Pensare alla Morte, in questi giorni dove ogni azione è strettamente legata al tempo, dove ogni cosa ha collocazione programmata, è pensare ad una fine della vita. Fine dei gesti, del viaggio.
C’è stato un tempo in cui la Morte altro non era che un semplice atto della vita stessa. Vita e Morte non erano opposti, ma tappe di un unico percorso. Lo scorrere dell’esistenza che ha inizio prima della nascita e che prosegue dopo la morte in direzione continua e circolare.
Siamo portati a intuire la vita come un segmento con un inizio dato dalla nascita e una fine, la morte. Ma dall’osservazione delle varie rappresentazioni del mondo che si hanno in epoche arcaiche s’intuisce che tutto veniva visto come uno svolgersi ciclico e in costante mutamento senza soluzione di continuità.
Per anni le mani delle donne hanno accompagnato i momenti più importanti della vita dell’umanità tramite un gesto che le ha rese protagoniste silenti: la tessitura. I tessuti sono stati intrecciati da mani abili e instancabili e hanno offerto caldo tepore al nascituro e ultima sosta, su questo mondo, al defunto.
Esiste infatti un tipo particolare, e particolarmente raro, di prodotto tessile che in Sardegna veniva usato per la veglia funebre, dove il defunto veniva adagiato e che aveva la funzione, tramite simboli abilmente tessuti, di propiziare un passaggio nel luogo dei morti. Simboli che sono simili e forse derivanti da quelli delle Domus de Janas e da tutta la cultura precristiana sarda. Su Tapinu de mortu è un’interessante e ancora non del tutto chiara “anomalia” nella tradizione tessitoria sarda. Anomalia in quanto esistono pochi esemplari conosciuti, ma che comunque hanno permesso di capire quale fosse il loro utilizzo e perché era un manufatto che raccoglieva in sé riti e credenze pagane, formando una sorta di tradizione parallela a quella che è stata la tradizione cristiana. Se ne deduce che questa tradizione è rimasta invariata per molto tempo nonostante l’avvento e il “dominio” della cultura cristiana nell’Isola. Esisteva una tradizione che si è protratta fino a non troppi anni fa, in cui il defunto, deposto su questa sorta di coperta, veniva vegliato. Is attittadoras, le prefiche, ne cantavano la vita e ne piangevano la scomparsa tramite una cantilena in rima.
Un’usanza questa che sembra essere stata attiva soprattutto nelle zone settentrionali dell’Isola, dove è presente appunto, su tapinu de mortu. Una variante di questo tappeto/coperta (tappeto pare essere una definizione inesatta linguisticamente) sono is Fressadas, che differiscono dal primo per provenienza, Oliena e zone limitrofe quest’ultime, Orgosolo il primo, e per la lavorazione eseguita su due telai differenti, orizzontale e verticale. Ciò che accomuna questi drappi funebri sono le simbologie rappresentate, che servivano ad accompagnare, talvolta sospingere, il defunto verso l’aldilà. L’albero della vita che rappresenta il continuo mutare dell’esistenza, passando dalle radici, che rappresentano la terra, per il tronco e infine per i rami, che a loro volta simboleggiano acqua e aria. La mutevolezza dell’esistenza quindi, non la durata e il termine. Il cervo, che funge da psicopompo, spesso in coppia, in modo che con più forza venisse sospinto nell’oltretomba per evitare che il morto restasse in una sorta di non passaggio e tormentasse i vivi. Dee madri partorienti, uccelli, simboli di vita e di morte spesso in simbiosi fra loro. Si sono trovate molte similitudini con i Kilim anatolici, che presentano lo stesso tipo di lavorazione, questo non deve stupire visto che gli scambi nel mediterraneo sono avvenuti con frequenza in epoche diverse.
