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La forza, la generosità e l’amor di patria degli emigranti italiani è, e sarà sempre al di sopra di qualsiasi regnante o governante comodamente seduto a sprecare denaro pubblico e a disfare la stessa democrazia per il conseguimento di interessi personali.

Poiché mai dimentichi delle proprie radici, i lavoratori che si sono spinti all’estero, da soli o con le loro famiglie, e che tutt’oggi continuano a cercare mezzi, opportunità e fortuna altrove – tanto è rimasta miserrima la situazione- hanno saputo dimostrare che la rappresentatività di una nazione appartiene al popolo stesso; onore di cui raramente è meritevole il politico. Onore che i lavoratori all’estero, pur nell’indigenza e, sovente, nella mancanza di alfabetizzazione, per quanto costretti ad andare via a causa della negazione dei loro diritti in patria, hanno guadagnato con la vecchia buona educazione, l’onestà e la voglia di lavorare che conservano le persone per bene, umili e dignitose, portando con sé l’Italia nel petto, o almeno l’idea d’Italia che ingenuamente volevano, meritavano…Un’idea che noi oggi dovremmo nuovamente stabilire e ricercare attraverso un senso di coesione e appartenenza.

E l’amor di patria degli emigranti italiani in terra argentina e uruguyana che rese possibile la costruzione di una baleniera armata a goletta, e grande l’impresa ch’essa compì con soli tre uomini d’equipaggio, attraversando l’Atlantico con un carico di speranze e nobili propositi.

Il due alberi prese vita nel 1879 a Montevideo, grazie e alle 20.000 lire preventivate per l’allestimento e raccolte in seguito tra i compatrioti emigrati nel sud america, all’aiuto economico e all’arte del maestro d’ascia Luigi Briasco presso i suoi cantieri, allo stacanovismo e alla competenza tecnica di Pietro Troccoli. Un lavoro avviato con l’intensità dei sogni puri e dei progetti che mettono fierezza negli animi, quelli di Vincenzo Fondacaro, dei quali restò affascinato anche Orlando Grassoni.

Con lo stesso sodalizio che tiene insieme per la vita il madiere alla chiglia e le ordinate al paramezzale, Vincenzo, Pietro e Orlando si strinsero, anima e coraggio, attorno al grande sogno e al progetto dell’eroica impresa. I tre si incontrarono nella comunità italiana di Montevideo, ciascuno con la sua storia di emigrante da raccontare.

Vincenzo Fondacaro nacque nel 1844 a Bagnara Calabra (RC) e giovanissimo emigrò in Inghilterra navigando sulle navi mercantili del regno unito sin dall’età di 17 anni, diventando capitano della marina inglese nel 1876; tre anni più tardi decise di partecipare alla guerra tra Cile e Perù; ben presto però capì quanto la guerra fosse un affare sporco e iniziò a dedicarsi a un progetto più meritevole, presentandolo ai nostalgici italiani trasferitisi a Montevideo e Buenos Aires.

Orlando Grassoni, originario di Ancona e coetaneo di Fondacaro, prese a navigare, come suo padre, a bordo delle navi di lungo corso sulla rotta per le americhe, l’Australia e l’Asia in qualità di marinaio, naufragando diverse volte. Nel 1860 tentò di arruolarsi nelle camicie rosse. 
Conobbe Vincenzo Fondacaro a New York nel 1874, lì decisero che un giorno avrebbero compiuto la traversata dell’oceano atlantico assieme; raggiunse l’amico Vincenzo a Montevideo aggiungendosi alla nobile spedizione.

Pietro Troccoli nacque a Marina di Camerota (SA) nel 1852, era ancora giovanissimo quando si trasferì in Uruguay. A Montevideo divenne maestro d’ascia presso i cantieri navali Briasco e lì conobbe Vincenzo Fondacaro, assieme al quale sognò l’impresa a partire dall’impostazione della chiglia e dedicandosi alla costruzione della goletta anima e corpo, prima di salire a bordo assieme a Vincenzo e Orlando.
Così nacque il Leone di Caprera. Dal sudore, dalla lealtà e dalla limpidezza dei sogni di tre uomini devoti all’ideale, dall’amore per il proprio paese e dalle speranze in esso riposte della comunità italiana emigrata in sud america… Cose estranee a qualsiasi annessione e macchinazione politica.

