Articolo di Daniela Zini
“Viaggiare è il più personale dei piaceri. […]”
con questa frase Vita Sackville-West introduce i suoi ricordi di viaggio in Persia.
“[…]
Hame-ye alam tanast va Iran del
Nist qaviyande zin qiyas khejel
[…]”
Nezami Ganjavi, Haft peykar
IX. La rivoluzione digitale
“Il web restituisce all’Iran l’immagine che merita nel mondo. Ve ne è bisogno, perché, mentre i giovani di Tehran si adoperano contro la censura del regime, a Parigi o a Londra, mi accade ancora di sentirmi chiedere se sono l’unica avvocata del mio Paese.”
Shirin Ebadi
La relazione tra internet e dissidenza non data dai blogs. Già, alla fine degli anni 1990, è, in gran parte, grazie a una astuta campagna su internet che i ribelli zapatisti del Sud del Messico poterono attirare l’attenzione della comunità internazionale sulla loro situazione disperata.
Dopo le elezioni presidenziali del 2009, la stampa internazionale si era interessata ai bloggers iraniani, che utilizzavano questo mezzo per far sentire la voce della contestazione. Numerosi erano gli internauti che facevano circolare l’informazione, nonostante la censura, in particolare attraverso Donbaleh e Balatarin, piattaforme in persiano di condivisione di links verso siti o blogs.
Partigiani di Mir-Hossein Mousavi Khameneh come sostenitori di Mahmud Ahmadinejad, tutti avevano aperto blogs sul web.
Con più di 36 milioni di internauti per 75 milioni di abitanti, l’Iran è il quarto Paese al mondo per numero di bloggers. Internet è, tuttavia, un’arma a doppio taglio: se offre agli oppositori iraniani la possibilità di farsi sentire e mobilitarsi, dà, egualmente, al governo il mezzo per sorvegliarli, braccarli e arrestarli. Durante l’ondata di repressione che ha seguito le elezioni, i computers personali degli attivisti erano stati confiscati. I tribunali rivoluzionari si erano, poi, serviti delle “prove”, così raccolte, per condannare a lunghe pene detentive gli “istigatori di una guerra contro Dio”.
Per il generale Mohammad Ali Jafari, capo delle guardie della rivoluzione islamica [sepah-e pasdaran-e enqelab-e eslami, meglio note con l’espressione guardiani della rivoluzione o, dal persiano, pasdaran], l’Iran conosce “uno stato di guerra virtuale” più pericoloso di un confronto militare. Quanto alla guida suprema, l’ayatollah Seyyed Ali Hosseini Khamenei, chiama i “giovani soldati” a combattere coloro che “diffondono voci e menzogne e seminano il dubbio e la divisione in seno alla Nazione”. Un numero crescente di agenzie di stampa, perfettamente equipaggiate e generosamente finanziate, ripetono, fino alla noia, la visione di una Nazione potente, vittima di complotti, fomentati da implacabili nemici dell’Iran. Il regime rigetta la colpa di tutti i problemi domestici sull’estero, in particolare sugli Stati Uniti e il Regno Unito e sui nemici interni al servizio di interessi stranieri.
[http://www.youtube.com/watch?v=-M-4K-8jaSY]
La lotta contro questa cybercospirazione si gioca, anche, sul terreno della vita reale.
Il regime iraniano accusa gli occidentali di utilizzare il web per condurre una “guerra non dichiarata”, che mira a destabilizzarlo e prepara un’internet completamente controllata e nazionalizzata, decisamente ristretta, che tagli fuori del mondo il popolo iraniano e si sostituisca ai servers e ai motori di ricerca stranieri.
