di Laura Gatto
Spettacolo teatrale messo in scena da Luigi Fabozzi e Nicola
Nicola è l’uomo realmente esistito, un internato in manicomio, a cui è dedicata la rappresentazione ma lui non è presente sulla scena… il tutto viene drammatizzato da Luigi immobile e seduto su una sedia per circa due ore di seguito.
Rappresentata sullo sfondo del niente e in un movimento impercettibile è la storia di Nicola, storia che si agita umanamente nelle parole di Luigi Fabozzi attraverso uno spettacolo teatrale che percorre ogni meandro dell’anima scuotendo tutti gli angoli, ogni millimetro della coscienza, del cuore, cercando di risvegliare l’umanità dello spettatore. Scrive Fabozzi:
“La mia sensazione è che il manicomio sia il mondo intero (magari ci sono piccoli angoli di paradiso). Per mondo intero intendo la società preponderante sia in occidente che in oriente. Una società disumanizzata dove le guerre vengono chiamate umanitarie e dove la verità non esiste più. Non potendo fare nulla, o pochissimo, a livello planetario cerco di essere come un tarlo, cerco di portare a centinaia di persone parole e suoni che possano muovere qualcosa. Soprattutto cerco di portare storie, cose che il teatro non fa più. Il teatro non racconta più. Il regista e l’attore dovrebbero essere megafoni per storie, emozioni attraverso la parola. Il teatro per ora è fatto di impressioni. Cerca di impressionare il pubblico inutilmente. Perché ormai le persone non sentono più niente. Sono come dentro degli scafandri.”
Nicola e Luigi. Si stenta a scindere i due uomini, le loro storie, i loro modi di essere. Un Luigi che vive in Nicola e un Nicola che si lascia raccontare da Luigi. Una rappresentazione teatrale che si snoda portando in scena la vita, una triste vita trascorsa in un manicomio. È così che Luigi Fabozzi racconta l’incontro con Nicola e la scelta di rappresentarla:
“La pazzia è un lite motiv frequente. E poi sono punto attrattivo sia dei folli che dei bambini forse perché sentono in me una “assonanza” con il loro modo di vedere il mondo, in modo diverso, obliquo. O forse perché anch’io mi sento un po’ folle. “La paura del buio” è un testo che non ho scritto io ma che avevo letto circa due, tre anni prima. È un testo di Ascanio Celestini ma il caso mi aveva fatto incontrare Nicola in altri lidi. Avevo visto un documentario dove c’era proprio Nicola. Una pulce nel cervello cominciò a saltellare. Io non credo nelle coincidenze. Quando due o tre elementi si uniscono come per caso, il caso non c’entra. Allora decisi di provarlo come spettacolo. Allora non sapevo che Celestini ne aveva fatto uno spettacolo. Ma la forma era talmente teatrale che la presi e come un testo di Shakespeare. Ho cercato di farlo mio senza mai ascoltare cosa celestini aveva fatto. Poi ho passato circa otto mesi in una associazione di “disabili mentali gravi”. Lì mi sono fatto permeare dalla loro capacità di comunicare, tutti in maniera diversa. Chi è venuto a vedermi e conosce gli uomini e donne di questa associazione ha riconosciuto, in miei piccoli tic nel modo di muovermi e soprattutto di non muovermi, alcuni di loro. Sono diventato una miscellanea dei loro mondi. In verità ormai fa parte della mia anima, infatti mi ritrovo a dondolare a volte come alcuni di loro o a utilizzare cacofonie tipiche di altri. Oltre la storia io sento l’odore del piscio e della cacca, l’odore che hanno gli ammalati, di disinfettante e urina appunto. Ho in testa le grida, i sorrisi, gli abbracci troppo forti, le fughe. Questo ha creato in me un filtro tale da potermi far affrontare questo rischioso personaggio. Ho preso tutto e l’ho ingoiato senza poi cercare di “applicarlo” al testo. È venuto da solo.”
Le parole di Nicola, parole semplici. Parole che raccontano una storia e che evocano frammenti di vita facendoli rivivere in 3D senza l’uso degli ultimi ritrovati della tecnologia cinematografica ma solo attraverso il ritmo della voce e della narrazione e soprattutto attingendo dall’umanità che Fabozzi ha viva e ardente dentro. Lo spettatore è accompagnato in quei vissuti così personali, raccontati con l’interpretazione un po’ infantile e ingenua di chi ha vissuto la reclusione, la limitazione delle relazioni, le crudeltà della riabilitazione psichiatrica prima della legge Basaglia. Una semplicità e una ingenuità che urlano dentro senza pietà e che con umiltà reclamando ascolto. Al contrario di chi lo ha visto solo folle, Luigi ha estrinsecato la sua più profonda umanità attraverso l’amicizia, l’amore, la vita, la riflessione, il racconto, la memoria che nessun elettroshock subito è riuscito a cancellare.
Ed ecco irrompere, poco prima della fine della rappresentazione teatrale, la voce spezzata di una vita spezzata, quella di Nicola. Pochi attimi offerti allo spettatore per dare sfogo a quel movimento interiore, a quell’impeto d’urlare contro ogni malefatta all’uomo, di chiedere scusa, di piangere, di abbracciare Nicola. Alla fine si accendono le luci ma il messaggio rimane ed echeggia dentro, echeggia ancora nel volto di Luigi, nei suoi occhi e nei suoi movimenti.
Non è la prima volta che si occupa di un tema sociale di tale entità e rilevanza, il suo primo testo scritto e interpretato dal titolo “Io sempre a te ritorno”, come è sinteticamente ma efficacemente presentato dallo stesso Fabozzi, è il racconto di “un folle uscito dal manicomio guarito. Da lì inizia il suo percorso di cammino nella società più malata del manicomio. Un esempio su tutti: riprende un lavoro che non sa a cosa serva e a chi.”
Insomma. Luigi è un artista palermitano poliedrico, un vero artista perché primariamente Uomo capace di accogliere dentro di sé Nicola, di interrogarsi sulle questioni sociali, di vivere personalmente e artisticamente al servizio dell’umanità.