Ci si sente dire da sempre che “il lavoro nobilita l’uomo”, eppure è davvero curioso il controsenso storico di questo modo di dire. Era infatti caratteristica inderogabile della nobiltà quella di non lavorare, trovandosi nobili dalla nascita, quindi appartenenti ad un’élite.
Eppure si può trovare una grande verità in queste parole, se intese come un ”innalzamento”, non soltanto di natura prettamente economica che il lavoro può portare all’uomo (che senza di esso si troverebbe perso), ma anche e soprattutto pensando all’etimo antico del termine lavoro, “volgere l’intento, l’opera, a qualcosa”; il lavoro in tal senso sarebbe il mezzo attraverso il quale raggiungiamo ciò che desideriamo effettuare. Così inteso il lavoro migliora l’uomo, permettendogli di compiere azioni che lo gratificano.
Ogni lavoro è infatti espressione della volontà e non può che perfezionare l’essere umano.
Nel mondo antico dominava un concetto negativo riguardante l’attività lavorativa, intesa come attività manuale atta al sacrificio degli uomini, richiesto dagli Dei in cambio della concessione dei beni, o come elemento che impediva lo sviluppo dell’intelligenza. Solo nel periodo rinascimentale si può assistere alla concezione del lavoro come fondamento di civiltà e progresso, esaltandone i valori sociali e morali.
Ancora oggi il lavoro continua ad avere un ruolo centrale nella vita di ogni individuo, giacché nell’immaginario collettivo ognuno è ciò che fa. Una specie di “appiattimento dell’uomo sulla sua attività lavorativa, come se questa fosse l’unico indicatore di riconoscibilità dell’uomo” (Galimberti, 1998).
Certo è che se l’individuo viene riconosciuto solo per il lavoro che fa, quando questo viene a mancare egli stesso non vi si riconosce, né la società stessa lo riconosce più. ( A. Ahs and R. Westerling, 2005). Va da sé che il lavoro è una delle dimensioni più importanti dell’identità, e questa importanza la si può valutare maggiormente in relazione al malessere provocato dalla sua assenza.
L’assenza di lavoro, e quindi la disoccupazione, è uno dei problemi economici e sociali più rilevanti degli ultimi anni. Infatti la disoccupazione ha dovuto subire un lungo e lento processo di costruzione sociale della propria rilevanza, e pur essendo un fenomeno dall’indubbia gravità, è comparso come “problema sociale” (abbandonando la sola accezione di problema individuale) solo agli inizi degli anni ’90, focalizzandosi però principalmente sugli aspetti socio-economici, trascurando inizialmente quelli che sono gli aspetti psicologici.
Disoccupazione è un termine emotivamente denso e carico di significati, capace di evocare un drammatico immaginario collettivo. Oggigiorno la disoccupazione colpisce moltissimi settori lavorativi, intensificando l’idea che ogni lavoratore è un potenziale disoccupato, e che può colpire, quindi, non più soltanto quegli individui socio-economicamente svantaggiati. La perdita del lavoro viene vissuta, quindi, come minaccia concreta personale, e non solo come problema astratto distante dalla propria vita. La disoccupazione viene definita un “evento di vita”, intendendo in questi termini un’esperienza che distrugge (o può distruggere) la normale attività di un individuo, attaccandolo nel suo equilibrio psichico.
Come teorizzava Marx, il lavoro è l’essenza dell’uomo, perché in esso l’uomo si identifica ed estrinseca se stesso, realizzandosi. Perdendo il lavoro l’individuo non sa più come identificarsi, non ha più potere di progettualità; la fase del distacco è molto critica, in quanto c’è la necessità di reinventarsi, di ricercare molte informazioni sul nuovo Io, e questo molto spesso manca, lasciando spazio al solo rimpianto. Da un punto di vista psicosociologico l’uomo costruisce un’immagine di sé sulla base dei ruoli che sente gli appartengano in maniera più distintiva, sviluppando la sicurezza in se stessi, il prestigio, l’integrazione sociale; adempiere in maniera soddisfacente ai propri ruoli aiuta anche a sviluppare l’autostima, sentimento di orgoglio e visione positiva di se stessi.
La disoccupazione causa un forte abbassamento dell’autostima, modificando e svalutando l’immagine di sé. Questa perdita inficia anche le capacità dell’individuo di trovare una via d’uscita, specie in chi non riesce ad immaginarsi in un altro ruolo che non sia quello che ha perduto, vivendo con depressione il vuoto quotidiano. Esemplificativo in questo senso può essere il caso messo in scena dal regista Peter Cattaneo, nel 1997, nel film “Full monthy”, in cui veniva descritta la crisi economica in Gran Bretagna attraverso il quotidiano di alcuni lavoratori. Mentre gli “operai” cercavano di sopravvivere alla depressione, il loro capo negava a se stesso la situazione, uscendo ogni giorno in giacca e cravatta, vergognandosi come se fosse colpa sua, ed evitando di mettere al corrente della situazione i suoi stessi famigliari.
Le conseguenze della disoccupazione, già descritte nel 1938 dagli psicologi P. Eisenberg e P. F. Lazarsfeld e poi riprese da altri, prevedono tre fasi. Nel primo periodo l’individuo rifiuta la nuova realtà, successivamente subentra una fase di pessimismo rispetto alla prospettiva di trovare una soluzione, e infine si arriva alla totale rassegnazione e il ripiegamento su se stessi.
È chiaro, quindi, che la disoccupazione incida notevolmente sullo stato di salute psicofisica, favorendo o aggravando l’insorgere di disturbi di vario genere. Infatti le conseguenze della disoccupazione sulla salute spaziano dal campo psico-sociale a quello delle malattie croniche-degenerative, toccando sia il piano economico sia quello sociale, creando delle ripercussioni anche sui rapporti familiari, facendo crescere il disagio psicologico percepito dall’individuo, insieme a varie condizioni di sofferenza quali ansia, stress, nervosismo, oltre che rischiare di favorire vere e proprie depressioni, o dipendenze (uso/abuso di alcool e sostanze stupefacenti).
Dalle statistiche, inoltre, si evince che in tutta Europa l’ultima ondata di licenziamenti ha colpito in maniera soverchiante gli uomini rispetto alle donne. Questo, oltre alla perdita del ruolo di lavoratore, mette in crisi anche l’identità di genere. Portare a casa lo stipendio è un elemento fondamentale per l’identità maschile, che l’orientamento alla parità dei ruoli è riuscito a scalfire solo in parte: si è d’accordo a condividere le responsabilità lavorative e casalinghe, ma invertire completamente i ruoli risulta ancora molto contrastante e conflittuale.
Ma che sia vissuta da un uomo o da una donna, la perdita del lavoro è comunque la perdita di una parte di sé. Le proporzioni che sta assumendo il fenomeno rendono necessario un approccio che vada oltre un inquadramento socio-economico, ma che riesca a toccare una sfera più profonda della persona, mettendo in evidenza come l’assenza di lavoro modifichi senza alcun dubbio il benessere generale dell’individuo.