Il drappo funebre faceva parte del corredo della sposa, soprattutto nelle famiglie agiate; essendo un manufatto di pregio e che non tutti possedevano era uso chiederlo nei momenti del bisogno e renderlo ai legittimi proprietari dopo l’uso. Sembrerà strano, in un’ottica moderna, che alla sposa venissero consegnati oggetti legati alla morte, essendo noi così abituati a disgiungere ogni evento della vita dagli altri. Ma se s’immagina la vita come uno scorrere, tutti i più grandi eventi fanno parte di un’unica esistenza, e a tutti bisogna essere preparati. Non sorprende quindi che in molti Tapinu de mortu ci siano delle linee a zig zag in lunghezza, che rappresentano lo scorrere dell’acqua, della vita quindi, sui quali il defunto veniva posto come ad essere trasportato ulteriormente al di là dell’esistenza stessa. Questi drappi venivano custoditi gelosamente, e pare che ancora oggi qualche famiglia ne possieda qualcuno, come oggetto intimo che non debba essere esposto. Il pregio della tessitura, la provenienza centenaria, l’uso per il quale è stato concepito giustificano forse quest’atteggiamento di riserva nell’esporre questi drappi. Essendo dei tessuti di gran pregio spesso si univa il loro scopo in un’unica coperta “per le grandi occasioni”. In questo caso il tessuto conteneva al suo interno simboli di vita e di morte, di fertilità (l’uva per esempio) e di passaggio. Queste coperte venivano utilizzate in particolari eventi, dove la coperta adagiata sul letto il giorno delle nozze si trasformava in drappo propiziatorio durante il parto, che spesso avveniva davanti al fuoco – per offrire l’anima del nascituro al dio fuoco – e che nuovamente offrivano un dolce passaggio al defunto in un cerchio senza fine, dove il tessuto è il tratto d’unione di eventi tragici e gioiosi, capace di avere una connotazione per ognuno di questi. Da notare come la coperta in sé non abbia valore senza la presenza umana, senza effettivamente uno o più esseri umani che ne esplicitino la funzione.
Le datazioni dei tapinos de mortu oggi conosciuti va dal ’700 all’800. Questo ci fa pensare che il loro utilizzo è sicuramente anche precedente, visto anche i riferimenti a divinità assolutamente pagane in un’epoca dove il cristianesimo era più che radicato in Sardegna, e si è protratto fino alla metà del novecento. Tuttora si usa in alcune zone disporre di lenzuola di pregio da tenere per eventuali lutti, l’ ipotesi è che siano una mutazione dell’uso de su tapinu de mortu. E’ ancora poca, a mio avviso, l’attenzione che si dedica all’importanza di questi manufatti, che hanno accompagnato la vita dei nostri avi e che hanno un profondo valore culturale, latori di tradizioni dove il tangibile e l’ultraterreno trovavano un punto d’unione. Grazie all’appassionato lavoro di molte persone possiamo documentarci e addirittura osservare i manufatti, occasione che consiglio a tutti di cogliere.
In Sardegna è possibile osservare questi manufatti centenari grazie a qualche museo che è riuscito ad ottenere degli esemplari. Il Museo Unico Regionale dell’Arte Tessile Sarda (murats.it) possiede ben cinque Tapinos de mortu e tre Fressdas ottimamente conservati, delle quali è possibile conoscere la datazione indicativa (il più antico pare sia del ‘700) e che vedere con i propri occhi sicuramente emoziona. Altri esemplari si trovano presso la Collezione sarda “Luigi Piloni”, presso il museo Sanna a Sassari e al Museo Etnografico Sardo di Nuoro.
Bibliografia:
Tessuti: Tradizione e innovazione della tessitura in Sardegna. – Ilisso Edizioni
Artigianato Sardo, Mossa Vico – Carlo Delfino Editore
Miele Amaro, Salvatore Cambosu – Ilisso Edizioni
Sardegna Digital Library per l’immagine dei Tapinos de mortu esposti al Museo dell’Arte Tessile
Sarda, Samugheo
Si ringrazia per la consulenza la Prof. Anna Maria Patta del Museo Unico Regionale dell’Arte Tessile per la generosa disponibilità