Il 10 giugno scorso, il capo della polizia per le tecnologie dell’informazione, Kamal Hadianfar, annunciava che l’Iran avrebbe bloccato l’accesso attraverso il protocollo VPN [Virtual Private Network]. Secondo lo stesso Hadianfar, “tra il 20 e il 30% degli internauti iraniani usa una connessione VPN”, che permette l’accesso a social networks, quali Facebook, Youtube o Twitter, e a migliaia di siti stranieri bloccati dalle autorità, di cui numerosi siti di opposizione iraniani o di media occidentali. “Una commissione è stata costituita [in seno alla polizia per le tecnologie dell’informazione] per bloccare tutte le VPN illegali”, soggiungeva, precisando che “alcuni utilizzatori come le banche, i ministeri, gli organismi statali o le compagnie aeree” avrebbero potuto continuare a usare la connessione VPN per le loro attività.
Le autorità impediscono, regolarmente, l’accesso a internet, riducendo o tagliando la banda passante disponibile, particolarmente, in periodi di tensioni politiche. Il regime può contare sulle tecnologie occidentali. La società Nokia-Siemens Networks e l’impresa irlandese Adaptive Mobile Security Limited, figurano tra i gruppi che hanno fornito, alla fine del 2008, alla compagnia telefonica monopolistica iraniana la tecnologia che permette l’uso di Deep Packet Inspection per leggere o addirittura modificare il contenuto di ogni cosa, dalle “mails e le telefonate su internet alle immagini e ai messaggi sui siti di social networks, quali Facebook o Twitter”. In effetti, la percezione che la finlandese Nokia avesse fornito tecnologia, che permettesse “alle autorità non solo di bloccare la comunicazione, ma anche di monitorarla per ottenere informazioni sui cittadini e alterare i vari messaggi, perseguendo l’obiettivo della disinformazione” era abbastanza diffusa tra gli iraniani, nel periodo immediatamente successivo alle elezioni, tanto da tradursi in un vero e proprio boicottaggio dei prodotti con il marchio di Espoo. Nella risoluzione del 10 febbraio 2010, il parlamento europeo aveva criticato “fermamente le imprese internazionali, segnatamente la Nokia-Siemens, che forniscono alle autorità iraniane la tecnologia necessaria per le operazioni di censura e di sorveglianza e assecondano, così, le persecuzioni e gli arresti di dissidenti iraniani”
Nasrin Sotoudeh [http://www.youtube.com/watch?v=E4XtmX7m74A]
e Majid Tavakoli [http://www.youtube.com/watch?v=jHXqilxKNGA]
Più recentemente, una società israeliana, la Allot Communications Limited, con sede a Hod-Hasharon, avrebbe inviato, per cinque anni, un sistema di monitoraggio del traffico su internet, chiamato NetEnforcer, alla compagnia danese RanTek A/S che, una volta, rimosse le etichette originali, lo avrebbe spedito in Iran [http://www.bloomberg.com/news/2011-12-24/iran-sales-sink-allot-as-lawmaker-seeks-probe-israel-overnight.html].
Le società israeliane non possono realizzare alcun tipo di transazione finanziaria con il regime iraniano, ma la Allot Communications Limited, sarebbe riuscita ad aggirare i divieti tramite il distributore danese. Il sistema sarebbe stato usato per bloccare il traffico in rete, intercettare mails e sms e, perfino, cambiarne i contenuti, per identificare gli utenti di internet e consentire alle autorità di arrestarli. Il direttore esecutivo della Allot Communications Limited, Rami Hadar, sostiene, in un comunicato, che il sistema non sarebbe “designato per scopi di sorveglianza intrusiva”, ma solo per “l’ottimizzazione del traffico su internet”. Inoltre, prosegue, sempre, nel comunicato, il sistema sarebbe “stato venduto al distributore danese come viene venduto a migliaia di distributori e a decine di migliaia di clienti in tutto il mondo” e non vi sarebbe “alcun modo di sapere dove giunga”. Le autorità di Copenaghen invece, secondo l’agenzia di stampa Bloomberg, sarebbero in possesso dei registri delle transazioni con l’Iran.
