Articolo di Giuliana Abate
La pagina della cronaca nera di New York di quel 26 aprile 1895 riportava una notizia che avrebbe acceso le polemiche e i dibattiti sui quotidiani d’Oltreoceano: Maria Barbella, immigrata della Little Italy, si era macchiata del sangue dell’uomo che l’aveva offesa per lavare l’onta del disonore. Fu per l’accusa di omicidio passionale che è passata alla storia come la prima donna condannata alla sedia elettrica.
Era il 16 luglio del 1895.
Il pubblico americano, in verità già avezzo ai delitti d’onore perpetrati dagli emigranti italiani, dovette certo stupirsi molto che, questa volta, la vendetta armava il pugno di una donna.
Nel novembre del 1892, con la sua famiglia, era emigrata da Ferrandina, un paesino della Basilicata, per seguire il sogno americano al pari di molte altre famiglie italiane. Aveva trovato lavoro come sarta in una fabbrica di mantelli ‘Louis Graner & C’ e ogni giorno, per recarsi al lavoro, passava davanti a uno ‘sciuscià’. A ogni passaggio, il corteggiatore lanciava la sua esca e lo fece tanto sapientemente che alla fine la giovane cedette alle lusinghe del lustrascarpe.
Era un giovane di bell’aspetto, baffi curati e capelli imbrillantinati; aveva dalla sua parte anche il fatto di essere suo conterraneo. Domenico Cataldo veniva infatti da Chiaromonte, in Lucania e, insieme alla nostalgia del paese e a un lavoro ben remunerato, aveva tutti i connotati del buon partito.
Domenico le aveva promesso che sarebbe andato a parlare con i suoi genitori per chiedere la sua mano. Maria non dubitava della buonafede con cui il fidanzato rilasciava le dichiaraziono d’amore e, credendo ciecamente alle sue promesse di matrimonio, gli cedette. Da quel momento, niente fu più lo stesso: Maria sentiva sempre più l’urgenza di regolarizzare l’unione, Domenico, ad un tratto distante, palesava l’intenzione di rimpatriare poichè, Maria non lo sapeva, al paesello aveva moglie e figli.
La mattina del fatto, il 26 aprile 1895, Maria lo raggiunse nel bar di Vincenzo Manguso. Mentre era intento in un gioco di carte con un connazionale, ella gli chiese di seguirla perchè, volente o nolente, quello sarebbe stata la data del loro matrimonio. Avevano aspettato troppo e l’animo di lei si dibatteva tra la vergogna di un amore consumato e l’ansia che Domenico la rifiutasse. L’amaro presagio si concretizzò: egli con fare sdegnoso e senza scomporsi, le disse che solo un porco l’avrebbe sposata.
Un affronto incancellabile, che la giovane Maria, sedotta e abbandonata, decide di lavare con il sangue. Davanti all’ennesimo diniego, Maria estrae da sotto lo scialle un rasoio affilato e colpisce il fidanzato tagliandogli la gola. Mentre il corpo esanime dell’uomo giaceva in un lago di sangue, ella ebbe a dichiarare con il suo stentato americano ai gendarmi che l’ammanettarono: “Me take his blood so he no take mine. Say me pig marry”. (Ho preso il suo sangue così non prende il mio. Diceva che solo un porco mi avrebbe sposato). Con lucidità, la giovane compì l’efferato delitto. Il codice morale che fa da sfondo alla vicenda è quello che ella aveva portato con sé da quel paese del Basento; quel senso dell’onore, di cui era intrisa la cultura in cui era cresciuta, anche valicando le frontiere, era fortemente sedimentato dentro di lei e, persino fuori dalla realtà in cui era maturato, palesava ancora la sua validità. La storia di Maria Barbella testimonia infatti come dietro al bisogno di vendetta, seppur conduca a un comportamento delittuoso, ci sia una valenza culturale: il desiderio di vendetta di Maria sfugge ad ogni contenimento perché lo si ritiene giusto e legittimo fino a caratterizzarsi come un diritto dell’offeso. La vendetta diviene quindi un dovere che può essere agito solo da colui che ha subito il torto poichè è solo in questo modo che viene azzerata la vergogna e il disonore.
Accanto all’aspetto culturale, campeggia anche quello psicologico: ad attivare il bisogno di vendetta, è stata una situazione emotiva di profondo imbarazzo. La vergogna è stata un sentimento che le ha fatto vivere il rifiuto del lustrascarpe come una inaccettabile ferita narcisistica che l’ha indotta a rispondere con rabbia. Chi ha subìto una offesa narcisistica non ha riposo finchè non ha vendicato chi ha osato opporglisi e dissentire.
Maria Barbella fu subito arrestata e trasferita a “Le Tombs” nel carcere di Sing-Sing, la famigerata durissima prigione di New York e affrontò il processo senza conoscere la lingua inglese.
A questo punto la storia di Maria Barbella si intreccia con quella di Cora Slocomb, un’americana sposata al nobile friulano Detalmo di Brazzà, la quale volò fino a New York per stare accanto a Maria che era stata difesa, in un processo sommario, da un avvocato d’ufficio e condannata alla sedia elettrica. La nobildonna mobilitò la stampa, le associazioni e gruppi di intellettuali, soprattutto l’opinione pubblica americana, dai quartieri piu’ poveri, quelli del Lower East Side, alla high society di New York e San Francisco, sostenuta anche da una rete di potenti amicizie, aiutata dal famoso poliziotto di origine italiana Joe Petrosino e dalle suffragettes, in quella che ben presto diventerà la prima campagna contro la pena capitale. Ottenne la revisione del processo con il gratuito patrocinio di Frederick House, Emanuel Friend ed Edward Hymes, i tre avvocati più famosi di New York, colmando un vuoto politico e istituzionale nei confronti degli emigrati.
Il 10 dicembre 1896, un anno dopo la condanna a morte, la giuria americana emise il verdetto di non colpevolezza.
Si sa molto poco di quello che accadde dopo. Maria Barbella sposò il 4 novembre 1897 un emigrato italiano, Francesco Bruni da cui ebbe un primo figlio, Frederick. Poi si persero le tracce.
La storia appassionò non soltanto l’opionione pubblica e la carta stampata, ma anche il teatro. Il drammaturgo di origine ebrea M. Ha -Levi Ish Hurwitz scrisse un dramma in quattro atti, liberamente ispirato alle vicende di Maria Barbella che andò in scena per oltre un anno negli Stati Uniti, dal 14 dicembre 1896 alla fine di gennaio 1897.
Liberamente ispirato al dramma della giovane italiana, con il titolo ‘Il fuoco dell’anima’, è il libro scritto da Ideanna Pucci. L’autrice del libro, in realtà pronipote di Cora Slocomb, soccombe al fascino della giovane emigrata italiana e, in un viaggio negli Stati Uniti, fra ricerche, interviste, documenti e testi autografi, ne ricostruisce la vicenda umana, politica e giudiziaria.
Il diritto di farsi giustizia da soli era ammesso in qualche modo, fino a qualche tempo fa, anche dal nostro Codice Penale con l’ammissione della causa d’onore, come accettata e comprensibile reazione individuale.
Il comportamento vendicativo era usualmente praticato nelle culture di alcune regioni; pertanto, la storia di Maria, oltre che per i risvolti avuti oltreoceano sulla campagna per l’abolizione della pena di morte, getta luce sulla radice identitaria dei primi emigranti italiani e fornisce uno spaccato delle loro consuetudini e soprattutto di quel codice morale che essi hanno esportato sul suolo straniero dalle loro terre d’origine, affacciate sul Mediterraneo.