Articolo di Daniele Carbini
Se c’è una cosa del mio lavoro che detesto è proprio questa, la sveglia. Già, perché quando va bene suona alle 6, privilegio raro in verità. Di solito suona alle 4 o alle 5. E giù bestemmie e insulti, tutte le mattine, domenica inclusa. Ogni volta non so dove sono, non so chi sono, non so niente, vengo strappato con violenza dal suono penetrante e persistente che arriva dal cellulare. In stato di semicoscienza, o di totale incoscienza, questo è da stabilire, clicco sul display la funzione snooze.
Lo faccio con disperazione autentica, altri otto minuti di sonno, ti prego, ne ho bisogno. Così per almeno tre volte, tre lunghe tormentate valanghe di insulti al mio lavoro, ai tempi, a questa vita. Mi metto in piedi in ritardo, sempre, entro nella doccia, a volte, non sempre, preparo un caffè e mi fumo una sigaretta. Esco eseguendo gesti automatici, solo quelli, non credo esista un mio solo neurone veramente attivo. Ho gli occhi stretti, l’umore devastato, l’umido della strada che mi penetra nelle ossa. Poi, superata la prima mezz’ora comincia a cambiare un po’ tutto. Inizia l’attivazione delle cellule nervose, i muscoli e le ossa rispondono, i sensi fibrillano. E mi piace, la mattina presto, con il suo rumore di cittadina ancora dormiente, rilassata. Amo stare in strada e trovare pochissimo o addirittura nessun traffico e godermi il pieno della nascita dell’alba, le prime luci dell’aurora, prima ancora che il sole faccia capolino in cielo, vederlo palla rosso fuoco spuntare dai monti, dal mare, donando luce al mondo.
E di queste cose il mio lavoro non può rendere conto, non lo puoi trasmettere nelle immagini in sequenza di un servizio televisivo, non vi è musica che possa trasmettere la quotidiana nascita del giorno, non ce la fai proprio a ricreare quello spettacolo. Un tocco di arte certo può riuscire a trasmettere emozioni profonde e simili, forse le stesse, ma usando altri metodi, stimolando altre corde. Questo è il mio lavoro. Trasformare la realtà, distorcerla, modellarla per offrire pezzi di vita veri, ma sempre e solo dal punto di vista della prospettiva che decido deliberatamente di scegliere.
Sono una bestia.
Come tutti. Nessuno escluso nel mio mondo. Siamo animali consapevoli. Siamo noi che decidiamo cosa ha vita e cosa ha importanza. Ogni giorno ho un tema, un servizio da creare, una notizia da realizzare, un seguito da alimentare in ogni casa ed in ogni locale. Se io decido che va in televisione allora quella è vita di interesse pubblico. Ne decido anche il ruolo. Decidiamo tutto nella televisione, se protagonista o se comparsa, se angelo o se diavolo. Siamo artisti del pensiero e siamo bestie subdole, meccanismi di un ingranaggio molto più grande del nostro reale controllo, non ci possiamo ribellare. Non sono ammessi scrupoli o rimorsi di coscienza, il grande animale della tv prima ti sbrana e poi ti dimentica.
Lo sappiamo bene quale è la nostra influenza e mi fanno ridere quelli che ci credono morti, che dicono che internet è più globale e ci farà fuori. Su internet si sono tutti, indiscriminatamente. Nella rete non sei mai veramente personaggio pubblico, non sei mai influente, mai in esposizione, è pia illusione. Ma se decidiamo che vai in tv la tua vita cambia, qualunque cosa tu abbia fatto, non importa. Basti vedere quando si organizza un convegno o qualunque altro evento pubblico. Prova a mettere come ospita un personaggio da noi plasmato. Prova. Centinaia di umane assiepati e pronti a vedere, ad ascoltare, ad applaudire o indignarsi, pronti sempre e comunque a parlarne, a stare sulla bocca di tutti. Siamo noi a decider i gli interessi di una nazione, che si sappia, che lo si capisca.
