Raccontare la Calabria di oggi senza incorrere nella censura è difficile. È una censura sociale, collettiva, che relega le vicende di questa regione ai confini di una dimensione altra, sotterranea e silenziosa. È la storia di un territorio che si ricontestualizza nella sempiterna questione meridionale pur proiettandosi nel cuore del Mediterraneo non solo fisicamente, ma soprattutto culturalmente, antropologicamente.
C’è un filo sottile che riallaccia le contraddizioni di un frammento del Sud con i problemi irrisolti della realtà italiana, con questioni contingenti e reali. La spinosa questione della presunta nave dei veleni, legata al relitto rinvenuto nelle acque di Cetraro, sulla costa tirrenica cosentina, a quasi 500 metri di profondità, rivela ancora una volta il volto di una regione oltraggiata, deturpata, ferita. Che prova a reagire senza urlare troppo, che esprime un’indignazione fiacca senza riuscire a determinare con la propria volontà di affermazione il corso degli eventi.
“La Calabria non è una discarica”, si è più volte gridato nell’ambito della manifestazione nazionale che si è svolta lo scorso 24 ottobre ad Amantea, città bagnata dal mare Tirreno e luogo simbolo dello sfregio ambientale a causa della presenza molesta e inquietante della motonave Jolly Rosso.
L’attenzione si concentra adesso sul relitto di Cetraro, e presto arriva la smentita dal ministro Prestigiacomo: stando ai rilievi compiuti, pare che non sia la nave dei veleni “Cunsky”, come era stato ipotizzato a partire dalle dichiarazioni del pentito Francesco Fonti, che l’avrebbe fatta affondare, ma, forse, il piroscafo “Cagliari”, inabissato nel 1943. Così “si chiude il caso Cetraro”, secondo le parole del procuratore nazionale antimafia Grasso, e così si mettono a tacere le voci grosse.
L’informativa del Governo non scioglie tuttavia i dubbi della Regione Calabria. C’è grande preoccupazione per la mancanza di trasparenza, in maniera anche diversa rispetto a quanto è avvenuto per le indagini sul sito radioattivo lungo il fiume Oliva, nei Comuni di Serra d’Aiello ed Aiello Calabro, dove furono sotterrati i rifiuti pericolosi della Jolly Rosso. Ci si interroga, si mobilitano le associazioni ambientaliste. I movimenti chiedono verità. La rabbia dei pescatori si unisce alle testimonianze di tante persone che nel tempo hanno perso familiari e amici a causa dell’inquinamento della terra, dell’acqua, dell’aria. Una reazione complessivamente flebile, però, che risulta essere poco incisiva e che rivela la condanna politica, oltre che storica, di un popolo intero, cui tocca scontare la pena di una morte annunciata.
Un caso a cui non è stata data la giusta risonanza a livello di informazione nazionale. Censura che diventa autocensura, e l’ombra della rassegnazione si riflette in malessere percepito appena, si rivela nella scarsa partecipazione, nell’impegno di pochi. Il Quotidiano della Calabria ha lanciato una petizione per sollecitare il governo sulla rimozione delle scorie radioattive, e alcuni sindaci hanno stilato un documento “per chiedere conto della nave e dei suoi contenuti”. Si parla di “almeno trenta navi dei veleni affondate dagli anni Settanta nel Mediterraneo in circostanze ambigue”.
Un mare discarica di “navi a perdere” che sembra rimuovere il senso del suo potere ancestrale, dal quale bisognerebbe invece ripartire per decifrare una volta per tutte verità nascoste, per innescare nuovi meccanismi culturali, per ricollocarsi in maniera diversa nell’area mediterranea e nel complesso quadro storico contemporaneo.