Dorgali
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Il dono, gesto che pratichiamo tutti, ispira ed accompagna molte delle nostre azioni, diventa decisivo in molta parte della nostra vita quotidiana, riguarda i rapporti tra familiari e con gli sconosciuti, il passato e il presente, il Sud e il Nord del mondo. Riconoscere questa presenza trasversale è importante per ripensare alcuni dogmi negativi della modernità: il carattere naturale dell’uomo economico, la fatalità delle strutture di mercato, la necessità dell’egoismo come movente essenziale delle azioni umane e il mito stesso del profitto.

Presso alcune comunità della Sardegna centrale persistono, seppure vadano ormai scomparendo, forme rituali di incontro e di convivialità familiari il cui fine dichiarato è la celebrazione della solidarietà parentale nel nome di un antenato comune, la cui commemorazione ha luogo annualmente con la partecipazione collettiva al rito religioso e al banchetto. Ci riferiamo alle “feste di parenti” o “degli antenati” che celebrando il culto degli antenati agiscono a livelli diversi di solidarietà sociale e attivano forme diverse della memoria collettiva. Tali feste sembrano avere una carica simbolica di particolare rilievo nella vita comunitaria di Dorgali, per la densità delle feste, ben sette, che costituiscono il ciclo annuale delle cosiddette festas de pandela, feste dello stendardo, simbolo che raccoglie e nel quale si riconoscono sas carvas, i gruppi parentali cui per decenni è spettato ciclicamente l’onore e l’onere di promuovere e organizzare la festa. Di questo ciclo fa parte la Festa de Nostra Sennora de Baluvirde cui ci riferiremo in questo articolo.

Se ciascuna festa, considerata per sé, sembra avere principalmente la funzione di rinnovare i legami di parentela spirituale fra i discendenti degli antichi fondatori del culto del santo cui è intitolata la chiesa, e che nel suo nome si costituiscono come carva, discendenza, il ciclo complessivo delle sette feste sembra svolgere anche l’irrinunciabile funzione di promuovere momenti disinteressati di aggregazione e solidarietà sociale, quasi a baluardo e sostegno della pacifica convivenza dei gruppi che costituiscono la comunità.

La festa è costantemente sottolineata da momenti di rituale convivialità che celebrano insieme e rinnovano la solidarietà parentale e amicale. Lo stare insieme implica partecipazione al rito religioso ma anche e innanzitutto comunione del cibo: consumare insieme nel nome e nel ricordo della comune appartenenza ad una carva. Fino alla metà degli anno ’90, a festa conclusa, il successo dell’autocelebrazione si è misurato sulla quantità e qualità di cibo e bevande e di prestazioni gratuite di servizi che il priore era riuscito a convogliare in essa attraverso il circuito del dono. Si misurava, inoltre, sulla quantità di persone (si è arrivato a coinvolgerne anche 2000) che, accogliendo l’invito del priore e condividendone la mensa, contribuivano, nel banchetto collettivo, a consumare quel cibo e quelle bevande. La festa, dunque, nel segno della reciprocità che rende possibili la concentrazione di beni prima, la redistribuzione e il consumo poi.

Ritualmente si dona una festa ai concittadini, rafforzando e consolidando, attraverso il linguaggio tradizionale, il gruppo come comunità di ricordo. In generale non sono gli individui ma le collettività a impegnarsi reciprocamente, spesso sotto forma di alleanza perpetua. Gli obblighi reciproci che quelle collettività si impongono non solo inglobano tutti gli individui, e spesso generazioni successive, ma si estendono a tutte le attività, a tutte le specie di ricchezza: così in cambio di danze, di iniziazioni, si dà tutto ciò che il clan possiede, con l’obbligo del contraccambio e tutto è messo in movimento. Questi scambi non sono perciò di natura esclusivamente economica, al contrario, rappresentano un “sistema delle prestazioni totali”. Fortemente permeata dallo “spirito del dono”, la rappresentazione della festa che emerge suscita suggestioni maussiane. I priori, proponendo esplicitamente un’immagine di sé come donatori di festa, esprimono il sentimento connesso al proposito di donare, quasi evocando la forza insita nelle tre obbligazioni del dono: dare, ricevere, restituire. Il dono, secondo la triade di Mauss, prevede il gradimento di esso; il dono della festa deve, dunque, essere ricevuto e accettato pubblicamente e il segno più manifesto è dato dalla partecipazione al rito collettivo e soprattutto alla convivialità, al consumo comunitario del cibo. La festa attiva un’intensa circolazione di beni, non solo sotto forma di alimenti e attrezzature per la ristorazione, ma anche di gioielli e di stendardi. Nel corso di un ricevimento cui partecipavano tutti i priori ancora viventi, infatti, la prioressa di turno era solita riceve un gioiello dalla prioressa che l’aveva preceduta; l’anno successivo avrebbe restituito, quindi donato a sua volta, un gioiello alla nuova prioressa designata, in una sorta di circuito generalizzato del dono, che implica una circolazione di beni di prestigio non distruttiva e che, in qualche modo, richiama il kula. Gioielli e stendardi hanno carattere simbolico perché segno tangibile e pegno di solidarietà, durata e continuità nel tempo del gruppo. La pregnanza dell’ideologia del dono insita in questi fatti rituali, ci offre molti spunti per considerare la festa dal punto di vista della teoria del dono, per mettere, in un certo senso, ancora alla prova la teoria del “dono arcaico”, verificandone la capacità analitica in relazione al “dono moderno”.