Questa mattina sono diretto a Bitti, paese di altura, paese colpito dall’alluvione come tanti altri, luogo devastato, scavato, mangiato dalla furia dell’acqua, che ha creato autentiche gallerie sotto le case, sotto la piazza, sotto le strade. Acqua e fango che si sono portati via qualunque ostacolo, senza ritegno. Gli abitanti sono ancora pieni di paura, ebbri di natura e di sgomento, carne pronta ad essere macinata dalle nostre cineprese. Ho scelto Bitti perché se la osservi sembra ancora incantata ed integra, sembra quasi che non le sia capitato nulla. Peccato, per loro, che sia rimasto solo un sottile strato di mattoni e asfalto e che sotto sia il nulla. Basta una nevicata per vedere mezzo paese crollare come un castello di carte vittima di un alito di bimbo.
Guido e penso che nemmeno un film americano poteva offrirmi una sceneggiatura tanto tragica e spettacolare. Elaboro pensieri e scene, interviste, slogan da mettere strategici nei titoli di servizio. Penso agli stereotipi da alimentare ad arte, gonfiarli di pathos, penso ai carnefici migliori, coloro che hanno vissuto troppo tempo addietro, quelli che hanno costruito più di un secolo fa, quelli che ormai non ci sono più e che non potranno difendersi, eroi da maltrattare senza riguardo, carte ingiallite e spezzate da tirare fuori meglio di un tesoro nascosto. Penso alle colpe che non si possono perdonare. Farò di Bitti il personaggio televisivo della settimana, ne parleranno anche in Cina e in Australia. Se non ci fossi io, con tutto il mio squadrone al seguito, se non ci fossero i giornalisti della carta, appesi come parassiti alle nostra immagini, pronti ad ogni possibile spunto, ad ogni personaggio secondario ma affascinante da rendere in copie vendute, da trasformare nel libro di Natale, il mondo girerebbe in modo diverso e, soprattutto, le decisioni sarebbero profondamente razionali e piene di buon senso.
Ma sono io, con la mia arte visionaria a scatenare un terremoto pubblico e non ci sta politico che non sia sulla graticola a dover rendere conto di cause in cui non ha nessuna colpa o competenza. Sono io con la mia televisione a creare pressione, a modificare le sentenze, perché noi dentro una sala di montaggio alimentiamo il sentimento popolare e la sete di giustizia. Sfamiamo il morboso richiedere del misfatto e del colpevole, dello stregone da condannare, ché il popolo mica è mai disposto a farsi un esame di coscienza, a cercare dentro di sé il percorso del proprio dissennato male, la sua connivenza. Sarebbe insopportabile per il popolo, che deve sempre esplodere fuori di sé gli errori e sentirsi benedetto, impotente ma giusto fra i giusti.
Ho lavorato fino a fare buio, inviato in redazione video, testi, interviste, linee guida di sviluppo e montaggio. Poi mi sono messo in auto sulla strada del rientro. Vai a pensarci tu che anche lì, in molti punti, è rimasta solo la traccia di asfalto e sotto è rimasto il nulla. Vai a crederci tu che proprio mentre ci passo io dieci metri di lingua nera decidono di mollare in un solo istante e portarmi giù con esso, di farmi ribaltare in volo e schiantare su rocce e terra e arbusti e poi rotolare, saltare e ancora rotolare, per più di centro metri.
Vai a realizzarlo un simile scenario beffardo, per me, solo per me. Immagina di trovarti incastrato in un groviglio di lamiere e airbag esplosi, immobilizzato da una stoica cintura di sicurezza. Trovarsi vivo, ansimante, con il sangue che va a perdersi in mezzo alla terra, come a voler alimentare un cuore antico e farlo pulsare, fargli esalare un respiro nuovo, ma severo, fatto di humus pesante, di condanna. Ci sono rimasto secco, sì mi sono proprio seccato, prima che riuscissero a trovarmi i vigili del fuoco, credo nemmeno una goccia di sangue sia rimasta nel mio corpo, mi ha proprio abbandonato come si fa per un reietto. Secco e gelido come il male peggiore. Ora sono io la carne da macello, sono la vittima che cercavo nel mio servizio.
E cazzo io non sono più il regista, non sono più il maestro di marionette del popolo.
Maledetta tv.
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