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Un caso clamoroso di censura artistico-culturale è avvenuto a Gaza, in Palestina, dove l’estate scorsa è stato fondato ed aperto il museo Archeologico Nazionale “el Mat’haf”, che si traduce dall’arabo semplicemente come “il Museo”. Al suo interno sono presenti 350 opere corredate di cartellino in lingua araba che ricostruiscono la storia palestinese.

Tuttavia quelle esposte non sono tutte quelle che Jawdat Khoudary, il fondatore e proprietario del Museo, avrebbe voluto condividere con i visitatori.
Infatti Jawdat, che è oltretutto proprietario di una impresa edile, durante la sua attività ha potuto salvare un grosso numero di pezzi che altrimenti sarebbero andati distrutti. Egli colleziona reperti da più di 20 anni, e possiede un patrimonio archeologico e artistico di più di 1000 elementi, come monete, boccali, anfore, parti di colonne e sculture emersi durante scavi e lavori di costruzione.

La promozione della sensibilità al “salvataggio” di opere antiche ha fatto sì che si diffondesse un certo spirito di responsabilità anche tra coloro che trovassero casualmente dei reperti, contribuendo ad incrementre la collezione di Khoudary, il quale ricompensava generosamente i fortuiti scopritori.

Egli è ben consapevole di quanto sia ricca la storia della Palestina, poichè terra a diretto contatto con il Mediterraneo. Gaza già in epoca pre-romana era il porto commerciale più importante della regione. Infatti proprio lì terminavano le rotte carovaniere che partendo dall’Oriente, -dai porti sull’Oceano Indiano-, trasportavano le merci, attraversando tutta la Penisola Araba per arrivare fino alle coste della regione palestinese. Non bisogna dimenticare che proprio a Gaza misero piede i Faraoni dell’Egitto, gli Antichi Greci, i Romani. Fu terra rivendicata dai Crociati e dagli Ottomani.

Ed è proprio per questo motivo che aveva già da molto tempo l’idea di aprire un Museo Archeologico a Gaza. Khoudary decise di esporre il suo progetto al presidente Abu Mazen, che entusiasta gli diede la sua approvazione ed il suo sostegno per questa iniziativa. Tuttavia per una serie di ostacoli, tra cui la crisi tra Fatah e Hamas (la guerra civile palestinese), le operazioni militari israeliane e l’invasione della Striscia di Gaza, il progetto fu purtroppo abbandonato.

Fu in quel momento che Khoudary giunse alla conclusione dell’autofinanaziamento, e diede il via alla costruzione di quello che era il suo sogno. Non gli importava nulla del denaro, desiderava solo dimostrare che Gaza non è solo una terra travagliata dalla guerra.
Non è sicuramente stato semplice aprire un museo in quest’area, considerata la presenza costante di Israele che rende difficoltosi anche i movimenti più semplici. É una zona che ha sostentamento dagli aiuti dell’Onu, peraltro nemmeno sufficienti.
Hamas, l’organizzazione palestinese che ha ottenuto il potere nelle ultime elezioni, è un gruppo di ispirazione religiosa considerata da molti paesi di carattere terroristico; essa applica i principi più rigidi dell’Integralismo islamico.

Infatti numerosi pezzi della collezione di Khoudary non sono stati ammessi all’esposizione al Museo Archeologico, tra cui una bellissima Afrodite d’età romana, rappresentata stante avvolta da morbidi panneggi che, particolarmente leggeri sul busto, lasciano intravedere il seno.

La morale di Hamas è particolarmente severa riguardo il rispetto della religione anche nell’arte. La rappresentazione della figura umana è infatti vietata o comunque trattata di rado poiché in essa si può nascondere un peccato di idolatria contro Allah, che è proibito dal Corano. Infatti riprodurre la figura umana può essere anche considerato un tentativo di imitazione dell’opera di Allah, e come tale va evitato. Non a caso in linea di massima nell’arte islamica si trovano spesso elementi decorativi con temi desunti dalla natura, di tipo floreale o fitomorfo, ma spesso anche geometrico; pensiamo ad esempio all’arabesco, tipico stile ornamentale nei paesi islamici.

La mentalità che deriva da culture così radicate, come in questo caso quella islamica, talvolta porta coloro che la guardano dall’esterno a conclusioni molto superficiali che consistono in una semplice alzata di spalle accompagnata da un banale “è la loro cultura”. Certo, che è la loro cultura.
Ma non si pensa che sia un modo di nascondere la storia di un paese, o comunque di ometterne delle parti fondamentali? Ecco davanti a noi un’altra occasione che mostri quanto la rima cultura-censura non sia poi tanto fantasiosa.

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