Amalia Schirru
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Il tema della povertà rappresenta un problema difficile da affrontare, ci proponiamo di dare una definizione di povertà prendendone in esame le diverse dimensioni e concetti affini, cercando nello stesso tempo di misurare il fenomeno delle nuove povertà evidenziando le cause del loro sorgere.

La povertà intesa non solo come povertà materiale ma anche come assenza di un progetto di vita autonomo scaturente dall’impossibilità o incapacità di utilizzare un reddito o un bene che si possiede per migliorare e assicurarsi una qualità di vita. Il discorso sul concetto di povertà si sposta verso il significato umano dell’essere poveri in Sardegna riflettendo sulle trasformazioni delle forme di povertà e sulle differenze di percezione dello “stato di povertà” nel passato e nel presente. Quest’analisi conduce al riconoscimento delle vecchie e delle nuove povertà che non godono di ampia visibilità ma che dovrebbero essere continuamente menzionate con maggior attenzione, analisi e approfondimento.
La parte finale tende ad identificare l’esistenza o l’inesistenza di misure che il governo sta attuando per dare risposte, soluzioni alle povertà presenti. Ci siamo posti nuovi interrogativi, nuove prospettive dalle quali partire per costruire e tracciare efficaci percorsi che possano essere d’aiuto concreto alla presa di coscienza collettiva sulle povertà che ci circondano. E’ indubbio che esistano più povertà e tra queste ve ne sono di nuove che devono essere comprese e portate alla luce del sole perché possano essere trovati i rimedi adatti attraverso la politica (che dovrebbe divenire più consapevole e attiva), attraverso la società (che dovrebbe, quando è necessario, unirsi con forza nella mobilitazione sociale) e attraverso nuove forme di pensiero (auspicando il risveglio del senso critico collettivo).

Ci sono degli studi abbastanza recenti che considerano una persona sulla soglia di povertà quando viene a mancare quel reddito minimo che permette alla persona di soddisfare i bisogni primari come quello della sopravvivenza. Globalmente, il reddito delle 500 persone più ricche del mondo è superiore a quello dei 416 milioni di persone più povere (secondo lo Human Development Report 2005) In Italia, nel 2009, le famiglie in condizioni di povertà relativa sono state 2 milioni 657 mila e hanno rappresentato il 10,8% delle famiglie residenti; si tratta di 7 milioni 810 mila individui poveri, il 13,1% dell’intera popolazione. Sempre nel 2009, 1.162 mila famiglie (il 4,7% delle famiglie residenti) sono risultate in condizione di povertà assoluta per un totale di 3 milioni e 74 mila individui (il 5,2% dell’intera popolazione). L’incidenza della povertà assoluta viene calcolata sulla base di una soglia di povertà che corrisponde alla spesa mensile minima necessaria per acquisire il paniere di beni e servizi che, nel contesto italiano e per una determinata famiglia, sono considerati essenziali a conseguire uno standard di vita minimamente accettabile (fonte Istat). In Italia la soglia di povertà si attesta intorno ai 4 mila euro circa, che corrisponde anche al limite di reddito annuo. Nonostante sia un indice molto vecchio, è attualmente il reddito minimo per accedere anche alle provvidenze sociali dello Stato, come per esempio l’assegno di invalidità. Poi sono stati inseriti nuovi parametri, come nel calcolo dell’ISEE (Indicatore Situazione Economica), dove oltre al reddito, entrano nel calcolo il numero dei componenti del nucleo familiare, la proprietà o meno della casa nella quale si vive, e altri beni che sono oggi considerati indispensabili per assicurare una certa autonomia di vita. Le condizioni di povertà non si misurano a mio parere solo sul reddito perché come diceva il Nobel per la pace Amartya Sen: “è inutile avere un reddito se non hai la capacità, la possibilità di utilizzare un bene o denaro, per migliorare e assicurare una migliore qualità di vita”. In questi studi entrano con molta forza, il livello di istruzione e conoscenza e soprattutto le condizioni di salute fisica e psichica di una persona. Perché si possono possedere beni e ricchezze ma se si è ammalati, o invalidi gravi o non si è in grado psichicamente di amministrare i propri beni e utilizzarli secondo certi equilibri atti a migliorare la propria vita. Anche questi elementi sono oggi indispensabili per misurare la povertà della persona e anche di un popolo e di una nazione. Povertà è fondamentalmente la conseguenza di una forte disuguaglianza, che indebolisce le istituzioni e la vita di una nazione, che consente di trasmettere la povertà da una generazione all’altra (una madre povera può compromettere il futuro dei propri figli). Povertà è anche una sensazione di impotenza e di frustrazione, di impossibilità di prendere decisioni, di esclusione, di mancanza di accesso ai servizi, al sistema finanziario, alla società. Povertà è anche essere al di fuori dei canoni ‘soliti’, di non poter avere un bell’aspetto o sentirsi in grado di garantire un futuro dignitoso ai propri figli (studio Voices of the poor, 2000). Essere poveri, se dobbiamo sintetizzare, significa trovarci di fronte a persone che non hanno un reddito da lavoro e una casa, dei beni materiali; ma non solo, sono povere anche quelle persone che non sono in grado, pur avendo un reddito e una casa, di servirsene o coloro che non hanno accesso ad un’istruzione sufficiente tale da permettere loro di agire con libertà e autonomia, per esempio nel mercato del lavoro. E, in più, non avere accesso a quelle condizioni di benessere psicofisico per esprimere al meglio tutte le proprie potenzialità in quanto persone.

