di Sotera Fornaro
Uno dei tratti distintivi della cultura greca è l’agonismo: infatti durante le feste in onore degli dei, che si tenevano lungo tutto il corso dell’anno, si tenevano gare, sportive o artistiche. Due feste cittadine ad Atene, furono direttamente legate a rappresentazioni drammatiche: le Dionisie cittadine – la principale festa della città di Atene, durante il mese attico di Elafebolione (marzo/aprile) – e le Lenee, nel mese di Gamelione (gennaio/febbraio).
Nel mese di Poseidaone (all’incirca il nostro mese di dicembre), avevano luogo le Dionisie rurali, che si tenevano negli insediamenti di campagna dell’Attica. Al centro della festa c’era la processione (pompé) di un fallo di legno, che veniva portato nei villaggi come simbolo di fertilità, per propiziare il buon esito della semina invernale. Un coro cantava un inno in onore di Fallo, probabilmente accompagnato da gesti osceni. Nel V e IV sec. anche nelle Dionisie rurali, come nelle Dionisie cittadine, e certo a loro imitazione, furono rappresentate opere drammatiche. Le Lenee (in gennaio/febbraio) – con grande probabilità il nome deriva non dal termine greco lenós (‘torchio’), ma da lénai (un’altra denominazione delle seguaci di Dioniso, le baccanti o menadi) – erano celebrate con una processione. Beffe, offese, invettive scurrili e canzonature (skómmata), erano rivolte dai carri contro chi assisteva alla processione.
Rappresentazioni di commedie e tragedie divennero parte integrante della festa solo tardi – probabilmente intorno al 440 a.C. Gli attori della commedia antica portavano maschere (prósopa), spesso grottesche, indossavano un vestito aderente (somátion), con grandi imbottiture per mettere in mostra un pancione fittizio e un enorme deretano sporgente; sopra, invece, avevano il chitone, il capo di abbigliamento abituale nella vita quotidiana ad Atene, ma anche un tipo di mantello più lungo (himátion); ed erano soprattutto dotati di un fallo dalle dimensioni spropositate («di cuoio, tutto penzolante, rosso alla punta», Aristofane, Nuvole vv. 538-539). Il fallo è un elemento originario della commedia, connesso al culto di Dioniso: dio dell’estasi, che concede agli uomini un entusiasmo d’ origine divina con il vino, e fa uscire gli uomini fuori di sé, annullando individualità e razionalità in una follia cultuale, Dioniso è anche il dio della maschera, che nasconde l’individualità, e della rappresentazione teatrale, nella quale ognuno può diventare un’altra persona.
Il fallo eretto degli attori del V sec è il relitto evidente di una fase preletteraria della commedia greca, che rinvia a Dioniso dio della fecondità e della vegetazione, e fu sempre utilizzato dai poeti come un requisito essenziale del dramma comico. Ad esempio è usato come carrucola, per tirar sul palcoscenico una ragazza, da uno dei personaggi di Aristofane (vv. 1342-1344). Sali qua, mio piccolo maggiolino d’oro. Afferrati con la mano a questa corda. Tieniti forte; sta’ attenta: la corda è fradicia; ma non le dispiace se la stropicci. Nel V sec. i cori si contraddistinguono spesso per il loro costume di fantasia: uccelli, nuvole, insetti e rane. Dipinti vascolari del VI sec. a.C. testimoniano numerosi cori fantastici di questo genere, che hanno un legame con usanze comiche preletterarie.