Il merito di aver chiarito quello che A. Caillè chiama il terzo paradigma, (un modello diverso di circolazione dei beni e dei servizi, alternativo allo stato e al mercato, una terza via tra redistribuzione e scambio), lo si deve a J. T. Godbout , fra i maggiori esponenti del “Mauss” (Movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali). Infatti, se era evidente che questa terza via valesse nelle civiltà arcaiche, come mostrato dagli studi classici di Mauss, Lévi Strauss, Malinowski e Salhins, il merito di Godbout è quello di averne rilevato i tratti nella società moderna, capitalistica ed utilitarista, dimostrando quanto, come e perché il dono incida nelle relazioni sociali come una presenza attiva e costante.

Punto di partenza della riflessione di Goodbout è la distinzione tra valore d’uso, di scambio e di legame di un bene. I primi due appartengono al discorso economico e sono conquiste della modernità, il terzo è proprio del discorso sociale ed è implicitamente una critica della modernità. Il dono, a differenza delle altre forme di scambio che hanno come obiettivo l’interesse, avrebbe essenzialmente un valore di legame, renderebbe non a livello individuale ma a livello relazionale, risulterebbe disinteressato rispetto alla logica economica dell’utile individuale, ma interessato rispetto alla logica sociale dei legami, dei gruppi, dell’appartenenza a un destino comune. Le ragioni proprie di un gesto di dono sono varie: la riconoscenza, il piacere di dare, l’amore dell’altro, ma soprattutto un bisogno di essere membro di quel circolo strano che si estende come una sorta di legge universale che ci supera, alla quale si è liberi di partecipare oppure o no, ma alla quale si desidera partecipare.

Lo scambio è legato alla complementarietà dei bisogni e alla differenziazione dei compiti. Il dono non è, invece, questione di divisione dei beni o di condivisione, ma introduce uno scarto, un salto qualitativo: nasce come un rischiare se stessi in direzione dell’altro allo scopo di legarsi con l’altro o di legare l’altro a sé nel vincolo sociale. Ritagliandosi uno spazio tra l’ordine della necessità e quello della libertà, il dono come relazione e legame consente di rischiare se stessi verso un altro (o molti altri) senza diventare suoi ostaggi: se sono un essere sociale, ho bisogno dell’altro ma al tempo stesso ho anche il timore che, se gli manifesto la mia vulnerabilità, egli potrebbe ridurmi in servitù; scelgo perciò di offrirgli la mia alleanza mettendo innanzi un dono, che è una parte di me, una mia individuazione, ma che non è me: solo in questo modo posso sopportare un rifiuto proveniente dall’altro. Il dono è però un gioco sociale complesso, perché mentre espone chi dona alla perdita (il donatore potrebbe non venire corrisposto), esso coinvolge il beneficiario nello stesso rischio: in tutte le società chi non ricambia il dono è escluso dal legame sociale. Per comprendere adeguatamente la figura del dono e per non incorrere in arbitrarie sovrapposizioni, dobbiamo distinguere tra la figura della gratuità disinteressata (l’agape) e la figura altrettanto importante dell’interesse alla cooperazione (la philìa e l’amicizia politica). C’è chi nega la praticabilità del dono perché lo fa precipitare nell’arido meccanismo delle equivalenze e nella figura del prestito ad interesse: si confonde, in questo caso, la reciprocità con l’equivalenza, cioè la philìa con il comportamento acquisitivo o possessivo, giungendo a negare ogni componente di gratuità ritenuta incompatibile con la natura autointeressata delle transazioni umane. In questo caso, manca la comprensione del fatto che lo scambio di doni è un medio simbolico di altro ordine rispetto allo scambio di equivalenti: qui i beni non sono offerti in vista della loro consumazione ma presentati come segno di alleanza.

Da quanto detto, appare che il dono è relazione. Ne risulta che il contro-dono è implicato e inscritto nella natura stessa del dono, perché un dono che si vuole unilaterale o che mira a mettere fuori gioco la reciprocità, lavora alla disattivazione della relazione, contraddicendo in tal modo la sua natura relazionale. Non è dunque da questa parte che va cercata la gratuità. Il dono non esclude la risposta ma vuole metterla in circolo, non è mai calcolabile, non è oggetto di previsioni e di comparazione: è sorpresa e introduzione di un senso nuovo, indisponibile alla quantificazione perché proveniente dal “fondo senza fondo” di ogni essere umano. Per usare le parole di P. Sequeri, il dono rappresenta l’intreccio, nell’offerta e nella risposta, tra la dimensione affettiva della relazione donante (la libertà e la gratuità come la stoffa e la qualità della relazione) e la preoccupazione per il legame responsabile (i vincoli della relazione) in vista della durata, stabilità e solidità del rapporto.