I finanziamenti raccolti con tanto sacrificio si tradussero in un’imbarcazione superba ed unica nel suo genere. La goletta vantava 3 tonnellate di stazza lorda, 9 metri di lunghezza, 2,30 metri di baglio massimo, un’altezza di costruzione a prua di 1,60 metri e un puntale di 1,10 metri, uno scafo costituito da fasciame longitudinale e strutture in legno di Algarrobo. Il ponte di coperta in noce, pino bianco e cannella, fissati con chiodi in rame; vi incernierarono due alberi abbattibili, in caso di burrasca, di 4,5 metri ciascuno sui quali venne inferito un boma e un armo velico ibrido, antesignano dell’armo Marconi; al suo interno due cilindri di rame sigillati e impermeabilizzati in modo da garantire una certa stabilità in caso di cedimenti, assicuravano spazio sufficiente per lo stivaggio dei viveri e il riposo dei due membri dell’equipaggio esenti dalla guardia in navigazione.

Egregia fu l’opera compiuta dalle maestranze italiane che adornarono il “leone” coi fregi accanto al nome dell’imbarcazione, un corrimano in ottone in prossimità del pozzetto, un intaglio a testa d’aquila sulla barra del timone e dotandola di accorgimenti tecnici innovativi ed inediti a quei tempi: oltre ai due cilindri in rame vennero anche disposti, attorno alla chiglia, ben quattro serbatoi d’aria per aumentarne la riserva di spinta consentendo all’imbarcazione di navigare, con la coperta sommersa, senza rischi per la galleggiabilità e dotandola di una bussola notturna, di un’ancora galleggiante, del barometro e del sestante, tanto necessari per predire i mutamenti del tempo e ricercare la posizione.
Privo di sovrastrutture in coperta, aveva parti stellate e linee d’acqua affusolate, il rame che foderava la carena scintillante e un’isellatura pronunciata (cavallino negativo) con conseguente bordo libero ribassato a mezzanave, che conferivano al Leone di Caprera un aspetto elegante e sinuoso, soprattutto quando correva, con lo scafo immerso in acqua, a vele spiegate… 
Fiocco, controfiocco e due rande alla portoghese (vela trapezoidale inferita alla sua base al boma e superiormente ad un picco pressoché verticale).

Un gioiello di ingegneria navale, stabile, funzionale e bello a vedersi.

Il sogno di Fondacaro consisteva nel portare in dono a Garibaldi una spada d’oro e un album con le firme degli italiani che avrebbero contribuito finanziariamente all’impresa, una traversata oceanica compiuta da tre uomini su di un “guscio di noce” che riconfermasse le capacità marinaresche e restituisse fierezza e gloria alla marina italiana, offesa nel 1866 dall’impero austro-ungarico durante la battaglia di Lissa; inoltre Fondacaro voleva sperimentare personalmente e in maniera definitiva l’utilità dell’olio a ridurre, una volta riversato fuori bordo, gli effetti del moto ondoso, emulando gli equipaggi balenieri dell’America meridionale e delle Azzorre (motivazione che ha lasciato anche traccia scritta nel diario di bordo redatto in lingua inglese dal comandante Fondacaro durante i giorni di navigazione).
La comunità di fatto aderì al progetto, eccetto che per la spada pare, dando quasi per scontato il naufragio e il fallimento; ma l’equipaggio del Leone di Caprera non si demoralizzò; d’altronde non lo fece neanche quando, facendo la spola tra Montevideo e Buenos Aires per raccogliere i fondi necessari, Fondacaro subì un attentato, forse a scopo intimidatorio (o un tranello tirato dai creditori cui il Fondacaro s’era affidato per ultimare la goletta), che fortunatamente si risolse in un nulla di fatto.
La traversata, destinata ad entrare nella storia della marineria italiana, ebbe inizio il 3 ottobre 1880 e il Leone di Caprera, col suo ardimentoso equipaggio, salpò dal porto di Montevideo salutato calorosamente da una folla di appassionati e curiosi, tra fierezza e timore. 
1000 litri di acqua, gallette, pane, carne di manzo in conserva e uova per una cambusa di 160 kg di carico, oltre ad alcune bottiglie di Vermouth, 40 litri di vino, qualche gallina viva e il caffè ovviamente, questi i viveri imbarcati a bordo stimando la durata del viaggio in 100 giorni. Viveri a cui si aggiunsero i 100 litri di olio raccolti in “sacchi di canovaccio capaci di un boccale…” (un sacco, rilasciando gradualmente l’olio in mare, poteva durare 24 ore circa) per sedare i flutti. E tanto ne dovette usare Fondacaro durante il viaggio per poter impedire, nelle burrasche, la formazione di frangenti.