Nella commedia ‘nuova’, cioè quella di età ellenistica, le grottesche, spropositate dimensioni delle membra del corpo dei coreuti lasciano il posto al realismo contemporaneo. La varietà dei cori della commedia antica è ora rimpiazzata da un coro omogeneo, costituito di solito da un gruppo di giovani (komos), e non prende più parte all’azione drammatica: vi si richiama l’attenzione soprattutto alla sua prima entrata, per motivare la sua presenza nell’orchestra e contemporaneamente dare agli attori la possibilità di lasciare il palcoscenico, come ad esempio nel Dyscolos di Menandro (vv. 230-232): Vedo avvicinarsi dei giovani un po’ brilli, devoti di Pan, e non mi pare il caso di importunarli. Una formulazione simile si trova anche nell’Aspis di Menandro (vv. 245-248): Oh, altra gente si avvicina: Un bel gruppo di ubriachi… Ma come darvi torto? Del domani non c’è certezza…. Divertitevi finché siete in tempo. La commedia fu introdotta nel programma ufficiale delle Dionisie (486 a.C.) e delle Lenee (440 a.C. circa) quasi mezzo secolo dopo la tragedia, e forse per questo, come dice Aristotele, la sua storia è ancora più oscura (Poetica 1449a 37-1449b 16: «(…) la commedia alle origini ci rimane ignota, perché non era apprezzata (…). Non si sa chi istituì le maschere o i prologhi o il numero degli attori, e altri particolari del genere (…)»). La varietà di notizie e testimonianze sull’origine e gli inizi della storia della commedia non permettono di pensare che ci sia stata una sola linea di sviluppo del genere, e lo stesso vale per la tragedia. Con la dovuta prudenza le testimonianze permettono di trarre le seguenti conclusioni: in primo luogo la commedia deve essere collocata indiscutibilmente nell’ambito del culto in onore di Dioniso. Numerosi elementi delle commedie del V sec. si ritrovano nelle differenti feste per Dioniso. Come abbiamo detto, durante le Dionisie rurali si teneva una processione in onore del Fallo personificato, una divinità della fertilità. Durante festa in onore di Dioniso, in cui l’eccezione diviene la regola, la fantasia può dare libero sfogo ai desideri sessuali. Bere, mangiare, godere oltremisura: tutto è possibile e lecito, come nel paese di cuccagna. Le classi superiori (soprattutto i detentori di cariche militari) possono essere impunemente prese in giro e schernite.
Proprio la sfrenata derisione dei contemporanei, il cosiddetto onomastí komodeín ( ‘prendere in giro con esplicito riferimento al nome della vittima’), è testimoniata anche per altre feste. Canti osceni e offensivi erano usuali durante la processione (pompé) delle Antesterie; e si hanno testimonianze di gephyrismoí , cioè di ‘canti irridenti intonati sui ponti’, anche per la processione che portava da Atene a Eleusi in occasione dei misteri eleusini della dea Demetra. Un elemento centrale della commedia di V sec, tanto contenutisticamente che formalmente, cioè l’agone, è documentato nelle Dionisie rurali, durante le quali doveva aver luogo una gara tra komoi. Numerosi riti e miti legati a Dioniso rappresentano il momento cruciale della festa, e sovvertono ogni normalità: le baccanti (o menadi), le adoratrici di Dioniso, si inerpicavano sulle montagne possedute dal dio (oreibasía, ‘errare sulle montagne’), coperte dalla pelle di un giovane capriolo (nebrís), sbranavano bestie selvatiche (sparagmós) e ne consumavano le carni crude (omophagía). Brandendo i tirsi, bastoni ornati di edera e foglie di vite e con una pigna sulla cima, le baccanti, in preda all’estasi, sono completamente insensibili al dolore.
Nella commedia si mostrano gli aspetti solari del dionisiaco, un incredibile e straordinario senso di benessere, la perdita di ogni inibizione, il poter deridere chiunque, il disconoscimento di ogni autorità, umana e divina. Poiché queste libertà sono limitate a pochi giorni dell’anno, come accade anche in altre culture europee, siano essi i Saturnali a Roma o il carnevale, in questi giorni si può dar libero corso, in forme simboliche e innocue, all’aggressività repressa e alle antipatie; si tratta di una forma di sfogo sociale, che ha per scopo il garantire per il resto dell’anno il funzionamento della società secondo rigide norme. Sarebbe però un ‘cortocircuito metodologico’ attribuire alla commedia – almeno nella sua forma letteraria della fine del V sec. a.C. – le funzioni intrinseche alle feste in onore di Dioniso. Senza dubbio i commediografi adottano numerosi motivi dionisiaci, ma li inseriscono in un’azione drammatica, in cui questi motivi esercitano una precisa funzione.
