Naufragar
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di Daniele Carbini

Sta seduto in cima ad una collina. Di fronte ha un cespuglio che gli copre parzialmente la vista. Oltre, il panorama è una pianura che non finisce mai. Piatta e anonima. Ha appena vissuto un’esperienza sensoriale comune ad ogni essere umano. Solo che lui “non si accontenta della verità in forma di tautologia, ossia non si appaga di gusci vuoti, baratterà sempre verità e illusioni.”1 Egli, l’uomo che siede su questa collina, è un artista e un pensatore, è un poeta. E ha a disposizione un mezzo formidabile, la parola.

Nietzsche, in un saggio giovanile carico di genio, Su verità e menzogna in senso extra-morale, ci svela che il mondo della conoscenza (della verità) non è altro che un costrutto mirabile di metafore. Ci dice che tutto parte da uno stimolo nervoso, che diviene immagine (prima metafora), poi parola (seconda metafora) e infine diventa senz’altro concetto. In questo processo la parola smette di servire l’esperienza individuale e personalizzata per adattarsi al tempo stesso a casi più o meno simili. Succede che “le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete.”2

Ma sempre Nietzsche ci ricorda che quest’impulso a creare metafore, “da cui non si può prescindere nemmeno per un istante, poiché in tal modo si prescinderebbe dall’uomo stesso”3 trova rifugio nel campo d’azione dell’arte. Ed è qui che troviamo il nostro personaggio, seduto sulla collina, quest’artista che non si accontenta delle tautologie né tanto meno dei concetti. Non trova appagamento, sente l’esigenza di scatenare la sua immaginazione e, attraverso essa, trasfigurare la realtà al fine di trasmettere appieno la sua esperienza a noi, che lo leggiamo. In ciò risiede la grandezza e la meraviglia dell’arte. Grazie alla sua opera anche noi riusciamo a provare un’esperienza che non è più mera tautologia e guscio vuoto, ma un sogno, talmente vivido da avere una consistenza tattile. Per fare tutto questo, il nostro amico, sceglie la metafora più potente che il linguaggio conosca, l’immagine più seducente e dolce, la più inquietante e paurosa.

Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.4

Il nostro amico, Giacomo Leopardi, ci fa conoscere l’infinito. Ce lo fa conoscere con il mare. Ce lo fa sentire con le sue caratteristiche fondamentali e più pregnanti. L’immensità, in cui annegare, luogo in cui naufragare. E noi capiamo tutto, sentiamo tutto. Curioso, perlomeno, notare come questo infinito in cui siamo stati gettati sia dolce, praticamente liberatorio e rappacificante, quando invece situazioni di immensità dovrebbero intimorirci, crearci un poco di paura, ancor di più a fronte di un annegamento nel bel mezzo di un naufragio. Non succede, l’esperienza è sognante. Il mare appare calmo, in quella superficie piatta come l’olio, un deserto liquido e seducente, che ci culla con le sue onde leggere e lunghe, quel massaggio costante che ci rilassa, come abbracciati da una Grande Madre, ci fa sentire al sicuro. Il mare ora è quel luogo in cui possiamo perderci e sentirci a nostro agio, senza colpa, lontani dai problemi quotidiani, in grado di mettere ordine alle nostre idee, ne usciamo rinvigoriti.

Stiamo sdraiati su quest’acqua accogliente, siamo sulla sua superficie, stiamo a galla, ne respiriamo il profumo salmastro, ne percepiamo il sapore, sentiamo il suo rumore lungo e ipnotico, misterioso. Non si vorrebbe più andare via. Poi, improvvisamente, una piccola onda ci sovrasta il capo, ci fa sobbalzare e le sensazioni del corpo cambiano. Radicalmente. Il mare si trasforma, dal profondo delle sue viscere arriva un suono cupo, diventa presto minaccioso. Le onde cambiano il ritmo, si fanno brevi, alte, travolgono. Ci destiamo dal sogno in cui ci ha imprigionato e quelle sensazioni liberatorie di immensità e naufragio solitario diventano motivo di terrore e disperazione. Ecco che il mare non è più mare, è abisso. Qui viene fuori la seconda metafora potente, tanto da essere devastante, destabilizzante, luogo in cui ogni certezza perde forza, si fa mobile, incapace di offrire anche un barlume di rassicurazione. Dio che muore, annunciato dall’uomo folle in piazza, a mezzogiorno, con la lanterna accesa, trasforma la folla in un mulinello di abisso, tutti i valori perdono solidità.

