In Europa le trasformazioni socio-economiche degli ultimi cinquant’anni, visibili nell’abbandono delle aree rurali per effetto dell’emigrazione verso le città industriali e nella scomparsa o mutamento della fisionomia dei paesaggi, con la conseguente scomparsa o rovina dei manufatti dell’architettura rurale, l’arretramento di produzioni agricole e artigianali e l’affievolimento dei know how locali, ha determinato a livello politico la necessità di correggere questi processi attraverso la progettazione di interventi di sviluppo locale e rurale, le cosiddette politiche del patrimonio dei singoli stati dell’Unione.
Questi provvedimenti, pensati all’interno delle istituzioni comunitarie, hanno contribuito a rafforzare l’idea ormai diffusa della conservazione e della valorizzazione di siti, monumenti, paesaggi, percorsi e produzioni tipiche della storia europea e delle sue tante storie regionali e locali e hanno favorito un allargamento della sfera di intervento del patrimonio culturale.
Il paesaggio spesso è utilizzato come simbolo dell’identità nazionale e culturale. Anche quando è al centro di contestazioni tra Stato e popolazioni locali (è il caso di alcuni parchi) è evidente la forte valenza simbolica che nel discorso politico gli viene attribuita. Inoltre, le pratiche di frequentazione dello spazio locale che non sono ecologistiche in senso stretto ma connotano uno specifico inserimento nel territorio da parte delle popolazioni (pensiamo a quelle attività ricreative e sportive come le gite domenicali, la pesca o l’escursionismo), producono un senso di identità e di appartenenza territoriale.
Da questo punto di vista può essere importante considerare l’uso dello spazio nel tempo libero per le sue implicazioni sociali e culturali. Uno di questi usi è dato dal turismo naturalistico, culturale ed escursionistico lungo la rete di sentieri che attraversano i paesi europei e che costituiscono una rete infrastrutturale in grado di supportare varie forme di escursionismo e di turismo con vari livelli di impegno e di specializzazione sportiva. Una ricca e complessa rete di sentieri cui si aggiungono percorsi organizzati con altre finalità (quelli dei parchi letterari, quelli enogastronomici, delle strade panoramiche e storiche, etc.). Per quanto riguarda le motivazioni alla base delle scelte che le istituzioni e gli attori politici e sociali fanno nel progettare i percorsi naturalistici, storici, etnologici e religiosi, la preoccupazione principale riguarda soprattutto l’educazione dei giovani europei che non hanno conosciuto il mondo rurale in cui sono nati i loro genitori o i loro nonni, né la violenza del totalitarismo e della guerra. Gli itinerari culturali, come progetto di politica culturale, si rivelano, dunque, un elemento centrale della complessa e, per vari motivi problematica, fase di costruzione di una cittadinanza europea.
La finalità, da parte degli Stati nazionali e della stessa Comunità Europea è quella di conferire a siti e ad oggetti specifici un particolare valore simbolico, una valenza diretta a veicolare l’idea di comunità locale, nazionale e anche transnazionale. Gli spazi urbani e rurali assumono un ruolo centrale nella produzione della località. E’ evidente come la definizione di spazi di tutela della natura in qualche modo richiami una sorta di nostalgia per il passato e un senso di identità nazionale che rischierebbe di affievolirsi per l’affermazione del superstato europeo. La creazione di luoghi di memoria avrebbe perciò lo scopo di produrre non più “immagini edificanti” ma “immagini identificanti”.
Per certi aspetti la nostalgia fa parte del turismo contemporaneo legato alle cosiddette “tradizioni locali” e generalmente definito come storico, culturale, ecologico o eno-gastronomico. Le politiche fanno leva sulle caratteristiche specifiche di un luogo, sui suoi elementi caratterizzanti, trasformandoli in un tratto forte di identificazione. La produzione della località costituisce una componente importante di queste scelte politiche che tendono a “valorizzare” elementi originali molto vari e caratterizzanti di una città, un centro rurale o una micro-regione. Queste scelte politiche oltre a fornire immagini sempre più identificanti dei luoghi oggetto di valorizzazione, tendono a costruirne la stessa identità nel panorama turistico globale.
