di Carla Dotzo
Mi sveglia il rumore sordo di zoccoli da corsia. E’ l’infermiera del piano di sopra, un’entità nebulosa della quale, dopo anni di vicinanza, conosco solo il passo, frenetico e puntuale come la morte, delle h 6:00 di ogni mattina. Lei è il mio drin drin da settembre, da quando ho per l’ennesima volta cambiato scuola e ripreso la vita da pendolare.
I colleghi del turno-auto mi aspettano per partire, direzione ULTIMO GIORNO degli orali, Esami di Stato. Non voglio arrivare in ritardo. Se Carlo, il mio alunno migliore, non mi vede in mezzo ai Commissari esterni, gli prende un colpo. Nonostante il profitto, è insicuro. Non ha perso una sola lezione di potenziamento, in qualunque orario e giorno le tenessi. Anche alle 14, per dare il tempo agli studenti pendolari di prendere l’ultimo pullman e a me di ritornare a Cagliari prima di notte. Considerando che la sesta ora finisce alle 13:40 molto spesso arrivavamo con l’ultimo boccone di panino a mezz’aria e la bottiglietta dell’acqua ormai tiepida sottobraccio. Ma Carlo era sempre lì, impeccabile. Lucido e munito di quaderno di brutta e di bella, di Rocci e manuale di versioni.
Quest’anno è stato più angosciante degli altri, molto per le fosche prospettive per il futuro- vedi alla voce tagli massicci alla scuola pubblica- e un po’ per il tempaccio che ha fatto (com’è che si dice? Piove sempre sul bagnato). Spesso abbiamo trovato strade allagate e nebbia da Padania, talvolta addirittura neve…
Però viaggiare insieme è un esperimento antropologico davvero interessante: c’è la collega che ripassa la lezione e quella che corregge i compiti, quella che chiama a casa ogni tre minuti per sapere se va tutto bene, quella che arriva sistematicamente in ritardo e poi corre come un treno per superare il gap orario. C’è quella che non sopravvive se non critica tutto e tutti e quello che per non sentirci cianciare si mette l’i-pod e ci ignora bellamente. La nostra nasce per essere una soluzione di comodo…con uno stipendio medio da insegnante se ogni giorno dovessimo muoverci con mezzi propri si andrebbe in perdita. Invece viaggiando in 20 riusciamo a prendere l’auto solo due volte alla settimana, e piano piano ci si può abituare serenamente anche alle abitudini più strampalate dei colleghi.
Oggi però il mio viaggio ha un sapore agrodolce, lo stesso che provo ogni ultimo giorno di scuola, quando mi ritrovo a chiedermi dove, ma soprattutto se lavorerò l’anno prossimo. E se da un lato l’urgenza di riposo è incalzante, dall’altro è inevitabile la malinconia del momento dei saluti e l’ansia per il futuro. Baci a collaboratori e segretari, ringraziamenti vari, ultimo sguardo alla sveglia da parete rigorosamente in anticipo. I ragazzi, quelli non li perdi mai. Continuano a cercarti dopo anni per raccontarti i fatti loro, ricordarti che esistono e che in fin dei conti è per loro che da otto anni fai tutto questo, affronti lo stillicidio del non sapere.
E’ di questi giorni la notizia dell’esperimento di un robot in classe…Mi chiedo che reazione avrà quando i ragazzini gli porranno le prime domande facili facili…”Prof, lei crede in Dio?”bztsp (primo corto circuito). “Prof, ma secondo lei i gay dovrebbero sposarsi in Chiesa?” bzsrptttttttchertjsjdnrnefhj “Prof, devo parlarle. Mi da un consiglio?Potrei aver messo incinta la mia ragazza”bszzzttttcnbfjuijdnfhbfjujdxnsdfiisdkmfjriososx,dl.
Comunque. Mentre Carlo racconta con voce tremula al Commissario di fisica qualcosa sulle onde che io non mi sforzo nemmeno di capire, mi arrivano flash e suggestioni sulla mattinata di domani. Primo giorno di “vacanza-disoccupazione”: sveglia alle 6 con zoccolo di infermiera, prima incursione all’Ufficio di collocamento. Fila di 3 o 4 ore. E’il giorno più angosciante. Sempre le stesse facce in quella fila, solo un po’meno lisce, più stanche e disilluse. Qualcuno è in bermuda ed infradito, pronto ad affogare il senso di frustrazione nelle acque del Poetto, altre le ho viste prima con la fede al dito, poi con il pancione, e ora sfoggiano bambini insofferenti al caldo e alla sveglia anticipata: a luglio gli asili sono chiusi. Le magliette sono spesso le stesse dell’anno precedente: un po’perché mancano i soldi, un po’ perché il giorno in cui ammetti davanti a te stesso e allo Stato che sei stato nuovamente licenziato e sei disoccupato è un giorno che ti forma il carattere, e richiede un rituale preciso e irreversibile.
I primi anni la prendevamo a ridere: erano annate di vacche grasse (si fa per dire) e, oltre all’emozione delle prime esperienze lavorative importanti, c’era la consapevolezza che si sarebbe stati richiamati. Quattro anni fa a settembre sceglievo fra quattro cattedre possibili per quell’anno scolastico…roba da viziati. Ora non corro quel rischio. L’anno scorso c’erano solo 10 ore, quest’anno non ci sarà niente.
Si diceva. I primi tempi guardavamo perplessi e diffidenti i volti scoraggiati di chi quella fila l’aveva già fatta tante volte. Non ponevamo domande, forse sapevamo che non ci sarebbe convenuto. Poi il rito si è fatto più malinconico, e l’anno scorso è stato un colpo per me notare un signore di mezza età che pochi giorni prima avevo visto fuori la chiesa del mio quartiere ritirare dei pacchi-offerta della parrocchia con atteggiamento dimesso e gli occhi fissi a terra.
Faccio in tempo a pensare che domani qualche ventenne fresca di laurea entrerà sorridente e mi guarderà perplessa e diffidente, senza pormi domande, forse sapendo che è meglio non sapere.
Lo scoramento dura un istante: dobbiamo decidere il voto di Carlo. “Bravo, dovrebbero esserci più ragazzi come te a scuola!”- declama la Presidente. Il presente vince ancora sulla paura del futuro. “In qualche modo me la caverò”.