Un articolo di qualche giorno fa sul “Corriere della Sera” dello scrittore jugoslavo Predrag Matvejevic, portava il sinistro titolo di “Mediterraneo, così muore un’utopia”.
Lo scrittore, che da sempre si occupa di Mediterraneo, ritiene che le parole spese e le iniziative prodotte in favore della creazione di progetti comuni all’interno del mare nostrum siano rimaste lettera morta e non abbiano portato ad effetti concreti dal momento che la scarsa conoscenza reciproca genera ancora diffidenza e paura fra le due sponde.
Viene dunque da chiedersi quale possa essere la ricetta adatta per salvare il salvabile, nella speranza che il dialogo e la comunicazione fra i diversi Paesi possano essere un valido sostituto ai protocolli firmati e controfirmati dai singoli governi. Sarebbe forse necessario inventare un nuovo tipo di comunicazione capace di arrivare al pubblico in modo più diretto per coinvolgerlo maggiormente in un progetto di conoscenza reciproca all’interno del bacino del Mediterraneo e che fosse dunque alternativo, ma probabilmente più efficace, delle strette di mano ufficiali dei capi di stato.
Un tipo di comunicazione che favorisca la conoscenza reciproca all’interno di questa area geografica, che sta in parte perdendo il suo forte carattere identitario, è sempre più rara anche a causa di quello “scontro di civiltà” che, più che reale, è stato creato e fomentato da una cattiva comunicazione. In un periodo in cui i confini geografici tendono a farsi più labili e la società è sempre più etnicamente mista, a qualcuno sembra più giusto evidenziare le differenze fra i popoli piuttosto che le somiglianze. Ci si fa dunque credere che noi italiani, e mediterranei, siamo molto più vicini ai popoli del nord Europa piuttosto che a quelli che si affacciano sulla sponda sud del Mediterraneo, pensando che le distanze geografiche possano essere azzerate da una linea di confine netta tracciata sulle carte. Tale linea però non è anche culturale e così si possono facilmente scoprire molte più affinità con quei popoli che qualcuno vuole farci credere “nemici” piuttosto che con i “fratelli” nordici dell’Unione europea.
La comunicazione dunque, anche nel nostro libero e democratico occidente, talvolta deve chinare il capo di fronte a strategie geo-economico-politiche più forti del semplice servizio di informare e tenere aperto un dialogo con tutti. Se il sogno di una stampa che sia veramente libera e priva da qualsiasi condizionamento sembra difficile da realizzarsi da noi, in altri Paesi mediterranei è quasi impossibile. Non bisogna però pensare che gli esempi in questo senso manchino, nemmeno nei Paesi arabi, spesso accusati di mancanza di libertà di parola, ma la cui Nahda (o rinascimento) fra la fine dell’ ‘800 e i primi del ‘900 passò proprio per la stampa, con un proliferare di giornali e riviste, alcune delle quali ancora sopravvivono.
L’Egitto ha una lunga tradizione in questo senso, con nomi celebri che hanno fatto la storia del Paese e che, nonostante i molti divieti e le grandi difficoltà, cercano di continuare su questa strada. Gli esempi più evidenti oggi sono giornali come “al-Badil”, “al-Fagr”, “al-Masry al-yaum” e “al-Dustur”, solo per citare i più noti, che non hanno vita facile e sentono sempre di muoversi su un terreno minato.
Il caso del direttore di “al-Dustur”, Ibrahim ‘Issa, l’anno scorso aveva sollevato un polverone nel Paese, dando anche origine ad una campagna di sostegno internazionale per questo giornalista noto per i suoi editoriali al vetriolo contro il presidente egiziano Hosni Mubarak e abituato per questo a frequentare le corti di giustizia. ‘Issa era finito in tribunale per aver pubblicato notizie allarmanti riguardo la salute del ra’is (che, superati gli 80 anni, sarebbe normale che avesse qualche acciacco) e accusato di aver provocato, con questo comportamento, allarmismi internazionali sfociati in milioni di dollari di perdite per la borsa egiziana.
«La libertà di stampa in Egitto esiste, ma ha un prezzo da pagare in cambio», dice ‘Ossam, che lavora per il settimanale al-Fagr, guidato da ‘Adel Hamuda, giornalista e scrittore famosissimo in Egitto per aver lavorato nei maggiori giornali del Paese e anche lui finito spesso nel mirino della giustizia, l’ultima volta l’anno scorso quando lo sceicco di al-Azhar accusò lui, e altri giornalisti, di averlo insultato nei loro articoli.