Il rapporto e il radicamento con il luogo e le sue tradizioni produttive costituisce, inoltre, l’elemento forte delle produzioni artigianali e agro-alimentari. Dal punto di vista simbolico e culturale esse sono espressione di una specifica cultura produttiva e in quanto tali sono considerate portatrici di identità. Inoltre, il legame con la località garantisce la genuinità delle materie prime, il rispetto delle modalità produttive artigianali e la loro autenticità. Paradossalmente i prodotti locali continuano a trasmettere l’identità locale e la loro autenticità anche quando per soddisfare la crescita della domanda i produttori sono costretti a compiere innovazioni tecnologiche che finiscono per uniformare prodotti che originariamente non lo erano o perché espressione degli stili peculiari di ciascun artigiano o perché espressione di un particolare terroir.
A testimoniare il legame tra luogo e prodotto interviene, infatti, il marchio che garantisce l’autenticità delle produzioni anche laddove è innegabile che esse siano il risultato di una ricostruzione di modalità produttive del passato, dunque delle copie, non sempre fedeli, dei manufatti “tradizionali”. Il tipo di identità che viene veicolato dal vasto insieme di marchi e di prodotti, di immagini e di luoghi è l’identità locale di una micro-regione o di un paese, una tendenza che si sviluppa nel quadro di una concezione che vede l’Europa come un mosaico di paesaggi, di culture e di tradizioni produttive estremamente differenziato e variegato, aspetto questo considerato alla base di una Europa che punta all’unione dei popoli e delle regioni più che delle nazioni e degli stati. In questo ambito un ruolo importante è quello giocato dal turismo, che contribuisce a diffondere le produzioni locali nel mercato internazionale.
Ma il territorio oggi sempre più costituisce un valore di riferimento assoluto anche nelle scelte alimentari. Fra le varie forme di identità suggerite dagli usi alimentari, quella che di questi tempi forse ci appare più ovvia è proprio quella di territorio. Il “mangiare geografico”, per dirla con Montanari, conoscere o esprimere una cultura di territorio attraverso i suoi prodotti e le sue ricette tipiche ci appare oggi un fatto naturale. Tuttavia, l’opinione secondo cui la cucina territoriale sarebbe una realtà antichissima è un equivoco su cui è bene riflettere. Innanzitutto è necessario operare un distinguo tra prodotti, piatti e singole ricette da un lato e la cucina, intesa come insieme di regole e di piatti dall’altra. Infatti, i piatti locali, legati cioè alle produzioni locali sono sempre esistiti, basta pensare alla cultura popolare più direttamente legata alle risorse del luogo. Da questo punto di vista, dunque, il cibo è territoriale per definizione. Anche se pensiamo al mercato, tuttavia, l’attenzione al prodotto “a denominazione di origine” non si può certo considerare una novità.
La conoscenza del territorio e delle risorse locali, infatti, sin dalle origini ha costituito un dato essenziale della cultura alimentare, solo che queste conoscenze non si inserivano in una cultura del territorio, in una volontà di mangiare geografico perché l’obiettivo non era quello di calarsi in una determinata cultura, di conoscere un territorio attraverso il suo cibo, bensì quello di riunire insieme tutte le esperienze, di accumulare sulla propria tavola tutti i territori possibili, in una sorta di grande banchetto universale.
Lo stesso discorso può essere fatto in relazione alle specialità locali, ai piatti territoriali: come i prodotti, anch’essi esistono da sempre e da sempre sono legati al territorio, alle risorse e alle tradizioni. Anche in questo caso, nel passato, l’obiettivo non era tanto di distinguere le specialità così da utilizzarle come segno identificativo e distintivo di culture diverse tra loro, quanto quello di raccoglierle, confonderle e mescolarle. La territorialità come nozione è un’invenzione nuova. Il momento di sviluppo delle cucine che oggi chiamiamo regionali e che erroneamente attribuiamo ad archetipi quasi atavici, ma in realtà mai esistiti, è il XIX secolo, il periodo dell’industrializzazione: proprio l’avvio del processo di omologazione e tendenzialmente di mondializzazione dei mercati, dei modelli, degli stili e delle abitudini alimentari, sposta l’attenzione sulle culture locali, determina l’invenzione di sistemi che oggi definiamo cucine regionali, le quali non si può certo affermare che siano nate da zero, in quanto le differenze locali sono sempre esistite, tuttavia esse non appartengono al passato. Nel momento in cui il cibo diventa un bene diffuso e tende all’omologazione, l’uso stesso del cibo come strumento di distinzione si appanna e si afferma il valore del territorio come contenitore di una nuova differenza: il cibo geografico.
