Povertà
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di Mariano Froldi

La povertà, è un concetto relativo. Muta assieme alla società. Muta la sua percezione e muta il suo status. La mia esperienza in materia si muove attraverso piccoli aneddoti e vicende che ho visto in questi ultimi dieci anni.

Primo esempio. L’anno scorso: il sole cocente pareva fondere l’asfalto. Mi trovato in uscita da Cagliari, il primo dei tre semafori che conoscono tutti coloro che entrano ed escono dal capoluogo sardo. Quando si viaggia spesso, ci si trova davanti a tanti personaggi “strani” davanti ai semafori: chi ti vuole lavare il parabrezza, chi ti propone fazzoletti e altre cose utili, chi ti chiede soldi, chi ha un cartello dove illustra le sue disgrazie. In quel caso mi sono trovato davanti una giovane donna slava, in stato interessante, che passava in mezzo alle auto e, senza essere troppo insistente, porgeva una mano per chiedere qualche spicciolo. Di solito non dò del denaro, e non per una mancata sensibilità verso chi è stato meno fortunato di me, ma perché spesso (e le statistiche lo dicono chiaro), l’accattonaggio muove schiavi e crea ricchi sulla delinquenza. E senza accorgercene, con un gesto apparentemente nobile e dettato da buone intenzioni (ci mancherebbe), foraggiamo sfruttamento e delinquenza. Comunque, vista quella giovane, un moto spontaneo mi ha portato a regalarle due euro. Ho avuto un ringraziamento leggero e sottovoce. Ciò, comunque mi ha portato ad interrogami sul significato odierno della povertà, se essa sia cambiata o meno, se la sua percezione sia diversa, se gli stessi poveri siano diversi rispetto al passato.

Porto un altro piccolo aneddoto per far capire il mio punto di vista; qualche anno fa, stavo seguendo, per un quotidiano, la situazione povertà nel paese in cui vivo. Dovevo fare una sorta di censimento. La prima cosa che feci fu di contattare la Caritas locale. Ne uscì fuori un quadro interessante: i poveri ci sono, tendono a nascondersi, almeno una parte di loro. per evitare di essere etichettati (cosa questa comune in tutte le società ed epoche). Ma ciò che mi colpì particolarmente furono queste frasi di un’operatrice volontaria: “Certe volte restiamo interdetti, il Comune ci dà un elenco dei poveri, di coloro che si trovano disagiati; c’è chi rifiuta di avere pasta, pane e beni di prima necessità; c’è chi invece accetta; fra questi ce ne sono alcuni che pur dichiarandosi poveri non rinunciano a personal computer (anche portatili) prodotti griffati, vestiti alla moda, cellulari di ultima generazione”. Ecco, questo pone un problema a chi si interroga sulla povertà.

Un povero di oggi è diverso da un povero di 30 anni fa e ancora di più da un povero di inizio ‘900. Partiamo dall’ultimo. Ad inizio novecento nelle città c’era davvero chi rischiava di morire di fame, chi viveva di pochissimo. Mio nonno era un pescatore dell’isola di San Pietro. Per tutta la vita fece il pescatore con una barchetta scalcagnata. Aveva sette figli. Li ha cresciuti tutti con la nonna Adelina in modo splendido. Certo, le rinunce c’erano eccome: un buco di casa in affitto, cibo comprato contando i grammi, il negoziante che ti faceva credito, carne una volta ogni morte di Papa, abiti che venivano usati, rivoltati e riusati, scarpe risuolate all’infinito. Eppure nessuno si lamentava. Ma oggi, se da una parte l’impianto delle nazioni occidentali evita la povertà estrema quasi sempre, con interventi dello stato sociale, i modelli imposti dalla “civiltà” dei consumi, nel suo lato più edonistico (un sacerdote mi sintetizzo la cosa con queste lapidarie parole: “non sei se non appari”), portano ad avere una percezione distorta delle cose e dei beni: puoi fare a meno della pasta, ma non dell’Iphone o dello smartpone, o della connessione internet Adsl, o delle scarpe che costano 300 euro e così via.

Questa a mio parere è la vera distorsione che oggi possiamo tutti vedere. E allora? Forse ci vorrebbe uno sforzo per far capire quali sono le priorità, cosa davvero importa, e dunque cosa privilegiare o no avendo poco o punto denaro. Ma siamo ancora in tempo?

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