studenti universitari. La partecipazione e il coinvolgimento alle manifestazioni erano sentite in maniera forte da tutti. Erano anni di piombo, bastava ascoltare anche un telegiornale per sentire immediatamente la tensione di quei fatti; non passava giorno in cui non arrivasse notizia di un nuovo morto. Il dibattito tra i ragazzi era molto acceso e forte, se ne parlava a scuola e anche fuori dalla scuola. Ricordo sicuramente insieme a questa, anche una dimensione giocosa con i compagni d’infanzia legati al quartiere d’appartenenza, a ridosso del quartiere di Villanova. La storia che ho raccontato appartiene al ricordo di quella sensazione parallela, da una parte giocoso dall’altra più serio. Il semplice parlare di lotte armate o di proteste o di latitanza, all’epoca, non era una cosa cosi strana da sentire; forse oggi sarebbe da matti sentire parlare qualcuno in questi termini. Ricordo che a scuola un’insegnante di italiano a cui devo molto, ci fece affrontare un tema dell’attualità come il terrorismo. Nel mio tema ricordo di essere giunto ad una conclusione che per quanto non piacque all’insegnante, generò un proficuo dibattito in classe: “L’uso della forza e delle armi era compatibile con la ricerca di un miglioramento e di un sistema migliore”. Non giustificavo il terrorismo ma le conclusioni cui giunsi crearono una certa inquietudine”.

Paolo Maccioni: “Ho trovato da subito stimolante la richiesta di partecipare alla raccolta collettiva, con un racconto sui piciocus del passato, da parte di Francesco Abate, anzi, approfitto del cortese spazio che mi concedi per ringraziarlo. Tuttavia ho pensato che non fosse necessario attingere obbligatoriamente ai miei trascorsi individuali. Piuttosto era più interessante inventare una voce narrante che mettesse insieme cose che ho vissuto di persona, ma anche viste, sentite, vissute dai miei coetanei, da chi è stato ragazzino a Cagliari nella seconda metà degli anni 70. Insomma: fittizia, ma fededegna. Una voce narrante che, volendo, potrebbe essere quell’altro me stesso che io (al pari di tanti) sarei potuto essere se la vita avesse preso un’altra piega. L’importante era dar voce alla memoria collettiva della Cagliari di quell’epoca, in un quartiere (Monte Urpinu) che trentacinque anni fa era molto più popolare e promiscuo di quanto non lo sia oggi. Molti dei personaggi del racconto hanno avuto per davvero il triste destino che ho raccontato. In fondo “su piciocu de buttega” che racconta in prima persona è uno che ce l’ha fatta, ma che ha sfiorato la strada del non ritorno.”

Gianluca Floris: Un bambino come un altro” racconta del conflittuale rapporto del protagonista con la scuola e i suoi coetanei. Luca da piccolo odiava la scuola a tal punto da riuscire ad ammalarsi a comando, apposta. Ai numeri preferiva ascoltare la radio e, a sfinimento, le fiabe sonore dal suo mangiadischi rosso, tutto pur di sfuggire a quella infame galera che per lui era la scuola. Il suo vero unico nemico era la scuola. L’unico momento di felicità di Luca era rappresentato dal percorso che ogni mattina, tenendo la mano alla mamma, faceva verso la scuola, un viaggio talmente bello da essere più appagante di una crociera nei mari del sud. Cosi Luca impara a leggere “i profumi” della città osservando con una certa invidia tutte le persone che pur lavorando (bottegai, meccanici, panettieri) erano libere di vedere il sole, girare per strada, non come lui che stava per entrare in galera, a scuola. Luca era curioso e ascoltava con una certa curiosità le notizie trasmesse dal telegiornale e cosi alla giovane età di dieci anni era già in grado di conoscere il funzionamento delle camere, del governo, delle elezioni e dell’andamento politico dell’epoca. Nulla poteva convincerlo di essere uguale ai propri coetanei verso i quali non provava alcuna affinità e somiglianza. Era un bambino come gli altri ma con una curiosità irrefrenabile verso un presente difficile da capire appieno”.

Silvia Sanna: Ho preso pezzetti di vita vissuta da me e da altre persone e pezzetti di vita immaginata basandomi su un prototipo di sassarese della middle class di Sassari vecciu su cui ovviamente ho calcato la mano (ma neanche troppo). In ogni caso, invito ad andare a Platamona a ferragosto, per confermare la veridicità dei miei racconti sugli epici pranzi di famiglia nella spiaggia dei sassaresi. Tutto basato su pietanze dietetiche come lumaconi al sugo, pasta al forno, polpi ‘soffocati’, frattaglie di ogni animale e cose così. E’ bellissimo, soprattutto, sentire i commenti delle mamme sassaresi davanti alla classica turista bergamasca che pranza con una mela. Se le va bene, passa per appestata. Per quanto riguarda i nomi assurdi che i genitori mettono ai bambini, invece, sono stata una maestra (prima delle falciate della Gelmini) e i registri di classe sono fonti inesauribili di titoli di coda delle peggiori telenovelas argentine. Confesso, però, che anche se non c’entra nulla con le telenovelas (semmai con i film horror) che l’unico bambino del quale mi sono sempre rifiutata di pronunciare il nome si chiamava Silvio (giuro). Piuttosto attraversavo tutta la classe schivando zainetti e banchi e gli toccavo la testolina per richiamare la sua attenzione. Ma non ho mai pronunciato il suo nome in un intero anno scolastico. Per quanto riguarda invece il linguaggio abbastanza “pesante” (grezzo, direi) che utilizza Ramon, ho voluto fare un esperimento pseudosociologico “di genere”. Ho notato spesso, infatti, che un racconto con parolacce scritto da un uomo scatena l’ilarità dei lettori/ascoltatori, se invece è scritto da una donna, provoca imbarazzo, quasi sdegno. Questo è un sondaggio personale fatto da me, è vero, ma non è truccato. Se non altro non l’hanno annunciato al tg1 quindi è credibile. Il risultato è che mio padre ha letto tre righe di “Ramon” e credo che sia uscito per togliermi dallo stato di famiglia o, quel che è peggio, a cambiarmi nome: da Silvia a Silvio”.

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