Mamoiada (ITALIA)
Foto di Sabina Murru, testi di Tiziana Centomani
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Bastianu indossa i pantaloni di velluto e la camicia di flanella a quadri, gli scarponi da balente e la faccia da mamuthone. E’ arrivato presto il giorno di Sant’Antonio quest’anno, l’ha preso quasi alla sprovvista distratto com’era dall’ultimo esame di geometria analitica.
Graziano, lega i capelli in una coda, dopo averli girati due volte perché non cadano lunghi sulle spalle. Rasa con rabbia la peluria sottile sotto al mento mentre guarda le spalle troppo strette per legarci sopra i campanacci del nonno. Allunga la mano a prendere il pacchetto di sigarette e la maschera bianca.
Fabietto, ha bevuto veloce il caffellatte stamattina, niente scuola anche se è lunedì, prova la faccia dura nel riflesso del vetro della macchina, non ha paura dell’uomo nero lui, lui sarà un mamuthone da grande e ad ogni buca sente il suono dei piccoli campanacci che ha sulla schiena.
A Mamoiada in Barbagia, orgogliosa regione della Sardegna più interna, distante dalle coste e dalle pagine patinate delle riviste da sala d’attesa, il carnevale conserva riti secolari. I protagonisti sono i “mamuthones”, giovani e vecchi barbaricini che indossano con fierezza velli scuri appesantiti da un lucente grappolo di catenacci che fanno suonare muovendosi a passo cadenzato. Al loro fianco eleganti figure maschili vestite di rosso in maschera candida, gli “issochadores”, governano il corteo, sopravvivenza di un arcaico rito legato ai culti agrari della propiziazione.
Bastianu, con la sua laurea prossima in Ingegneria Ambientale; Graziano, con l’animo da mamuthone e le spalle troppo strette; Fabietto, con i suoi otto anni scalpitanti; si avvicinano in formazione al primo delle decine di fuochi che li attendono oggi… uno, due, tre giri… taradà…taradà… taradà…dadà dadà… Un nuovo fuoco, un nuovo anno… e che il futuro sia migliore, forse questo rito non serve, o forse si.
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