I commediografi fanno anzi un uso straniante proprio delle forme del dionisiaco note agli Ateniesi, rendendole arte, letteratura. Sappiamo che ci furono antecedenti della commedia, in diversi luoghi e occasioni (feste in onore di Dioniso e simposi), durante il VI sec. Il fatto che l’origine del genere della commedia sia collocata dagli antichi tra il 580 e il 560 a.C. nel demo attico di Icaria e ne sia attribuita l’invenzione a un certo Susarione risponde alla necessità dell’antichità greca di assegnare sempre un nome all’’ ‘inventore’ (prótos heuretés) di forme culturali e di culto. La storia tuttavia contiene un’ idea più complessa: Icaria, infatti, è un luogo legato al culto di Dioniso, perché lì il dio avrebbe dato in dono il vino a Icario, che da parte sua lo offrì ai suoi concittadini, i quali – ignorandone l’effetto – si ubriacarono e perciò lo annegarono, pensando che li avesse voluti avvelenare. Il mito è strettamente connesso alla festa primaverile delle Antesterie, e in secondo luogo indica che la commedia fu un fenomeno tipicamente attico, nato in ambiente rurale e non cittadino. In questa ricostruzione salta agli occhi il fatto che la datazione di Susarione cada proprio quando il culto di Dioniso ebbe il suo massimo splendore nelle comunità rette dai tiranni. A Corinto, ad esempio, il poeta Arìone avrebbe introdotto il canto cultuale in onore di Dioniso, il ditirambo, proprio durante il regime tirannico di Periandro (ca. 630-580 a.C.). A Sicione, nel Peloponneso, come riporta lo storico Erodoto (V 67), durante il regime tirannico di Clistene (600-565 a.C.), c’erano «cori tragici» consacrati a Dioniso: la notizia concorda con un’altra, per la quale l’origine della tragedia era da collocare proprio a Sicione e da mettere in relazione con un certo Epìgene. Le raffigurazioni vascolari del tempo sono ricche di motivi dionisiaci e simposiali – si pensi soltanto alle rappresentazioni dei danzatori dalla grossa pancia, degli uomini-bestia, dei cavalieri sul dorso di delfini o di struzzi e ai cori di uccelli. Nel VI sec. a.C., dunque, dobbiamo tener conto della presenza di diverse forme di performances corali in occasione di feste in onore di Dioniso o di simposi, che potevano anche avere carattere agonale.
Ci si potrebbe immaginare che i cori mascherati in maniera fantastica o travestiti descrivessero e spiegassero col canto il loro mascheramento, in un’anticipazione di quel che accade in un elemento strutturale tipico della commedia, la cosiddetta parabasi, ritenuta da numerosi studiosi il nucleo originario della commedia, dove il coro, dopo un inno introduttivo, parla del suo mascheramento e lo illustra al pubblico. Che proprio ad Atene da queste performances corali improvvisate si sia sviluppata la forma e letteraria della commedia, che abbiamo nelle opere di Aristofane e nei frammenti dei suoi contemporanei, si spiega soprattutto con l’influenza della tragedia, che a partire dagli anni trenta del VI sec. a.C. fu parte integrante delle Dionisie cittadine istituite da Pisistrato. Seguendo il modello di questo genere affine, i primi commediografi conosciuti, Chionide e Magnete, composero drammi in cui probabilmente – proprio come Tespi 50 anni prima – opposero al coro uno o due attori, creando così col dialogo un’azione drammatica.
Per chi voglia approfondire, si trovano in libreria: Aristofane, Le commedie, a cura di Giuseppe Mastromarco e Piero Totaro, UTET, vol. 1 e 2 (traduzione bellissima e note indispensabili); G. Mastromarco-Piero Totaro, Storia del teatro greco, Le Monnier; in uscita per l’editore Carocci: Bernhard Zimmermann, La commedia greca.