«Sulla stampa egiziana si può parlare di qualsiasi argomento – continua ‘Ossam – ma ogni giornale ha una propria politica che traccia delle linee rosse di confine anche in rapporto alla capacità finanziaria, oltre che agli orientamenti politici». Come dire, se vuoi essere libero, devi essere pronto a mettere mano al portafoglio.
In realtà i problemi che la stampa egiziana si trova ad affrontare oggi hanno radici più profonde che minano le stesse basi del lavoro. «L’accesso alle fonti è molto difficile – spiega ‘Ossam – anche a quelle ufficiali, perché la comunicazione fra governo e stampa è quasi inesistente». Il governo, infatti, rilascia commenti ufficiali ai giornali che lo appoggiano, mentre quelli di opposizione restano a bocca asciutta. In un clima del genere però la diffidenza nei confronti della stampa si diffonde anche fra la gente: nessuno vuole parlare con i giornalisti (in particolare se di opposizione) per paura di essere citato come fonte. Spesso, soprattutto se si vuole realizzare un’inchiesta di carattere sociale, bisogna ricorrere ad espedienti o presentarsi in incognito.
Così anche un Paese come l’Italia, che pure ha i suoi problemi in quanto a libera informazione, sembra un vero paradiso per i giornalisti egiziani che, a causa dei loro articoli, sono spesso vittime di censure, minacce, pestaggi o arresti anche durante l’esercizio della professione, in particolare se coprono eventi come manifestazioni di massa, scioperi o proteste.
La sede del sindacato dei giornalisti, in pieno centro cittadino, è spesso sede di sit in di protesta, ma il ruolo di protezione che dovrebbe svolgere nei confronti dei giornalisti è pressoché inesistente, soprattutto ora che la guida è stata assunta da schieramenti vicini al governo.
Qualcuno dice che la stampa libera in realtà in Egitto non esiste. I giornali di opposizione ci sono, certo, e in alcuni casi si schierano apertamente contro il governo e il presidente anche in modo pesante, ma alcuni sostengono che si tratta solo di una strategia. Al governo infatti fa comodo che questo tipo di stampa continui ad esistere per dare sostegno all’idea che nel Paese viga la libertà di parola. In realtà però anche i giornali di opposizione vengono stampati nella stessa rotatoria del “al-Ahram”, il giornale governativo per eccellenza e il principale nel Paese, con tanto di “censore” munito di penna rossa per bloccare eventuali articoli ritenuti “eccessivi” e prontamente rimandati in stampa dopo essere stati corretti. Libertà sì, ma con moderazione.
Ecco allora che chi vuole far sentire la propria voce nel Paese supera la frontiera della stampa e si rivolge ad Internet, una terra di nessuno dove spesso è più facile trovare la libertà di espressione cercata per soddisfare il proprio bisogno di comunicare e sentirsi parte del mondo. In Egitto quasi tutti hanno la connessione in casa e, per chi non se la potesse permettere, i net cafè spuntano come funghi (e sono sempre pieni) e anche quasi tutti i bar e i locali pubblici offrono il servizio wireless, tanto che lo stesso Facebook, prima di sbarcare in Italia, era già diffusissimo nel Paese da un paio d’anni. Insieme al moltiplicarsi di blogger che scrivono e discutono di libertà, politica, cultura, società e religione, è aumentata anche la stretta del governo per tenerli a bada. Negli ultimi anni diversi sono finiti in tribunale e arrestati dopo processi sommari e l’anno scorso il governo ha reso più severe le regole di accesso alla rete da postazioni pubbliche. Persino la chiamata allo sciopero generale in Egitto del 6 aprile scorso (e a cui si vuole dare un seguito nella stessa data anche quest’anno) passò soprattutto in rete, dando voce in primo luogo al disagio dei giovani, «stanchi – come dice l’appello – della corruzione dilagante, di un sistema scolastico allo sfascio, di un paese da cui si vorrebbe scappare in ogni modo. Ma piuttosto che partire e lasciarlo nelle loro mani, smettiamo di avere paura e cerchiamo di cambiare questo paese che è prima di tutto il nostro!».
C’è solo da sperare che sia questo il tipo di comunicazione che alla fine l’avrà vinta.