Con spirito freddo e pacato affrontarono una navigazione davvero ardua: all’inizio favorita dai venti meridionali, dalla corrente del Brasile e quella equatoriale; successivamente, mutata la configurazione meteo marina dopo appena 10 giorni di navigazione, il 13 ottobre l’imbarcazione si capovolse a causa di una tempesta e anche se i tre uomini riuscirono a metterla in assetto l’unica bussola di bordo andò perduta; il viaggio continuava nonostante le difficoltà e non sporadici furono gli incontri con i bastimenti che consentivano, come avvenne per il brigantino portoghese “Maria Dasdoras” di Lisbona incrociato il 19 ottobre, di comunicare l’ultima posizione di avvistamento e fare eco all’impresa della goletta in diversi paesi del mondo; il 24 novembre il Leone di Caprera tagliò l’equatore in longitudine 22° ovest, mentre il 26 dello stesso mese catturando qualche uccello marino l’equipaggio appuntò per l’ultima volta la posizione nota in oceano aperto su un messaggio legato alla zampa del volatile; erano già passati una sessantina di giorni dalla partenza e i venti da nord est costringevano al duro lavoro dell’andatura di bolina ma Vincenzo, Pietro e Orlando cercarono di rallegrarsi gli animi con qualche brindisi di Vermouth, ammazzare il tempo col canto e fingendo, il 18 dicembre, una sorta di lotteria realizzata con biglietti scritti a mano e messi in un sacchetto; nelle acque funestate da cattivo tempo e risalendo il vento, l’equipaggio lottò senza tregua anche il giorno di natale, mentre s’avvistava il golfo del Senegal e la costa africana sembrava essere sempre più vicina; fortunatamente i tre marinai riuscirono a sventare il pessimo presagio della costa sottovento e ad atterrare stremati, il 9 gennaio 1881, a Las Palmas coprendo una distanza di 5000 miglia a una media di 4,5 nodi dopo 96 giorni di odissea.
Il loro approdo nel porto delle isole Canarie era già impresa eccezionale, il loro coraggio noto e apprezzato, l’accoglienza della popolazione calorosa e le autorità locali cordiali e ben disposte. Grazie alle agenzie di stampa sul posto la notizia straordinaria della traversata raggiunse moltissimi paesi tra cui anche l’Italia.
Vincenzo, Orlando e Pietro ripresero a navigare il 15 gennaio mettendo la prua su Gibilterra raggiunta il 23 dello stesso mese non senza le fatiche richieste dall’andar per mare e non senza usare ancora una volta l’espediente dei sacchi imbevuti di olio; termina così l’avventura marinaresca del Leone di Caprera descritta in seguito nel libro del comandante Fondacaro e intitolato “Dall’America all’Europa”.

Erano trascorsi 116 giorni da quando il Leone di Caprera salpò da Montevideo, e quando avvistarono la rocca di Gibilterra Pietro Troccoli in cuor suo sapeva che era giunto il tempo di andare: lo aspettava un viaggio parallelo e in solitaria sino a Caprera per consegnare al generale Giuseppe Garibaldi l’album con le firme della comunità italiana di emigranti che coi soldi strappati al risparmio sponsorizzò la costruzione e l’ingresso nella storia navale del “leone” e del suo fiero equipaggio. E così fece il buon Pietro poco tempo prima che l’esule di Caprera morisse, mentre a Vincenzo e Orlando toccò rodersi il fegato a Malaga nella “bonaccia” della mancanza di fondi, che solo dopo un tormento durato mesi costrinse il Leone di Caprera a proseguire il viaggio trainato da un vascello inglese sino a Livorno; a consolare gli impavidi del disagio di una desolante attesa e di un rientro in patria indegno del loro spirito marinaro solo queste parole, tratte dalla “rivista italiana”, del 27 febbraio 1881: “i giornali stranieri sono pieni di ammirazione per l’intraprendenza dei nostri marinai che hanno compiuto un viaggio meraviglioso sopra un guscio di noce… che viaggio! Tutto a vela! Con soli tre uomini a bordo! Americani, inglesi, francesi sono sbalorditi di un simile tour de force!”.