P. Donati, suggerisce che il dono è l’elemento legante tra i partner dell’interazione sociale nel senso che personalizza le relazioni tra le persone coinvolte. Seguendo questa linea di ricerca e intrecciandola con le analisi sopra esibite, si può concludere che il dono non è lo scambio di equivalenti: questo tipo di scambio, infatti, finisce per slegare i contraenti, nel senso che scotomizza i movimenti del dare e del prendere, per poterli poi misurare in vista dell’equivalenza monetaria. Ma il dono di cui discutiamo non è nemmeno il dono puro, perché esso si impone attraverso la messa tra parentesi di ogni contesto e di ogni altra forma di relazione, al limite risulta estraneo anche all’utilità sociale (non tiene conto del bisogno).

Se il dono lega e con ciò personalizza le relazioni tra persone, allora il dono che più si presta a legare, rendendo personali, consuete e più intime le relazioni, è precisamente il tempo, quando è tempo dell’esistenza, cioè il luogo in cui l’io prende posto; non il tempo della produttività o del consumo. Il dono del tempo è il dono di sé, nella propria disponibilità al legame, il quale si annoda e riannoda nel tempo condiviso. Lo scambio di tempo è, in prima battuta, scambio di competenze e le competenze non sono quantificabili. Al tempo come unità di scambio, come quantità, risponde il tempo come estensione dell’anima, come qualità delle competenze, in cui si deposita tutta l’esperienza del singolo.

In concreto, nel servizio che offro è la mia storia che parla, la storia di un dono ricevuto e trasmesso, perché la sua memoria non venga perduta. Se l’accento è posto non sul servizio in quanto tale, ma sulla qualità relazionale di cui il servizio è un mezzo, allora entra in scena non il soggetto come ruolo e funzione, facilmente reperibile sul mercato, ma il soggetto come persona, sorgente e trama di relazioni, disponibile a mettersi in gioco con la sua vita e la sua storia, disponibile a incontrare altre vite, altre storie e ad interagire con esse su diversi piani. Lo scambio di doni consente di saldare una doppia finalità: sé come fine e l’altro come fine. La stessa parola comunità, del resto, è composta dalla preposizione cum che significa ‘con’ e indica un legame e dal nome munus che significa dono.

Nell’ambito dei riti legati alla festa di Nostra Sennora de Baluvirde, elemento strategico nella organizzazione e fruizione delle feste di pandela è allora il flusso di beni e servizi, che in maniera incessante segna non solo il banchetto finale ma tutto l’arco temporale di preparazione della festa; flusso che si presenta col duplice volto della reciprocità, fra gruppi parentali membri della stessa carva, e della redistribuzione, fra gruppi parentali appartenenti a carvas differenti, in una sorta di scambio generalizzato nel quale, alla fine dell’intero ciclo delle sette feste di pandela tutta la comunità si ritrova coinvolta. Le energie, le risorse in beni materiali e immateriali, in relazioni sociali, profuse nel corso di un anno di preparativi, e nel corso della festa, aldilà del risultato più immediatamente evidente (divertimento collettivo, consumo rituale di cibo, oggi sempre meno eccezionale e intensa circolazione di beni), avrebbero un effetto meno appariscente ma più incisivo, ricomponendo i fili e riannodando le trame della solidarietà che le vicende quotidiane costantemente minano. Svilupperebbero, in definitiva, la capacità collettiva di controllare i conflitti interni e il loro potenziale di violenza, indicando alle forze in conflitto obiettivi comuni, indirizzando alla competizione esterna alla comunità, piuttosto che interna.

Nei primi anni ’90 Dorgali dove, come in gran parte del modo rurale, molte feste erano state abbandonate sotto la spinta del cambiamento economico e sociale, ha assistito al revival di numerose feste di pandela e ad una intensificazione dello scambio sociale. Dal 1995, però, si è di nuovo allentata la tradizione, colpa del ristagno economico che da qualche anno ha colpito tutti i settori dell’economia locale. La festa, nella forma descritta, non si è più ripetuta: nel paese è montata una certa critica contro gli eccessi e gli sprechi delle feste campestri, a favore di un ritorno a forme di festa più permeate di senso religioso. Attualmente, la festa di Valverde è organizzata dalla Croce Verde, i numeri sono solo in parte ridimensionati, perché le feste di pandela sono ora indirizzate a tutta la comunità di Dorgali. L’enfasi sul cibo, tuttavia, è minore e i suoi preparativi sono ora molto rapidi. Con la comparsa del volontariato il dono della festa sembra, inoltre, inserirsi nella quarta sfera indicata da Godbout e Caillé: quella in cui dei volontari fanno il dono agli estranei, il quale non serve più a far nascere e a consolidare relazioni interpersonali stabili, ma alimenta reti aperte potenzialmente all’infinito, molto oltre la conoscenza reciproca concreta.

Fonti

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