Quello di terroir culinario è un concetto che riconosce il ruolo svolto dal retaggio culturale della nostra vita culinaria. Per capire in fondo questa nozione occorre prima considerare in che modo un determinato prodotto è definito dal suo terroir. Ogni prodotto, infatti, è lo specchio dell’ambiente in cui è nato. La storia che si cela dietro ciò che mangiamo, oltre ad essere definita dalle risorse disponibili e dalle condizioni ambientali, è altresì influenzata dalla storia, dal sistema di valori e dalle capacità creative degli individui. Se a ciò si aggiunge l’interazione tra gli individui all’interno del contesto in cui vivono e con altri contesti, si comprenderà perché il concetto di terroir culinario riesca a combinare tutte queste variabili e a esprimere la ricchezza del luogo, spesso difficile da definire. Parte integrante di esso sono le nozioni di tradizione, eredità e innovazione.
Quando pensiamo alla tradizione, generalmente pensiamo a un evento o a una pratica in qualche modo stabile e ripetitiva che favorisce un elemento di continuità tra passato e presente, come se per la generazione ricevente vi fosse l’obbligo implicito di fare proprio quanto trasmesso e di conservarlo immutato per tramandarlo inalterato alla generazione successiva. Una nozione di tradizione che sembrerebbe non ammettere alcuna forma di mutamento e che se corrispondesse al vero, forse, determinerebbe la scomparsa delle tradizioni che diventerebbero impraticabili ed estranee. Se, invece, consideriamo la tradizione non tanto come qualcosa che viene tramandato per essere perpetuato tale quale a se stesso, ma come qualcosa che nel momento in cui viene trasmesso prevede che chi lo riceve ne scelga gli elementi da conservare e gli aspetti da innovare, ecco che tradizione e innovazione divengono compatibili e la tradizione in questo senso può essere intesa come un processo più dinamico che combina insieme rappresentazioni, idee e know-how pratici e teorici che un gruppo accetta per garantire la continuità tra passato e presente . Il contributo che i singoli individui e le comunità locali conferiscono a tradizione, eredità e innovazione è centrale nella nozione di terroir culturale perché si fonda sul nostro carattere individuale e collettivo, che deriva da un’ampia gamma di emozioni, conoscenze e orgoglio che si può opportunamente definire “savoir faire” e che fa parte a tal punto del nostro carattere culinario da essere largamente istintivo.
Applicando quanto finora affermato alla Sardegna, un’isola composta da tante piccole isole con tradizioni simili, ma non perfettamente uguali, ci renderemo conto che ciascuna di esse è animata da peculiarità proprie, tradizioni non imbalsamate dalla condizione di insularità, ma che vivono i loro compromessi. Le tante sagre e fiere isolane sono del resto vere e proprie vetrine e occasioni per mostrare ciò che si produce e per vendere. Fenomeni che, sicuramente costituiscono strategie di “autodefinizione” e di “autoconservazione”, ma anche modalità che permettono di stabilire un rapporto con il mondo, con “l’altro”, così da potersi distinguere dall’altro e incontrarsi con l’altro. Produrre, mostrare, vendere, donare e consumare sono tutti verbi che accompagnano la pratica dell’identità. Un’identità che come tante altre, grazie all’aumento delle interconnessioni, possiamo ritrovare nella dimensione globale. Un’identità che può essere gustata dal locale, dal “locale emigrato” e dal cosmopolita. Un mercato che, in altre parole fortifica le culture locali.
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