Il presente articolo è frutto dell’intervista di Daniela Melis a Predrag Matvejevic, docente universitario e scrittore croato scomparso qualche giorno fa, che ha avuto luogo a Zagabria nell’agosto del 2014. Espone il suo pensiero in maniera diretta e verrà suddiviso in due parti perché numerose sono le riflessioni del rivoluzionario Matvejevic su un tema vasto e complesso che ci interessa tutti: l’Europa e il suo futuro.
Nel triste quadro di una crisi pluriennale che intacca società ed economia, politica e cultura, l’Europa si guarda e guarda al suo futuro. E soprattutto guarda al suo “Oriente”, ossia a tutti quei paesi che, dopo anni di dittatura, tentano di capire cosa vogliono diventare. Il cammino dell’Europa verso questi territori non può prescindere da un’attenta analisi degli stessi.
Prima di tutto, come definire questo pezzo di mondo? Europa dell’Est è stata una designazione politica e ideologica, più che geografica e culturale, imposta dalla II Guerra Mondiale e dalla Guerra Fredda. Questo nominativo viene sostituito da un altro: Europa centrale e orientale. Tuttavia, l’Europa centrale comprende anche Paesi che, come l’Austria o la Svizzera, non sono stati assoggettati dai regimi “comunisti” dell’Est. L’ultimo, “L’Altra Europa”, racchiude in se, forse di proposito, una nozione mal definita. Infatti, che cos’è altro in questa parte dell’Europa e che cos’è europeo in questa alterità?
Se l’Altra Europa è una denominazione ambigua, la realtà cui si riferisce non lo è di meno. Essa era parte di un impero e quasi mai un impero si disgrega senza guerra e senza conseguenze: lascia, ad esempio, un terreno politico arido, sterile. Lo stalinismo ha ucciso la possibilità di far nascere una cultura politica aperta e questa sfumatura appartiene al passato quanto al presente. Altri retaggi del passato son i nazionalismi, gli stessi che hanno scatenato le guerre balcaniche. Vediamo i vecchi miti, i vecchi odi, i vecchi conflitti. I governi ostentano la democrazia, quella di matrice europea, senza pervenire a fornirne però un’apparenza appena credibile: tra passato e presente si determina uno iato, tra presente e avvenire si svolge l’ibrido incontro tra un auspicio di emancipazione e un residuo di assoggettamento. Possiamo definire questo non luogo ambiguo con il nome di “democratura”. Qui si son fatte spartizioni senza che rimanesse granché da spartire. Si è creduto di conquistare il presente e non si riesce nemmeno ad avere ragione del passato. Nascono certe libertà senza che si sappia sempre cosa farne, rischiando di abusarne. In questi paesi è stato necessario difendere un patrimonio nazionale e oggi bisogna in molti casi difendersi da esso. Altrettanto dicasi per la memoria, che sembra voler punire gli stessi che l’avevano salvata.
Non si possono generalizzare queste constatazioni per Paesi tanto vicini quanto diversi l’uno dall’altro (Bulgaria, Slovenia, Croazia, Albania, ecc hanno ognuno le proprie particolarità), ma vale per tutti che adottare le forme più primitive del capitalismo selvaggio non può sostenere nessun tipo di ricostruzione, né incoraggiare rinnovamenti. L’idolatria dell’economia di mercato dà scarsi risultati laddove manca lo stesso mercato e qualche volta, fatalmente, la mercanzia. I risultati della democrazia borghese, che quelle democrature cercano di fare propri, non possiedono, nemmeno essi, valori universali. In questi paesi, ed è un errore valutativo che fa anche Bruxelles, si tende a confondere l’apertura selvaggia al mercato con il progresso, mentre in molti casi è la cultura politica a mancare, fattore che porterebbe a un affrancamento personale ben più utile ai fini della crescita personale, e quindi sociale, rispetto al puro capitalismo. L’Europa che desideriamo, quella che vuole allargarsi, deve farsi, in effetti, con i sacrifici, e non con la volontà di profitto. Questo la differenzierebbe dagli altri due colossi commerciali mondiali: gli Stati Uniti e la Cina. Per quanto riguarda la Grande Madre Russia, invece, è evidente che la sorte dell’Est europeo non dipende più da essa, tanto che il Vecchio Continente ha preso il suo posto soprattutto nelle relazioni commerciali (l’Altra Europa non compra più prodotti russi, ma europei). Tuttavia, in molti si interrogano sull’avvenire del nuovo Stato russo e sull’influenza che potrà esercitare laddove l’Europa, che con il capitalismo esercita solo una nuova forma di controllo, non saprà dare risposte ai territori in questione.
L’Europa centrale, per potersi avvicinare a quella dell’Est, deve risolvere i suoi problemi interni. Inoltre, è importante che eviti di confondere la sua civiltà con quella universale; che smetta di dare a una realtà, concreta e contingente, un significato quasi assoluto. Essa dovrebbe considerare le aspettative di una parte dell’Europa nei confronti dell’altra e, quindi, sarebbe auspicabile che cercasse di costruire una cultura comune che le permetta di approcciarsi senza imposizioni.
Da lungo tempo la politica sbaglia a rifuggire dalla nascita di una qualche cultura politica positiva. Questo è causato dall’ancorarsi all’idea di “cultura nazionale”, un concetto da riformulare. La cultura deve comunicare con le altre e non essere dogmatica. Il peccato dell’Altra Europa è che sono ancora servi della cultura nazionale e, in alcuni casi, questo avviene anche nei territori della Vecchia Europa.
Daniela Melis