Is fillus de anima
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Articolo di Fata jana

Ospitare ha un solo significato ma molte sfumature, accezioni.

Quando si ospita, si accoglie, si accetta, si riceve. L’ospitalità comprende sempre una sorta di dono, il dono di sé e della propria casa. Del luogo più intimo e sacro.

E’ proprio di quest’accezione dell’ospitalità che ho trovato una sfumatura ancora più lieve, sconosciuta ai più. Nella Sardegna in bilico fra un passato di regole non scritte e quella che cercava di tenere il passo con il resto d’Italia qualche uso di immemore data continuava a protrarsi. La comunità ha sempre gestito i mali e i beni come se fossero comuni. Ogni famiglia aveva poco e quel poco era sempre e comunque a disposizione di tutti. I bambini erano non figli di una coppia, o non solo, ma erano un bene della comunità che badava a loro e che li custodiva. Le madri che dovevano passare le giornate nei campi lasciavano i loro figli alle vicine. Se non era possibile allattare i neonati ci si aiutava a vicenda tramite un sistema di collaborazione fra neomamme, che tramite il baliatico gratuito riuscivano a far fronte alla necessità dei piccoli e delle loro madri. La comunità quindi era vissuta come un unico grande organo che provvedeva a se stesso e ognuno collaborava nella misura in cui poteva. Non bisogna dimenticare che fino agli anni ’60 le condizioni di vita, soprattutto nei piccoli centri, erano davvero difficili nell’Isola, quindi questa sorta di collaborazione diventava ancora più preziosa.
All’interno di questo contesto si inserisce un particolare aiuto, una particolare offerta di ospitalità ai bambini rimasti orfani di uno o di entrambi i genitori, o semplicemente di bimbi che in una condizione familiare di estrema indigenza non avrebbero potuto avere dalla propria famiglia un sostentamento. Si chiamavano, e si chiamano tutt’ora, fillus de ànima.

Figli dell’anima. Cioè figli non nati all’interno di una famiglia, ma che venivano accolti e amati come tali. Non era un’adozione, e nemmeno un affidamento temporaneo. Era un’accoglienza perpetua che però non faceva perdere al bambino le radici con la propria famiglia e che non sostituiva i genitori veri con quelli che accoglievano il piccolo, pur se questi lo allevassero e lo educassero come tali.
E’ questa la particolarità che pare straordinaria. In un’Isola da molti intuita come quasi barbara e di sicuro molto arretrata vigeva un uso che rispettava così tanto il bambino da accoglierlo senza sradicarlo.

Le fonti a riguardo sono praticamente nulle. Se non quelle orali di fillus de ànima che possono raccontare da sé la loro storia o di persone che ricordano come questa pratica avvenisse. Infatti non essendo un’adozione legale non esistono documenti che attestino alcunché, non esistono controlli di Assistenti Sociali, carte bollate, approvazioni o sentenze. Il tutto si svolgeva con una semplicità quasi incredibile in una Sardegna dove persino chiedere la mano ad una donna doveva seguire un preciso cerimoniale. Dove non si nasceva e non si moriva senza essere accompagnati da parole, benedizioni, preghiere.
Eppure nel modo più semplice quando una famiglia sapeva di poter accogliere un figlio, o più di uno, e sapeva che da qualche parte nella comunità c’era un orfano o un bambino che la famiglia non poteva crescere a causa della povertà, subentrava questa sorta di affidamento perenne che inseriva come figli propri quelli altrui. Il bambino o bambina, veniva accolto e diventava figlio a tutti gli effetti. Collaborava alla vita familiare, contribuiva spesso con il duro lavoro (allora i bambini e i ragazzi lavoravano come gli adulti), ma allo stesso tempo in casa erano considerati figli, fratelli, sorelle alla stregua di quelli naturalmente nati all’interno del matrimonio. Non era un’ adozione. Le adozioni esistevano; non era un abbandono dei propri figli, perché i legami non si spezzavano. La famiglia di origine non rompeva i rapporti con i piccoli che diventavano fillus de ànima. Era una sorta di via di mezzo fra l’adozione e l’affido, che garantiva al fillu de ànima tutti i diritti di un figlio legittimo. Eredità compresa.

Molti giovani erano spinti ad accettare questa condizione anche in previsione di un possibile lascito, altri andavano a colmare il vuoto di una coppia senza figli. Molto più spesso si arrivava in una famiglia mediamente povera ma meno povera di quella di origine. In ogni caso resta la scintilla di solidarietà e di accoglienza che faceva scattare questo gesto. Impensabile probabilmente ora, dove ogni gesto viene scandagliato e regolamentato. Anche se pare che ci siano casi di fillus de ànima fino agli anni ’80 è naturalmente cambiato il contesto sociale in cui si applicava. Essere fillus de ànima non era socialmente degradante, non destava scalpore e non rendeva particolarmente differenti dal resto dei ragazzini. Nonostante questo sistema abbia funzionato da tempi immemori non se ne hanno grandi tracce. Per assurdo è più facile rintracciare un bambino abbandonato nelle tristemente famose “ruote degli esposti” che non trovare documenti che attestino un fillu de ànima. Infatti nel primo caso al bambino venivano dati un nome e un cognome che generalmente potevano ricondurre alla loro condizione di orfanelli, mentre il fillu de ànima manteneva il cognome della famiglia di origine non modificando nulla. Il bambino probabilmente veniva messo al corrente a cose fatte, ma di solito la situazione era di miglioramento, per cui si era ben felici di accettarla. Tenendo conto che non si perdeva la famiglia di origine ma se ne acquisiva una seconda il vantaggio era più che evidente.

Ecco quindi che in Sardegna (ma molto probabilmente anche in altri luoghi) c’è un tipo di ospitalità che non lascia tracce, se non nei cuori e nelle vite di tutti quei bambini che hanno trovato riparo, cibo, affetto. Un’accoglienza che non si trova nei registri, un affido che non viene deciso nei tribunali. Famiglie che sulla carta non sono esistite, non nella loro completezza, ma che hanno permesso a tanti bambini di avere gli stessi diritti di chi era più fortunato di loro. Che hanno dato madri ad orfani, scuole a indigenti, lavoro e posizione sociale a chi sarebbe stato povero ed emarginato. Ospitalità, un solo significato forse, ma con sfumature impensabili.

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