Lavare i piatti
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Cagliari (ITALIA)

Io cucino, tu pensa a lavare i piatti…

Non si contano le volte che mi è capitato di sentirmi rivolgere questa frase. Chi, come me, ha poca dimestichezza con pentole, taglieri e soffritti, conoscerà cosa significhi essere allontanato, in maniera gentile ma decisa, dall’angolo cottura: una grossa frustrazione, aggravata oltre tutto dalla consapevolezza che, da soli in casa senza anime buone che ci preparino (o aiutino perlomeno) i pasti, l’unica risorsa per la sopravvivenza potrebbe essere la pasta col sugo pronto. Questo perché la cucina, oltre ad essere un fattore antropologico fondamentale nell’identità culturale di una comunità umana, è quasi un’arte, un’arte dal vago retrogusto di scienza occulta, tant’è vero che le ricette non si rivelano, proprio come le formule magiche. E in effetti il bravo cuoco è anche un abile alchimista: dosa con sapienza gli ingredienti, conscio che un piccolo errore nella composizione potrebbe compromettere la buona riuscita della pietanza.
Cucinare è un po’ come il tennis, la corsa e il pattinaggio: se si è sgraziati, non c’è nulla da fare, hai voglia a impegnarti. E il concetto non è valido solo per l’alta cucina: vale, forse anche in maniera maggiore, anche la cucina casalinga. Ci ho provato, io, a improvvisarmi cuoco: i risultati sono stati a dir poco grotteschi. Sughi urlanti, carni straziate sul fuoco, carbonizzate nemmeno fossero eretiche, contorni al cui confronto persino l’urlo di Munch appare rassicurante. Ho avuto la (s)fortuna di aver vissuto con persone piuttosto abili ai fornelli, a partire da mia mamma: per quanto mi impegnassi, per quanto stessi attento alle procedure, il mio cervello e le mie mani si sono sempre rifiutati di apprendere.

Vedendo i miei piatti, persino i fanatici dello slow food si rifugerebbero senza indugio nel McDonald’s più vicino. Ogni volta che qualcuno cucinava, di soppiatto – col passo stile Pantera Rosa- mi avvicinavo a sbirciare, a curiosare, con il segreto intento di carpirne i segreti culinari. La sensazione era la stessa che ho ogni volta che mi trovo di fronte un bravo chitarrista: ma come fa a muovere così agilmente le sue dita? Perché a me non riesce? Ad un certo punto i suddetti cuochi hanno cominciato con garbo ad allontanarmi e a pronunciare la fatidica frase: “Tu lavi i piatti, dopo!”, preoccupati dalla mia inutilità, anzi! dalla mia pericolosità lì nei dintorni. Al massimo mi facevano fare il caffè dopo.

Una tristezza infinita, come il circo quando lascia la città. Non parliamo poi dei ricettari. Ogni qualvolta ne apro uno, mi sembra di aver di fronte messaggi in codice extraterrestri. Nemmeno Suor Germana è riuscita a riappacificarmi col genere. Niente da fare, per me la cucina è come un libro di meccanica: apparteniamo a due universi paralleli distantissimi, non ci incroceremo mai.

Ma in realtà, ci ho provato anche io a seguire le indicazioni delle ricette:

Ricetta “Day After” (post festa mediamente alcolica e/o festa con due di picche incorporato):

Ingredienti:

Riso

Olio extravergine d’oliva

Parmigiano (possibilmente senza muffa, mi è capitato anche quello)

Per prima cosa alzarsi dal letto. Se dopo tre tentativi la testa brontola e gli arti, doloranti, implorano pietà, rinunciare al pranzo. Recarsi in cucina. Prendere una pentola, versarci dentro un litro d’acqua, sedersi sul divano e, nell’attesa che l’acqua bolla, meditare sulle figuracce e i due di picche rimediati la sera prima. Quando l’acqua ruggendo vi avvisa che ha raggiunto i cento gradi centigradi, aggiungete una modica quantità di sale, modica mi raccomando, all’acqua bollente. A questo punto, versateci dentro un bicchiere di riso e lasciate cuocere per dieci minuti un quarto d’ora circa. Nel frattempo continuate a meditare e fate un fioretto, promettete che certe cose non le direte e non le farete più. A cottura ultimata, scolate il riso e aggiungeteci un po’ di olio d’oliva e, se lo gradite, un pugno di parmigiano. Servite caldo.

E, mentre trangugiate le cucchiaiate di riso, meditate sulla vostra deprimente condizione: non solo non ci sapete fare con le donne, non solo non reggete l’alcol, ma non sapete neppure cucinare. Qualche pregio l’avrete, tuttavia: non disperate.

Ricetta into-salutista

Ingredienti:

Insalata mista comprata già tagliata e lavata al supermercato

Olio extravergine d’oliva

Tutto quello che trovate nella dispensa e in frigorifero

Questa ricetta la consiglio a tutti coloro che si rendono conto che la propria alimentazione fa piangere e, al grido di “sono stanco di mangiare schifezze!”, decidono di cimentarsi nella preparazione di sane e nutrienti insalate. Lavare l’insalata – la confezione dice che è già lavata ma non fidatevi- mettetela in un insalatiera e lasciatela lì in compagnia di un libro: scongiurerete così il pericolo che si annoi mentre voi cercate nella dispensa e in frigo gli altri ingredienti. A questo punto qualsiasi alimento può essere utile: mozzarella, tonno, formaggio, wurstel…eviterei solo roba tipo nutella o merendine, in ogni caso la scelta è libera.

L’insalata, che intanto si sarà fatta una cultura, non aspetta altro. Una volta buttato dentro l’insalatiera tutto ciò che vi è capitato fra le mani, condite con olio d’oliva e buon appetito! La vostra coscienza si calmerà per un po’ e potrete tornare a mangiare tanto e male come prima.

Così ho rinunciato ad apprendere le sottili arti gastronomiche, e mestamente mi accontento di pasta scotta, insalata (già tagliata e lavata, ma che scherziamo?), di una bistecca eretica e di tutto ciò che si trova già pronto e confezionato sugli scaffali dei supermercati, evitando con cura di andare a leggermi gli ingredienti: non voglio sapere di che morte morirò. Si gradiscono corsi di cucina, anche a domicilio. Ma poi non mandatemi a fare il caffè, per piacere!

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