Trent’anni fa, la frattura sociale tra chi non aveva i mezzi di sussistenza e chi li aveva non era così profonda; penso a chi non aveva la terra, penso alle famiglie contadine numerose, per le quali c’era almeno il riconoscimento del valore della forza lavoro, che consentiva anche a chi non aveva altri strumenti, se non le proprie braccia e testa e salute, di poter sopravvivere dignitosamente, mettendosi a servizio di chi invece aveva beni e ricchezza. Questo poteva significare utilizzare al meglio la propria forza lavoro nelle aziende dei proprietari, per ricevere vitto, alloggio e un domani un fazzoletto di terra o dei capi di bestiame, e intraprendere così un percorso di miglioramento delle proprie condizioni, in autonomia e libertà.

Penso anche ai nostri emigrati che nel passato riuscivano a trovare, seppur con grandi sacrifici, una collocazione, un inserimento. Penso alle stesse collaboratrici domestiche che partivano per stare nelle famiglie del Nord, un salto che significava molto in termini affettivi, ma che le nostre donne compivano volentieri perché sapevano che, in seguito, avrebbero migliorato le proprie condizioni di vita. Erano ragazze che partivano all’età di sedici anni, ancora lo ricordo, abbandonavano le famiglie contadine per andare nelle grandi città: tante sono diventate infermiere, altre operaie, altre artigiane e qualcuna imprenditrici. Oggi guardo alle nostre immigrate: sono donne polacche, russe, ucraine che arrivano come badanti e collaboratrici familiari, e vedo in loro lo stesso progetto di vita. Un percorso doloroso, che ha dei costi per loro stesse e per le famiglie che lasciano, ma che è in qualche maniera funzionale ad aumentare la loro conoscenza, cultura e professionalità e che si inserisce in una progettualità di investimento per i propri figli, che hanno la possibilità di frequentare l’Università o di sposarsi e acquistare una casa; sono tutti elementi che aiutano nell’arco della vita a costruirsi una fascia in più di benessere rispetto a quella di partenza o di provenienza.

