Articolo di Valeria Gentile
Al principio era la Palestina.
Un Mediterraneo originario, il regno salvo per eccellenza, una terra parallela e speculare fatta di pietre levigate e bianche. Voci squillanti di bambini che giocano, richiami di muezzin che scandiscono purezze e colpe. Profumo di gelsomino e olive, danze tiepide di pini secolari. In Palestina ogni cosa è ancora così dolce e soffice, la terra è madre adorata e generosa, il vento e il sorriso della gente vanno di pari passo intrecciandosi a ogni angolo di strada, su ogni tetto, in ogni atto. Ma la sua morbidezza è una sordità dolorosa, una vista offuscata, un udito d’ottone nel destino del mondo.
C’è un velo invisibile di scheletri e ossa in polvere, sul sogno di una terra promessa: una fila di muri cuciti come bocche messe a tacere. Piccoli cipressi stretti e lunghi sono nati, effimeri e soli, come segnalibri su ogni sgarro degli uomini alla propria coscienza. Proprio qui, sui seni di Madre Terra, rugosi e turgidi di ambizione e lacrime, è nato prima un sogno e poi un altro, poi un altro ancora. Sogni fratelli di sabbia e parole. Sogni fatti della stessa sostanza della poesia. Sogni belli, e perciò pericolosi.
Gerusalemme, Signora della luce e delle mille rinascite.
Carretti, bancarelle, favole, spezie. Notti d’Oriente, storie d’amore, viottoli, archi sotto cui passare custoditi dalla notte stellata, come gioielli di un universo infinitamente generoso e propizio. Olive. Ceci. Pane. Circondata da palme e acque dolci; tonda, circolare, armonica, perfetta Gerusalemme. Profeta Gerusalemme: della pace. Una Torah, una Bibbia, un Corano. Profumo di pane.
Poi fu solo al Naqba. “La Catastrofe”, nel 1948. Niente più al-Quds, niente più città santa, niente più passaporti e visti, finito il carnevale di suoni e idee, colori e umori, religioni e passioni, perché l’economia travestita da politica aveva preso il posto della spiritualità: e la coesistenza – prima sopravvissuta alle varie colonizzazioni – con la pulizia etnica non aveva niente a che fare. Le vittime erano diventate i carnefici e quindi ancora vittime, gli arabi erano diventati ebrei, il mondo intero si era rovesciato. Nessuno capì subito cosa stava accadendo veramente, nessuna vita da allora fu la stessa. Poche di esse rimasero Vita. Settecentocinquantamila furono espulsi subito, tre milioni per sessant’anni e oltre, di cui un milione ancora oggi vive nei campi profughi.
La kippah sotto l’elmetto. Sguardi giovani e già così impauriti dalla vita, mani fragili eppur così già piene di mitragliatrici. Eserciti di corvi malati armati fino ai denti e bombe umane non autorizzate, uso improprio di pietre e di democrazia. Eppure le tre religioni più potenti del mondo convergono qui, in un singolo punto del pianeta, con tutto ciò che di pericoloso, meschino e grandioso questo comporta. Come può un fazzoletto di terra così piccolo contenere un segreto così grande? Per l’Ebraismo è il più sacro punto del mondo, la terra promessa, per il Cristianesimo è il sito ufficiale della Chiesa della sacra saggezza, le pietre fondanti, per l’Islam è il luogo in cui Maometto salì al cielo. Tutto avvenne, strepitosamente e irrimediabilmente, qui.
Gerusalemme non è qualcosa di classificabile, etichettabile, misurabile. Camminare dentro le sue contraddizioni fa balzare agli occhi una sola, unica e innegabile verità, e cioè che l’essere umano è uno e uno soltanto, e che tutte le divisioni non sono che mere illusioni. Nonostante questo, Israele è la quarta forza militare al mondo dopo gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Oltre tre milioni di turisti visitano Israele ogni anno, in un corto circuito di spiritualità e souvenir da far accapponare la pelle.
La notte a Gerusalemme ovest è tutto un luccicare di pub e locali, scambi di idee internazionali, luci soffuse, cocktail con ghiaccio, capelli sciolti, scontrini. A est solo buio e silenzio, un chiacchiericcio arabeggiante qua e là da sotto le finestre, panni stesi nei cortili interni, vista panoramica su tetti e cupole sacre…
A Ramallah l’aria è un poco più leggera.
È la leggerezza dell’assurdo, una delicata brezza di follia che fa vivere alla gente una specie di carnevale reale in una capitale virtuale.
Il tempo è in attesa, lo spazio è in attesa, tutta la Palestina è in attesa. Ovunque guardi c’è gente che aspetta. Umili oratori sono sorti per il culto dell’attesa, perché l’attesa sia onorata e glorificata in tutta la sua meraviglia. Il suo mausoleo più maestoso è il check point di Ramallah. I soldati israeliani stanno dietro le piccole vetrate tra le ferraglie del check point e sono armati fino ai denti, ma non guardano mai fuori. Lentamente, dopo aver atteso e atteso, uno per volta gli arabi entrano dentro la macchina di ferro e ci restano incastrati fintanto che l’adolescente di turno non si stanca di giocare con il suo topolino in gabbia. Colui che ha la fortuna di entrarci sa che finalmente, dopo un’attesa che è durata ore, l’uscita è più vicina. Intanto suda litri di dignità che non potrà mai più recuperare, come invece la sua identity card, una volta uscito dall’inferno.
Jenin respira.
Con un peso fisso sullo stomaco delle sue strade sterrate. È il peso della polvere, che ad ogni inspirare ed espirare sale e scende, s’alza e cade, come un velo di dolore e codardia che ormai è un tutt’uno con la pelle. In agosto, durante il ramadan, tutto il giorno sta in apnea, per seguire i dogmi della fede; ma al tramonto, quando il muezzin canta l’ultimo adhan in quella lingua miracolosa che ha trenta milioni di radici, quando le tortore s’aprono in volo per segnare l’inizio della libertà, allora Jenin respira, e con lei tutto il nord della Cisgiordania.