Il caso Allot Communications Limited ricorda quello della società californiana Blue Coat Systems Incorporated, che ha venduto alla Siria dispositivi, che consentono di filtrare il traffico di internet e, quindi, di censurare i contenuti in rete. Il governo americano vieta di fornire tali soluzioni alla Siria, dove, nel frattempo, oltre 17mila persone [11.815 i civili] sono state uccise, dall’inizio della rivolta contro il regime, come riferisce l’osservatorio siriano per i diritti umani. Secondo le dichiarazioni della compagnia, la destinazione finale dei quattordici dispositivi di Blue Coat Systems ProxySG 9000, imbarcati dal porto di Rotterdam, in Olanda, verso Dubai, alla fine del 2010, sarebbe stata il ministero delle comunicazioni iracheno. Una volta approvato l’ordine e imbarcato il carico per Dubai, la Blue Coat Systems Incorporated avrebbe smesso di seguire il destino dei dispositivi. Una svista non trascurabile, giacché violare, deliberatamente, l’embargo, rende passibili di una multa fino a un milione di dollari. In seguito, le apparecchiature erano state rivendute al regime siriano, che non può, ufficialmente, procurarsele, in ragione di un embargo, imposto, dal 2004, dal governo degli Stati Uniti, noto come Syrian Accountability Act. Erano stati rinvenuti i segnali di tredici dispositivi in uso del regime siriano, mentre si erano perse le tracce del quattordicesimo. Nell’agosto del 2011, il sito francese Reflets.info [reflets.info/bluecoats-role-in-syrian-censorship-and-nationwide-monitoring-system/, http://reflets.info/bluecoats-presence-in-syria-finally-uncovered/] aveva denunciato l’accaduto e pubblicato una serie di documenti, ottenuti in collaborazione con il gruppo Telecomix, composto per lo più da hackers, che amano definirsi hacktivisti, che dimostravano l’utilizzo da parte del regime siriano di prodotti della Blue Coat Systems Incorporated. Inizialmente, la società aveva negato di aver venduto la propria tecnologia alla Siria, ma, di fronte alle prove, aveva dovuto ammettere che tredici Blue Coat Systems ProxySG 9000 risultavano in uso in Siria. La compagnia non è nuova ad affari con governi autoritari: secondo Ron Deibert, direttore del Citizen Lab, centro di ricerca sul web dell’Università di Toronto, la Blue Coat Systems Incorporated avrebbe venduto dispositivi simili anche al governo birmano.
In entrambi i casi, Nokia-Siemens Networks e Allot Communications Limited, i divieti di vendita hanno fallito, rimettendo in questione la efficacia delle regolamentazioni vigenti.
Lo scorso febbraio, Le Canard Enchaîné rivelava che il gruppo francese Bull, di cui fa parte la società francese Amesys, possiede una succursale, in Iran, da alcuni anni. Amesys è ben conosciuta per vendere a governi non molto democratici soluzioni per censurare il web.
Le società esportatrici di software hanno, a lungo, giocato la carta di non conoscere i propri clienti. Ciò non è più accettabile. Le società debbono conoscere i propri clienti e debbono essere tenute responsabili dei propri atti. È l’allarme lanciato dalla Electronic Frontier Foundation, associazione americana per i diritti digitali, che chiede alle imprese di assumersi la piena responsabilità degli usi che i governi fanno dei loro prodotti.
Il 27 settembre scorso, il parlamento europeo, ha approvato una risoluzione che impone alle società europee autorizzazioni più severe per esportare in India, Russia, Cina e Turchia “tecnologie di telecomunicazioni che possono essere utilizzate in relazione a una violazione dei diritti umani, dei principi democratici o della libertà di espressione”.