Le fasce più povere sono rappresentate da coloro che perdono improvvisamente il lavoro, famiglie che si dividono, persone a cui vengono interrotti i progetti di vita costruiti fino a quel momento. Prendiamo l’operaio specializzato che, da un momento all’altro, si vede espulso dal mondo del lavoro, costretto a rivendere la casa se ha fatto un mutuo e a dover contare, ritornando nella casa dei genitori, sulla pensione dei genitori per poter continuare a sopravvivere nella ricerca e speranza di trovare un nuovo lavoro. Oppure la scelta dell’emigrazione che significa pure ricominciare tutto da capo, ma forse con meno forza, meno entusiasmo. Perché questi “nuovi poveri” si trovano di fronte all’altra faccia della medaglia, rappresentata dai giovani che hanno studiato, hanno acquisito tanta conoscenza e che con fatica cercano di immetterla nel mercato del lavoro. Persone che anche a 40/42 anni, ancora non hanno avuto l’opportunità di un lavoro stabile, quindi non hanno mai avuto la possibilità di iniziare un progetto di vita, con tutte le conseguenze che ne derivano. Queste sono oggi le forme più preoccupanti di povertà che però si sommano alle vecchie povertà. Le vecchie povertà le abbiamo viste: sono quelle di tanti che, non avendo quegli strumenti basilari dell’istruzione e della salute, non hanno la possibilità di costruirsi un’autonomia e formarsi a loro volta una famiglia, penso soprattutto agli invalidi, ai disabili mentali, pensionati soli con pensioni sociali al minimo, e a tutti coloro per i quali non è stato facile l’ingresso non solo nel mondo del lavoro ma nella stessa società.

Da chiarire ad oggi se sono più poveri gli italiani o gli immigrati. Se siano più ricchi gli italiani o gli immigrati, ancora non si capisce, anche se i dati incominciano ad esserci. Un giovane ingegnere metallurgico ucraino nel suo paese non guadagna più di 200 euro al mese. Un politico ucraino di base percepisce uno stipendio di 1500 euro al mese. Da noi un politico di base non guadagna meno di 15 mila euro al mese rispetto alle 800 o 1000 euro di stipendio medio degli italiani. Un insegnante ucraino prende circa 50 euro al mese, e se perdi il lavoro, lo Stato Ucraino ti aiuta con 20 euro al mese. Mi chiedo se l’Ucraina e l’Italia siano paesi civili e umani. Un giovane ingegnere ucraino di 24 anni ora prepara le carte necessarie per andarsene. In Ucraina gli amministratori della “cosa pubblica” non ti consentono di sviluppare la vita che vorresti, ma con quei 200 euro vorrebbero che tu ti accontentassi di cibarti e di soddisfare l’appetito: mangiando pane e latte, perché con quella cifra non potresti comprare altro. Mi domando se siamo in presenza di nuove forme di povertà o di nuove forme di dittatura?

