Articolo di Francesca Fiore
Nel 2006 l’Economist, una fra le testate economiche più autorevoli al mondo, conia un nuovo termine: womenomics. Il termine nasce riprendendo le teorizzazioni fatte da un’analista di Goldman Sachs, agenzia di rating oggi tristemente nota per i declassamenti ai paesi della zona euro. Per essere concisi, la teoria sostiene che il lavoro femminile sia, nelle condizioni attuali del mercato, la forza motrice dello sviluppo mondiale. La scoperta di una stretta connessione fra lavoro delle donne e crescita economica fa si che il futuro punti proprio su questa fetta di lavoratrici e imprenditrici. Non solo: la teoria lega in modo indissolubile la questione delle pari opportunità agli indicatori di crescita economica di un paese. Ciò significa che, senza un adeguato sviluppo delle pari opportunità, sia impossibile incrementare lo sviluppo economico, ma anche socio-culturale.
Le teorie sono ideali, obiettivi verso cui tendere. Ma la realtà dei fatti contraddice questa aspirazione in modo netto: in Italia una donna su due è disoccupata.
Il dato emerge dall’Osservatorio sull’imprenditoria femminile curato dall’ufficio studi di Confartigianato e presentato alla convention “Donne Impresa Confartigianato”.
E’ un dato che a prima vista non sorprende, date le condizioni attuali del mercato del lavoro, conseguenti alla crisi. Ma analizzando bene il report, è evidente che il divario è davvero profondo: il tasso di occupazione delle donne italiane è rimasto identico a quello registrato nel 1987, fra i paesi dell’allora Comunità europea. Siamo in ritardo di ben 23 anni.
Il tasso d’inattività delle donne italiane è superato solo da Malta: con il 48,9% la partecipazione femminile al mercato del lavoro rimane tra le più basse d’Europa, a fronte della media del 35,5%. Naturalmente la percentuale cala vertiginosamente al Sud, la Campania è prima, per inattività, fra le 271 regioni europee, con un’agghiacciante percentuale: il 68,9% delle donne non lavora. A farle da contrappeso c’è la provincia autonoma di Bolzano, dove il dato cala fino al 34,9%. Napoli è la provincia in cui la situazione è più grave: il 72,4% delle donne è disoccupata.
Ma cosa c’è dietro questi numeri? Ci sono le discriminazioni sul posto di lavoro: a partire dai salari più bassi, rispetto ai colleghi uomini, fino alle intimidazioni professionali, che iniziano già dal primo colloquio. Una donna, quando cerca lavoro, deve essere pronta a rispondere a domande di carattere molto personale, come la situazione sentimentale o il desiderio di avere una famiglia. E guai a rispondere affermativamente: significherebbe giocarsi ogni possibilità di assunzione. La forma intimidatoria più grave è poi la famosa lettera di licenziamento in bianco: un documento di dimissioni, che molte donne sono costrette a firmare, in cui la data è, appunto, lasciata in bianco. Tutto ciò, per evitare di dover pagare la maternità all’eventuale futura mamma.
Il problema è proprio questo: lo stato non esiste. Non da sostegno, non da tutele, non controlla i datori di lavoro. Se si confrontano i nostri numeri con quelli del resto dei stati europei, ci si chiede il perché di questa disparità, in quello che dovrebbe essere uno dei paesi più sviluppati al mondo. La risposta è proprio l’assenza dello stato: l’intervento per il sostegno alle famiglie, alla maternità, per la scolarizzazione infantile e la creazione di asili nido, è praticamente nullo.
L’Italia è maglia nera nella classifica europea: con appena l’1,3% del Pil speso dallo stato in interventi per famiglia e maternità, siamo al 23° posto, al pari di Bulgaria, Portogallo e Malta. Sotto questo gradino c’è solo la Polonia. In Italia, la spesa pubblica per famiglia e maternità è pari a 320 euro ad abitante, vale a dire 203 euro in meno rispetto alla media europea. I Paesi europei spendono più del doppio dell’Italia: la Germania investe per famiglia e maternità il 2,8% del Pil, la Francia il 2,5%. Tutto ciò, senza considerare che molte fra le legislature dei paesi dell’Unione contemplano anche fondi per le donne single o per le madri che crescono da sole i loro figli.
Il divario diventa enorme se si considerano i dati nordeuropei: in Danimarca il 3,8% del Pil è destinato a spesa pubblica per la famiglia, in Irlanda la quota è pari al 3,1%, in Finlandia e Svezia è del 3%. Altro tema critico è la carenza di servizi pubblici per l’infanzia: la percentuale di bambini fino a 3 anni che ne usufruiscono è del 12,5%, appena un terzo dell’obiettivo di Lisbona del 33% programmato per il 2010.
Nonostante la scarsa fiducia accordata all’universo femminile, le imprese create da donne italiane sono la punta di diamante dell’Europa. Le imprenditrici italiane resistono e fanno guadagnare all’Italia il record per il maggior numero di aziende “rosa”. Secondo l’Osservatorio, nel 2011 in Italia operano 1.531.200 imprenditrici e lavoratrici autonome. Al secondo posto la Germania con 1.383.500 imprenditrici, seguita da Regno Unito, Polonia, Spagna e Francia. In particolare, le donne alla guida di imprese artigiane sono 368.677. Questa leadership italiana è confermata anche dal peso che l’imprenditoria femminile ha sul totale delle donne occupate: in Italia è del 16,4%, di gran lunga superiore al 10,3% della media della zona Euro. L’habitat migliore in Friuli Venezia Giulia, che guida la classifica delle regioni con le condizioni ideali perché si sviluppino l’imprenditorialità e l’occupazione femminile. Nella zona nera, finiscono invece la Campania, la Sicilia e la Puglia. E tra le province con le peggiori condizioni per l’occupazione femminile si trovano Napoli, Palermo e Caltanissetta.
Anche i settori tradizionalmente dominati da uomini, le imprenditrici si stanno facendo largo: le pioniere del settore high tech sono 12.261, mentre le donne a capo di imprese innovative sono il 22,5% del totale degli imprenditori della tecnologia.
Questi dati dimostrano che le donne italiane, nonostante la crisi, hanno forza, creatività e volontà sufficiente per restare a galla. Malgrado l’assenza dello stato, alcune fra le imprenditrici italiane riescono ad emergere, probabilmente anche grazie a condizioni di partenza favorevoli. E questo significa, ad esempio, disporre di un buon budget per mettere in piedi una piccola impresa, che non può contare su alcuna garanzia o sostegno da parte dello stato. Quelle che restano fuori da questo piccolo, ma comunque significativo, quadro, sono le dipendenti, le operaie, le lavoratrici precarie, le autonome che non hanno scelto di esserlo, ma non possono fare altrimenti. Queste donne, che contribuiscono a una grossa fetta del nostro sviluppo, sono invisibili: senza nessuna tutela, né garanzie o -tantomeno- riconoscimenti. Senza un intervento serio da parte dello stato, così come succede in tutta Europa, la womenomics non ha alcuna possibilità di svilupparsi in casa nostra, nonostante la tenacia e la responsabilità dimostrata dalle donne italiane.