Numerosi Paesi del Nord dell’Africa e del Medio Oriente, quali la Tunisia e l’Egitto, che hanno, recentemente, conosciuto delle rivolte, sfruttano la tecnologia occidentale per individuare e bloccare l’opposizione su internet. Le società tecnologiche occidentali, quali Amesys e Narus, rispettivamente filiali della francese Bull e dell’americana Boeing, avrebbero aiutato, nel 2011, il regime caduto di Muammar Gheddafi [1942-2011], fornendogli tecnologia che consentiva di spiare e censurare la popolazione libica.
Cosa dedurre da tutto ciò?
In primis, gli spazi in cui si discute dell’avvenire dell’Iran, sono armi a doppio taglio.
In secundis, l’Iran è il solo Paese del Medio Oriente dove, di fronte alla corruzione, alla tirannia e al cattivo governo, gli abitanti non hanno il lusso di poter accusare il loro regime di essere sostenuto dagli Stati Uniti – contrariamente all’Arabia Saudita, all’Egitto, ecc. –.
Spenti i riflettori sulla violenta repressione delle manifestazioni contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad, l’Iran non è più evocato sulla scena internazionale che per il suo programma nucleare. È vero che le rivoluzioni arabe, come la tragedia che si svolge, attualmente, in Siria o dell’imbroglio militaro-islamo-politico, che tiene l’Egitto e il mondo con il fiato sospeso, hanno eclissato il resto dell’attualità nelle regioni del Nord dell’Africa e del Medio Oriente. È, tuttavia, difficile credere che le potenze occidentali e i loro alleati nella regione, che hanno, apertamente, appoggiato l’opposizione durante le manifestazioni, abbiano rinunciato alle loro velleità di rovesciare il regime dei mollah. La caduta del regime iraniano con un sollevamento interno, che è fallito tre anni fa, resta l’approccio meno costoso e più politicamente corretto per le grandi capitali e i grandi capitali occidentali. Un tale scenario permetterebbe di regolare il problema del programma nucleare militare iraniano, di evitare una grande minaccia all’alleato israeliano e di far piacere all’amico saudita, che non vedrebbe di buon occhio una ascesa di potere del secolare nemico persiano.
Ora, un tale scenario è dei più probabili.
Si tratterebbe, in qualche modo, di uno straripamento geografico delle primavere arabe, di cui uno dei più sanguinosi si svolge al momento in Siria, alle frontiere dell’Iran. Esistono indizi che corroborano una tale tesi, anche se sono passati inosservati. Il primo giugno scorso, la United States court of appeals for the district of Columbia circuit [www.ncr-iran.org/fr/images/stories/200/iranliberation3/4/il398.pdf] ha ordinato al segretario di Stato Hillary Rodham Clinton [1947] di decidere, entro quattro mesi, sulla rimozione del sazman-e mojahedin-e khalq-e iran, la più importante componente dell’opposizione iraniana dal 1997, conosciuta con l’acronimo MEK, dalla lista americana delle organizzazioni terroriste.
Inutile dire che, prima della fine di settembre, questa organizzazione laica, che ha svolto un ruolo essenziale nella caduta dello shah, prima che i religiosi si accaparrassero la rivoluzione, potrà essere considerata da Washington non più un nemico da combattere, ma un alleato da sostenere.
Se esiste una grande verità politica, oggi, in Iran, è che, con la loro lotta pacifica, i figli della rivoluzione del 1979 chiedono ai loro fratelli più anziani di assumersi la responsabilità dei loro errori come dei loro successi.
“Duo sunt bene instituti animi solatia: litterarum otium, et fidelis amicitia.”
Francesco Petrarca, Var. 44
Io non conto molto in questa storia del mondo.
Curiosa del futuro, fedele al passato, resto la testimone, una specie di vedetta che guarda ciò che accade.
Molto spesso lo spettacolo non ha nulla di divertente.
Ma mi diletta e mi piace.
Tra le cose e gli uomini, con tenerezza e con ironia, sono, cerco di essere, sotto le raffiche del vento della Storia, la sentinella del piacere di Dio.
E, allora, a Dio…