Questo è il livello della Polonia, della Slovenia, della Romania e dell’Ucraina tutti paesi dai quali partono milioni di donne, di ragazze in cerca di un progetto di vita negato nel loro paese di provenienza. Le recenti analisi sulla condizione della povertà della vita dei bambini in Italia indicano che l’Italia è al venticinquesimo posto, la Bulgaria al ventiseiesimo posto, mentre la Romania è al trentatreesimo posto, ci stiamo avvicinando molto a queste realtà.
Noi tutti sappiamo che l’Italia non è un paese povero e probabilmente nemmeno l’Ucraina è un paese cosi povero. Ma allora, sorge anche qui il problema nell’identificare i paesi poveri. Come si può parlare di crisi economica in Italia, quando ancora si sentono delle cifre assurde che arrivano nelle tasche di chi governa “la cosa pubblica”? Un divario troppo forte, talmente schiacciante da immobilizzare i cittadini che continuano comunque a vivere o meglio a tirare avanti. I cittadini sono tutti confusi? Questo dato non li scuote? Qual è il gioco? Dove stiamo andando? Il gioco sembrerebbe quello dell’annientamento, per cui ti crei un modello cui aspirare, senza più regole: puoi diventare ricco facendo il trafficante di droga o il trafficante d’armi o della prostituzione; il problema è lasciare quel modello di ricchezza cui possono accedere i più furbi (leggi “i più intelligenti”) perché gli altri sono dei fessi, e il modello a cui aspirano gli stati autoritari. Ho citato prima i paesi del Sud America proprio perché è il modello cui anche la società italiana tende. L’idea di governo è quella: avere una ricchezza concentrata su poche famiglie e pochi ceti sociali e dall’altra il popolo che comunque si arrangia e obbedisce o comunque non disturba il modellatore. Questo è il modello verso cui stiamo andando, e il popolo non è più nemmeno capace di vedere quello che sta succedendo, perché comunque, ripeto, la povertà è tangibile, c’è, esiste! La povertà non è né analizzata né verificata, perché passa il messaggio che chi non riesce a raggiungere quei livelli è o un fannullone o un perditempo o comunque si tratta di persone che sono state abituate a chiedere, a vivere di assistenza, a fare i parassiti. Persone che vanno punite e non aiutate, costruendo le opportunità di crescita, dando loro i mezzi perché possano raggiungere determinati livelli di vita autonoma. Diciamo pure che coloro che amministrano lo mettono in conto, sanno di avere dei poveri che possono rendere ancora più poveri, fino ad annientarli. Una intera fetta di umanità che arriva a non avere nemmeno più voce per esprimere il dissenso, per esprimere la rabbia, l’annientamento, la propria rassegnazione, l’annullamento del senso critico. Penso anche ai senza tetto, a chi non ha più un nome ma è solo il numero di una statistica, a chi è costretto a mendicare perché solo o privo di sostegno familiare. In sintesi, ed è penoso dirlo, avere i poveri fa comodo. Al sistema e anche alla politica in generale. Stiamo andando verso l’annullamento del valore della persona, io vedo questo, non c’è nessuno tipo di riguardo, né di attenzione nei confronti dei più deboli o degli emarginati. I ricchi non incontrano i poveri, i ricchi non vedono e non vogliono vedere o ascoltare le storie di vita disperate, il povero è da evitare, è disdicevole, in qualche modo perfino colpevole della propria condizione. In mezzo c’è la televisione che mostra un mondo diverso da quello che è, che ti fa desiderare di ambire a consumi impossibili per i livelli di reddito medi reali, “false necessità” che determinano, per molte famiglie, una maggiore spesa a cui poi non si riesce a far fronte, cadendo improvvisamente nel tunnel del debito e della povertà. Andiamo verso una società e una larga fetta di popolazione addormentata, quasi addomesticata, dove tutto passa e vive nella speranza.

La televisione è come un calmante, milioni di famiglie guardano continuamente la televisione lasciandola accesa continuamente pur non guardandola, ma pur di non pensare! Forse perché se la spegnessero, si accorgerebbero che i pensieri si formerebbero da soli? Che le domande nascerebbero da sole, spontanee? Sono tante, troppe, le persone, le famiglie, i giovani che ancora si ‘assopiscono’ davanti alla tv. E quello dell’informazione, della televisione che la filtra e veicola, è un problema ben conosciuto, comune, nel nostro Paese come in molte dittature, del presente e del passato. Come aggravante, viene oggi a mancare anche la figura dell’intellettuale tout – court, che ora fa il gioco delle persone potenti. È venuta a mancare la coscienza critica di cui l’intellettuale da sempre esprime si fa portavoce. L’informazione che non esiste più o che va ricercata a fondo, su altri media e con altri strumenti che non quelli del puro ascolto e spengo il cervello, mi rilasso così non penso.

Il caso Pomigliano è un esempio, che ci mostra come la gente viva nella disperazione e, per la paura di perdere il lavoro in un’azienda che è l’unica àncora di salvezza, sia disposta ad accettare delle misure che 15 o 20 anni fa sarebbero state impensabili. Ecco ritorniamo li: l’ignoranza, la non conoscenza e l’affidarsi al senso comune, al sentito dire per televisione, al meno peggio. Per cui, se oggi dico che alcuni impiegati sono fannulloni, il messaggio che passa a tutti i livelli è il seguente: gli impiegati sono tutti fannulloni! Oppure che gli invalidi sono tutti parassiti! Il problema vero è la mancanza di conoscenza, la non informazione, che da un lato non viene fornita dai mass media e dall’altra non viene ricercata dagli utenti. E a farne le spese sono sempre i più deboli, tutto ciò che non rientra nella perfezione e nell’immagine di forza di una nazione, va represso o annullato. Gli spettri di un passato neanche tanto lontano sono perfettamente percepibili.

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