Nel 2008 Marcello Fois, scrittore sardo, di Nuoro, che vive a Bologna, propone un libro dal titolo particolare, intrigante, che fa porre al lettore una domanda e allo stesso tempo gli da anche una sorta di risposta. Nei suoi libri è sempre forte il sentore di Sardegna, ma mai come in questo è così diretto il messaggio che lancia. “In Sardegna non c’è il mare” è il racconto di una Sardegna sconosciuta, lontana dalle spiagge cristalline invase dai vip, che si sposta verso la sua parte più aspra, più chiusa. L’isola, qui, seppur espropriata di se stessa e sfruttata, si è sicuramente conservata meglio.
Il libro è un’analisi a tratti spietata dell’interno dell’isola, di quella Barbagia che si riconosce una volta che varca il mare, perché, e questo vale per l’intera isola e per i sardi, “finché non c’è mare, non c’è Sardegna”. Si parte dai suoi abitanti, caparbi e precisi nel loro collocarsi come provenienti da una determinata zona, paese, famiglia, per il semplice motivo che, spiega l’autore, “hanno un’incapacità atavica di autodefinirsi”. Ma per accettarsi per quello che si è non bisogna per forza compararsi, ma accostarsi: ed è questo accostamento, l’avvicinarsi e addentarsi in questa Barbagia che cerca l’autore, descrivendola sotto vari aspetti che si analizzano nelle cinque parti in cui è suddiviso il libro, che si conclude con una “non conclusione”.
Il primo capitolo è dedicato alle distanze, pretesto per raccontare anche le trasformazioni di Nuoro da paese a città (qui c’erano gli uffici), che si raggiungeva con il pullman. Furono proprio questi primi mezzi di trasporto che portarono i cambiamenti: la stazione, la nascita delle prime tavole calde, frotte di ragazzetti di paese che venivano a vedere gli immensi supermercati. E poi, dopo gli anni Cinquanta, la scoperta del mare come luogo dove passare le vacanze: un mondo esterno per il nuorese che doveva varcare le montagne e dove chi arrivava da trenta chilometri di distanza era quasi uno straniero. Perché questo è il senso delle distanze in un’isola: spazi limitati che definiscono aree precise e piccoli spostamenti che sembrano giganti.
Nelle pagine che seguono ci si addentra nella descrizione dei barbaricini, sempre correndo sulle note della vita dello scrittore, che usa le sue esperienze per descrivere un mondo intero. Lo si fa partendo da “Ventuno parole”, artatamente scelte dal nostro sardo d’oltre mare per parlare di una terra fiera, aspra, in bilico tra ciò che è e ciò che le viene imposto esternamente di essere. Lingua, folklore, memoria, turista, indipendentismo: tutti termini che spiegano bellezza e contraddizioni di un’isola e di un’isola dentro l’isola, la Barbagia. Si parla di una zona, infatti, che da una parte è spinta a ballare e cantare in nome del folklore, per creare quello spettacolo che solo ciò che è atavico sa dare, e che dall’altra è invitata a non far parlare la lingua sarda ai propri figli, troppo dissonante con l’era del boom economico.
Il capitolo finale si sofferma sugli scrittori sardi: Grazia Deledda, Salvatore Satta, Peppino Fiori, Giuseppe Dessì, Sergio Atzeni, Salvatore Mannuzzu. Cani sciolti? Forse, ma, che l’abbiano fatto inconsapevolmente o no, dalle pagine di Fois emerge che tutti loro hanno agito, non solo per raggiungere il traguardo di essere pubblicati da editori nazionali, ma per la Sardegna: per raccontarla, per spiegarne il mistero, per denunciarne gli abusi e i soprusi, per renderla migliore.
Tutto il descrivere la propria terra da parte di Fois, a tratti anche con ferocia e non poca critica, si conclude in una constatazione inevitabile: per chi nasce in Sardegna è impossibile stabilire delle distanze da essa, anche quando si vive fuori a lungo. Perché, come spiega l’autore, “basta un odore o un sapore a riportare indietro, un gregge di pecore in lontananza o un souvenir, tutto riporta a casa quando si crede di esserne definitivamente partiti”.
La scrittura impegnata e a tratti complicata di Fois non lascia comunque spazio a nessuna interpretazione: il suo è un appello intimo ai sardi a riconoscersi, anche all’interno dei propri limiti e non solo una volta che si supera il mare, ma prima, dentro la Sardegna. Effettivamente è solo scavando anche in ciò che di più oscuro e sbagliato c’è in una cultura che la si eleva. Essere sardi, spiega in conclusione l’autore, non significa automaticamente essere speciali: va dimostrato e va spiegato a tutti e lo si può fare solo imparando a essere sardi, abbandonando quel senso di inferiorità che da tempo, purtroppo, accompagna questi abitanti fieri e fragili allo stesso tempo.
Daniela Melis
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