Imbarcazione verso Kybele
Share

Il mare nello Stretto in superficie appare calmo, nonostante le correnti.

Davanti alla piana costiera dove Achei e Troiani si diedero battaglia per dieci anni, le navi ora viaggiano tranquille. I venti, le onde, le tempeste sono ancora in agguato come quando erano tenute a bada dai sacrifici agli Déi. Ma tutto il resto sembra diverso.

I grandi occhi sulla prua della nostra nave sembrano concentrati sulla rotta da tenere, come quelli del timoniere. I remi sono stati ritirati a bordo: qui il vento soffia sempre verso Sud, la nostra direzione, e la grande vela quadra è sufficiente a spingerci avanti.

Altri, prima di noi, furono meno fortunati, e dopo essere stati sbattuti sulle coste dell’Africa, dovettero penare dieci anni, per tornare. Anche noi torniamo a casa: dopo un viaggio durato tre anni, la nostra nave, con tutti i segni delle traversie subite, ha preso finalmente la via del ritorno. Ha il nome di una Dea, anzi, della Madre degli Déi, la Dea Madre per eccellenza, signora degli animali.

I rematori seminudi si riposano in coperta, godendosi il sole del mattino: anche in estate le notti sono fredde, quando si dorme sul ponte di una nave.

Ma all’improvviso si sente il richiamo di una sirena, prima lontana, poi più forte, e il ponte si anima: il timoniere vira bruscamente, la vela si sgonfia, la nave rallenta. Una modernissima corvetta lanciamissili della Marina Turca accosta, ci gira intorno, e saluta, facendo urlare di nuovo la sirena: non succede tutti i giorni, neanche nei Dardanelli, di fronte alle rovine di Troia, di incrociare una bireme del VI secolo a.C.

Kybele”, così si chiama la nostra nave, è la ricostruzione di una bireme focese, una delle navi che alla fine del Periodo Arcaico dell’Antica Grecia partirono dall’Egeo per colonizzare il Mediterraneo Occidentale. E’ nata dalla mente, e dalle mani del professor Osman Erkurt, in un progetto di Archeologia Sperimentale in collaborazione con il Dipartimento di Archeologia dell’Università di Ankara (ANKUSAM), diretto dal professor Hayat Erkanal.

Nell’estate del 2009, “Kybele” ha viaggiato da Foça, in Turchia, fino a Marsiglia, in Francia, fondata da coloni dell’antica Phokaia. La incontrai allora, mentre passava tra Punta Campanella, e le rovine del tempio che secondo Strabone Odisseo dedicò ad Atena, e Capri.

Dopo una incredibile serie di peripezie, è approdata a Istanbul, dove ha partecipato agli eventi della “Capitale Europea della Cultura 2010”, e ad una mostra sulla navigazione antica nel 2011. Poi, con 24 ore di preavviso, è partita dalla Marina di Pendik, sulla cosa asiatica della metropoli turca, diretta a Foça, da dove era partita tre anni fa, per festeggiarne l’anniversario. La telefonata attesa per tre anni mi ha fatto precipitare a Istanbul, e il giorno dopo ero tra l’equipaggio scarmigliato di una nave antica.

L’Archeologia sperimentale è l’ultima frontiera nello studio di manufatti, strumenti e veicoli antichi.

Affrontare il mare su una nave simile a quelle dell’antichità può insegnarci moltissimo sulla navigazione in quei tempi, ma ci dice qualcosa anche sulle condizioni dei naviganti.

Dormire tra i ponti, vivere in uno spazio angusto senza riparo da sole o salsedine, con poca acqua, un secchio come latrina, dà certamente l’idea delle condizioni della vita di bordo. Ma navigare a vista, in un mondo che ci è ormai familiare, non è come muoversi in un mare ignoto, senza il conforto di una carta, lungo coste forse ostili o disabitate, e ogni capacità di navigazione racchiusa nella mente del pilota, l’unico in grado di memorizzare riferimenti e rotte, di arrivare a destinazione e, con l’aiuto degli Déi, di tornare a casa.

Noi abbiamo gps, carte, bussole, telefoni cellulari e persino internet, ma anche senza tutto questo, ognuno di noi sa dove ci troviamo, conosce almeno approssimativamente la rotta e il Mare che stiamo attraversando, la posizione della destinazione. La sensazione di un marinaio o rematore del passato doveva essere molto simile a quella di un astronauta in un film di fantascienza.

Eppure i viaggi per mare avvenivano, le navi partivano, e tornavano, cariche di bottino o di mercanzie.

“Sappiamo ancora poco della Storia della Navigazione. Ma nuove scoperte mettono in discussione molte delle nostre convinzioni, e svelano una storia sempre più affascinante” racconta il professor Erkurt ad un gruppo di visitatori, durante una sosta in porto della “Kybele”, “Credevamo che fosse possibile navigare solo sotto costa, e invece recentemente sono stati trovati reperti a Cipro, a Creta e nelle Cicladi che risalgono addirittura al Paleolitico: quei navigatori non conoscevano i metalli, ma erano in grado di viaggiare per giorni in mare aperto!”

Il professor Erkurt conosce in prima persona i rischi e le possibilità della navigazione antica: prima di “Kybele”, ha ricostruito il famoso relitto di Uluburun, del XIV secolo a.C., con cui ha navigato 5mila miglia lungo le coste della Turchia e di Cipro.

“Una delle cose che ci ha sorpreso, con Uluburun II, e poi anche con Kybele, è stata la capacità di queste barche di resistere al mare. Con Uluburun II, nel punto esatto dove la nave originale affondò, incontrammo una terribile tempesta, che però ridusse a mal partito non noi, ma la barca appoggio. La stessa cosa successe con Kybele, durante il viaggio verso la Francia.”

In realtà, sia “Uluburun II”, sia “Kybele”, sono esperimenti sulle rotte e le capacità di navigazione, non di costruzione navale: entrambe sono state costruite con fasciame moderno, sia pure secondo le linee antiche, e non col sistema di “mortasa e tenone”, sorprendentemente più robusto, e più difficile da realizzare. Ma il prossimo progetto del professor Erkurt, per l’ANKUSAM del professor Erkanal, riguarda anche la costruzione: in una serie di esperimenti via via più complessi, sono state ricostruite delle ipotesi di barche cicladiche, quelle della prima civiltà marittima dell’Egeo, risalenti al 2500 a.C., fatte di tavole cucite tra loro, senza calafataggio o uso di metalli.

Su di esse, il professor Erkurt partirà per il prossimo viaggio.

“L’Archeologia studia di solito tracce lasciate da esseri umani vissuti prima di noi. Con questi esperimenti, noi siamo cavie di noi stessi per studiare non solo le tecniche, ma anche le sensazioni di uomini e donne che ci hanno preceduto.” conclude il professor Erkurt.

E quando il mondo sembra completamente esplorato, imparare a vedere con occhi diversi significa ricominciare a scoprire cose che si credevano conosciute, ed erano perdute.

Leave a comment.