Matteo Boe
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In principio fu la strenua resistenza al nemico invasore. Fin dalla tarda età nuragica, i sardi hanno lottato per non sottomettersi alle regole imposte da popoli venuti da lontano a depredare la terra circondata dal Grande Verde. L’impervia natura inospitale delle montagne ha offerto per secoli rifugi segreti e impenetrabili alle genti che cercavano protezione dallo straniero. Il livore per il sopruso reiterato ha gradualmente trasformato le grotte del Supramonte: quelle che dapprima offrivano protezione a chi fuggiva dal nemico invasore sono diventate poi nascondiglio per chi fuggiva dalla legge.

L’etichetta di terra di banditi la Sardegna se la porta addosso ancora oggi, spesso affibbiata senza nessuno sforzo di interpretazione storica e sociale del fenomeno. Le vessazioni del potere esterno hanno stremato genti che avevano sempre condiviso terre, pascoli, ruscelli, portandole a una lotta estenuante fuori dalle regole ufficiali, ma dentro quelle del cosiddetto Codice Barbaricino.
Dalla lotta per la mera sopravvivenza del periodo feudale, che in Sardegna è durato fino al XIX secolo e che lascia il ricordo del bandito come figura quasi romantica, si è giunti a quella più marcatamente ideologica, i cui esempi più recenti e famosi sono rappresentati da Graziano Mesina e Matteo Boe.

Il primo ha scontato quarant’anni di carcere per poi ricevere la grazia nel 2004. Il secondo è tuttora detenuto. Di loro si sa in primo luogo quello che hanno raccontato i giornali: fiumi di epiteti, etichette, commenti sulle condanne per reati che, in alcuni casi, continuano a mostrare lati oscuri. E poi un grande silenzio. Quello che ha accompagnato le loro lunghe latitanze nelle montagne di Sardegna, quello che appartiene all’omertà di luoghi e genti che dell’onore hanno dato un’interpretazione che non può essere compresa dall’esterno.
Se in nessun caso, a parere di chi scrive, l’omicidio o anche solo la privazione della libertà per motivi prettamente ideologici possono essere giustificati, una profonda analisi delle motivazioni che hanno mosso l’agire dei banditi sardi è quanto meno doverosa.
Il mancato riconoscimento del potere dello Stato deriva principalmente dalla reiterazione, da parte di quest’ultimo, di imposizioni di natura fiscale, giuridica, morale che non hanno mai tenuto conto del tessuto culturale, sociale ed economico dell’isola e, in particolare, di alcune zone particolarmente depresse.

Gli stessi sentimenti di avversione sono scaturiti da azioni che, se negli intenti avrebbero dovuto portare benessere, in realtà si sono rivelate spesso fallimentari; il polo chimico di Ottana impiantato in una zona agro-pastorale senza l’adeguata preparazione della gente del luogo è stato, per i sostenitori della lotta indipendentista, l’ennesimo esempio di sopruso finalizzato all’arricchimento di pochi industriali forestieri.
È in questo sentirsi continuamente offesi, sopraffatti e impoveriti dal capitalismo che è cresciuta la componente ideologica del banditismo; una costante ribellione ai poteri forti nel nome di un’indipendenza agognata per secoli, evanescente come la nebbia al mattino ma fortemente radicata nei desideri di molti sardi, anche di coloro che non imbracceranno mai un fucile.
Di questo viscerale desiderio cercò di approfittare l’anarchico Giangiacomo Feltrinelli, fondatore della nota casa editrice, che infiammò l’animo di molti sardi con l’idea di rendere l’isola nostrana la Cuba del Mediterraneo. Infarcito di ideologia castrista, associò la condizione dei popoli dell’America Latina a quella delle genti oppresse di Sardegna. Feltrinelli cercò di avvicinare Mesina nel 1968 per indurlo a guidare una lotta armata contro lo Stato e far così valere le ragioni degli isolani. Il famoso balente non lo volle incontrare e la motivazione va probabilmente ricercata nella ferma volontà di non accettare ingerenze dall’esterno, anche perché le anarchiche utopie del forestiero, in quanto italiano, erano sicuramente lontane dal sogno indipendentista dei banditi sardi.

Mentre Mesina sembra ormai aver trovato la sua dimensione dentro le regole ufficiali, un altro importante protagonista della lotta armata sta ancora scontando la sua pena. Matteo Boe, il bandito dagli occhi di ghiaccio, noto per essere stato l’unico detenuto a riuscire ad evadere dall’Asinara e per la condanna come organizzatore del rapimento di Farouk Kassam, continua a far sentire la sua voce attraverso internet.
Riflessioni intense che nascono da un orgoglio di appartenenza alla sua terra mai sopito anzi, se possibile, rafforzato e confermato da quella che lui denuncia come la ferma volontà dei poteri forti di continuare ad affermare la supremazia del capitalismo a scapito delle genti sfiancate dalle continue vessazioni del più forte sul più debole. La lucidità delle sue considerazioni sulla corruzione dilagante, sulla dolorosa constatazione che la legge non è uguale per tutti nel momento in cui tanti colpevoli per reati di diversa natura ottengono importanti sconti di pena solo perché appartengono a un rango sociale elevato, non fanno altro che acuire la sua refrattarietà a un sistema considerato la causa primaria dell’ingiustizia sociale.
Parla anche di sé, Matteo Boe, di come dice di aver subito il potere dei media che l’avrebbero spesso calunniato scrivendo di lui cose non vere col chiaro intento di trasformare la sua ideologia indipendentista in pura cattiveria e sete di denaro. Una forzatura interpretativa, secondo Boe, che ha l’unico scopo di cercare di uniformare il pensiero delle masse e di continuare ad affermare il modello prestabilito secondo cui i più forti vanno avanti e i più deboli soccombono.

Se la caparbietà con cui gli indipendentisti, anche quelli che hanno abbracciato il banditismo, difendono le loro posizioni è ammirevole, rimane comunque difficile da comprendere e impossibile da accettare la scelta della lotta armata, che ha portato grande sofferenza alle vittime e ai familiari e lunghi anni di prigionia ai colpevoli, lontani non solo dai loro affetti ma anche dall’agire positivamente per cambiare le sorti dell’Isola. E se è vero che i silenzi di Barbagia hanno radici lontane e non possono essere facilmente compresi, è anche vero che non di silenzi ha bisogno la Sardegna, bensì di voci che si alzino all’unisono senza armi.

Aggiornamento: Matteo Boe è stato scarcerato il 25 giugno 2017, dopo venticinque anni.

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