Donne senza uomini - Shirin Neshat
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Il parto gemellare che alla fine del 1800 diede alla luce la psicoanalisi e il cinema fece da subito presagire uno stretto legame tra i due infanti. L’analisi dell’Io, sull’Io, si concretizzò nella più ampia ricerca di definizione della propria identità in relazione alle realtà circostanti. Questo processo di definizione di se stessi viene distinto dalle scienze sociali nella dualità identificazione/individuazione.

Queste tracce parallele costituiscono, nell’avventura del cinematografo, la sostanziale differenza tra le strade intraprese dalla settima arte. Il cinema difatti venne alla luce come mera sperimentazione e si generarono immediatamente due differenti modalità di confrontarvisi: Cinema come illusione (identificazione) e Cinema come realtà (individuazione).

Durante tutta l’età classica del cinema, gli effetti speciali e le sperimentazioni vennero strettamente associati alle avanguardie artistiche e/o al cinema sperimentale europeo: il sistema Hollywoodiano difatti non tollerava le attrazioni e gli effetti speciali che avrebbero potuto disorientare lo spettatore dall’illusione della realtà, abilmente tesa a a produrre un senso d’identificazione e appartenenza alla collettività: “Il cinema è stato forse la prima vera e propria esperienza globale di massa, collettiva e interclassista, capace di unire nella stessa sala cinematografica, persone di ogni estrazione sociale, area geografica, orientamento religioso, sessuale, politico, etc…diventando un rito collettivo e assumendo il ruolo che aveva il mito nelle società premoderne1.

In seguito alle contaminazioni europee del dopoguerra, la terza età del cinema americano rilanciò lo stile della favola su tutti i livelli, servendosi dunque degli effetti speciali e mirando al totale distacco dalla realtà. Il cinema europeo dall’altra, seppur ideatore e sviluppatore delle sperimentazioni, non si cimentò mai nell’utilizzo di questi al mero fine della resa illusionistica e probabilmente non ne ebbe il tempo: piegato dalle rivoluzioni e dai regimi, il fedele cine-occhio puntato sulla realtà rivestì un ruolo vitale per la propaganda sociale e politica.

Successivamente, il Neorealismo italiano e la Nouvelle Vague francese, mostrarono crudamente, con strumenti poveri e una regia che si discosta bruscamente dalle regole ben definite del cinema americano, il processo d’individuazione della propria condizione: quella di un’ Europa reduce dal terrore e dalla distruzione della Seconda Guerra Mondiale.

Ai giorni nostri, come allora, il cinema mediorientale, che timidamente inizia ad affacciarsi più vistosamente sulla scena mondiale, si fa portavoce di fievoli grida di protesta e sofferenza che rivendicano la propria identità: nell’epoca segnata della decadenza della civiltà e del mondo occidentale e al contempo dall’evoluzione di Paesi sottosviluppati, è giusto aspettarsi da quest’ultimi uno sguardo sul proprio presente paragonabile proprio al realismo post-bellico europeo.

E’ un cinema ancora povero che parla solo di ciò che conosce davvero, della propria realtà pregnante, materica, invadente; di ciò che viene vissuto quotidianamente; di ciò che vede con i suoi occhi la mattina quando si sveglia. Le guerre e i regimi istauratisi nei Paesi Mediorientali ostacolarono duramente la fiorente produzione e distribuzione cinematografica che prese vita negli anni ’60.

Il cinema iraniano di Abbas Kiarostami o della sperimentatrice Shirin Neshat, forse influenzati dalla condanna teocratica verso le tradizioni occidentali, mostrano nei loro film “le complesse condizioni intellettuali e religiose che modellano l’identità musulmana2, utilizzando spesso un linguaggio che sfocia nel documentario; individuando un proprio codice espressivo, connotando la pellicola con una personale e autentica impronta stilistica e semiotica, la cui complessità risiede nell’accuratezza dello sguardo, nella profondità del significato.

La severa censura Turca, impedì per molti anni la circolazione delle proprie opere cinematografiche, come quelle del regista Yilmaz Guney, il quale, dopo oltre 10 anni di prigionia, scrisse e diresse film come Yol (1982/ Palma d’oro a Cannes) dall’interno del carcere. Una volta evaso nel 1981, si rifugiò in Francia, realizzandone il montaggio. Dopo la sua morte, le autorità turche bruciarono le sue pellicole per ostacolare la diffusione di un ritratto contemporaneo del Paese, dalle sfumature Nouvel Vagueiane.

La rappresentazione e la promozione delle identità autoctone pervade inevitabilmente le pellicole del Medio Oriente, che esprimono la loro necessità d’indagarsi e raccontarsi all’alba d’imponenti rivoluzioni, storiche, culturali, sociali. Inoltre, le nuove tecnologie digitali e la loro estesa diffusione hanno concesso ai singoli di dar voce e vita al proprio sguardo, senza ricorrere ad intermediari: le ardenti riprese amatoriali provenienti dal fermento rivoluzionario nelle piazze del Maghreb e del Medio oriente, permeate prepotentemente come lava nella nostra quotidianità attraverso YouTube e altri social network, rivestono anch’esse un ruolo decisivo nel delineamento e nella condivisione- soggettivo, documentaristico, spontaneo- di alcuni tratti del proprio profilo socio-culturale.

Il cinema spagnolo e quello italiano d’altro canto, conservano anch’essi gli echi delle propria ricerca d’individuazione avvenuta negli anni addietro, interpretando la contemporaneità con un linguaggio che rispetta la sua identità solida, senza trasgredire.

Le piccole produzioni sarde inaugurate da importanti opere come Banditi a Orgosolo di Vittorio De Seta, che proseguono costanti fino all’esordio attuale di Sa Grascia di Bonifacio Angius, cullano e proteggono quello sguardo fedele sulla propria realtà magica, colmando le inquadrature con i propri paesaggi, con volti di persone comuni ma che racchiudono in uno sguardo l’identità e la storia di un popolo.

1 http://www.minori.it/node/2662

2 http://www.cinemadelsilenzio.it/index.php?id=3617&mod=history

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