E ancora, il funambolo del preambolo di Zarathustra, danzatore sulla fune tesa tra le due torri, perde l’equilibrio e cade su una folla prima ipnotizzata dall’arte poi fatta abisso in cui provare lo sgomento. Si prova lo stato d’animo fondamentale dell’angoscia, straordinariamente descritto da Heidegger in Che cos’è metafisica? Ovvero quel qualcosa che è diverso dalla paura, perché “noi abbiamo paura sempre di questo o di quell’ente determinato, che in questo o in quel determinato riguardo ci minaccia. La paura di… è sempre anche paura per qualcosa di determinato.”5“Certo, l’angoscia è sempre angoscia di… è sempre angoscia per…, ma non per questo o per quello. Tuttavia l’indeterminatezza di ciò di cui e per cui noi ci angosciamo non è un mero difetto di determinatezza, bensì l’essenziale impossibilità della determinatezza. Essa appare nella seguente, ben nota interpretazione. Nell’angoscia, noi diciamo, <<uno è spaesato>>. […] Non rimane nessun sostegno. Nel dileguarsi dell’ente, rimane soltanto e ci soprassale questo <<nessuno>>. L’angoscia rivela il niente.”6 Ecco dunque il mistero del mare-abisso, del perché sia metafora tanto utile all’arte del pensiero umano. Il mare-abisso è metafora dell’animo umano e delle sue oscurità e provoca in noi le stesse sensazioni, lo stesso caos e gli stessi mulinelli, la stessa seduzione irresistibile e la stessa bellezza ipnotica. La maschera della bellezza apollinea che nutre dentro di sé la bestia dionisiaca. Si svela quel niente che è disvelamento e fondamento dell’esser-ci. Quel nulla manifestato dal nostro personaggio iniziale, Leopardi, quello stesso nulla venuto fuori con Nietzsche, quel nulla che viene fuori con l’angoscia di Heidegger. Quel nulla che è il fondamento e casa dell’essere. Che poi è ciò che succede quando si viene presi di soprassalto da un attacco di panico. E se ci fate caso spesso i nuotatori professionisti, campioni indiscussi che danno del “tu” all’acqua, sono vittime dell’invasione di un attacco di panico. Chi ha provato l’esperienza sa bene che sta provando una paura folle, improvvisa, ingiustificata; sa bene di non essere in grado di dire che ha paura di una cosa specifica, ma solo che sta provando un’angoscia terribile senza forma, inattaccabile, proprio come l’abisso del mare. La paura di un attacco di panico è la paura della paura, il mostro senza volto, che soffoca e che convince che la vita stia finendo proprio in quel preciso momento, che non ci sia nessuna possibilità di salvezza. L’attacco di panico è proprio questo: la volontà di vivere, la voglia di vivere, attaccata frontalmente dalla paura della morte. Il mare è la metafora di questo incredibile stato d’animo estremo, da cui se ne viene fuori solo imparando a danzare sull’abisso. Qui risiede il grande insegnamento di questa metafora a due volti (mare/abisso): prendere consapevolezza che le certezze su cui muoviamo i nostri passi non sono affatto un pavimento solido su cui fare affidamento, quanto piuttosto una creazione illusoria di verità trasfigurate dall’arte della parola, che il vero trucco consiste nell’imparare a vivere senza un fondamento, un luogo dove l’uomo è un artista che crea un entusiastico consenso alla vita, un pittore che dipinge il mondo, senza illudersi di avere costruito verità eterne ed inamovibili, ma solo semplicemente fatto il fanciullo che gioca a dadi con il mondo.


 

1 F. W. Nietzsche, “Su verità e menzogna in senso extra-morale” in La filosofia nell’epoca tragica dei greci, Adelphi, 1991, pag. 230.

2 ibid., pag. 233.

3 ibid. pag. 240.

4 Giacomo Leopardi, L’infinito, Rizzoli, 1988, pag. 93.

5 M. Heidegger, Che cos’è metafisica, in Segnavia, Adelphi, 1987 pag. 67.

6 ibid. pag. 67.

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