E potevano andarne fieri!!!

Era il 9 giugno del 1881 quando Fondacaro e Grassoni ormeggiarono nel porto toscano e Troccoli era lì ad attenderli. La loro caparbietà e il loro coraggio li resero famosi dinanzi al popolo italiano e alle comunità di italiani nel mondo; furono accolti con molto entusiasmo dal popolo ma non con gli onori che gli spettavano, e i regnanti sembravano non capire il valore ideologico dell’impresa e guardarono alle qualità marinaresche dell’equipaggio tiepidamente; in luglio il “leone” venne trasportato via terra a Milano in occasione dell’esposizione industriale, messo prima al galleggiamento per la fiera come un pescetto d’acqua dolce adornato di gran pavese e poi ormeggiato presso il laghetto di villa reale a Monza; lì Re Umberto I e la Regina Margherita di Savoia ammirarono la straordinaria goletta ed accolsero l’equipaggio con un banchetto, un “bravo” e una pacca sulla spalla insignendoli con medaglie d’oro;
Anche i giornalisti italiani dimostrarono una certa aria di sufficienza a dispetto dell’entusiasmo dei colleghi stranieri e non diedero grande risalto al rimpatrio del Leone di Caprera e alle indiscusse doti del suo equipaggio che presto precipitò nel dimenticatoio, versando in difficoltà economiche che costrinsero Fondacaro nel 1886 a svendere all’Italia il Leone di Caprera per l’ingenerosa somma di 3500 lire!

Senza altre possibilità, ricominciarono a giocarsi l’esistenza da emigranti quegli uomini delusi ancora una volta dalla patria benché eroi dall’animo nobile e generoso tanto di lei innamorati:
Il comandante Vincenzo Fondacaro ritornò in sud America e nel 1893 mollò gli ormeggi da Buenos Aires per ricercare un nuovo confronto col mare…trovò invece una tomba azzurra in un punto imprecisato dell’oceano atlantico e in ottobre il governo argentino ne annunciò la scomparsa;
Il marinaio orlando grassoni riprese anch’egli le vie del mare sulle grandi navi da carico e morì a Genova nel 1901;
Il maestro d’ascia Pietro Troccoli, poco dopo l’arrivo del leone di Caprera a Livorno, approfittò di visitare la sua città natia che lo accolse con grande affetto e ammirazione coniando per l’occasione una medaglia d’oro tutta per lui; dopo i festeggiamenti a marina di Camerota ritornò in Uruguay, ove si stabilì definitivamente sposandosi e diventando padre di ben nove figli. Si spense a Montevideo nel 1939.

Anche alla baleniera toccò la stessa sorte dei suoi compagni di viaggio: subito dopo la meschina trattativa venne affidata all’ammiraglio Brin ed esposta all’arsenale di Venezia; dopodiché, ed era il 1932, venne trasferito nel civico museo navale didattico di Milano, ospitato in un padiglione del castello sforzesco e preso in cura dall’unione marinara italiana (l’odierna a.n.m.i.) e ancora, nel 1953, presso il museo della scienza e della tecnologia di Milano lasciato in stato di abbandono a logorarsi all’aperto in un cortile fino all’agosto del 1995.

È in quell’anno che il leone di Caprera, coi legni e i “ferri” degradati dal clima milanese, venne reclamato dai concittadini e dai pronipoti di Pietro Troccoli trovando nella cittadina cilentana di marina di Camerota l’antica ammirazione e amorevolezza delle persone semplici e un rifugio nella locale grotta di Lentiscelle (di 600 mq) situata sul litorale; era il 10 agosto e la città lo accolse coi suoni delle campane delle chiese limitrofe e con tutti i mezzi sonori a bordo delle barche dei pescatori locali; il 12 settembre prese parte alla “festa del pescatore” e per l’occasione 5 discendenti di Pietro Troccoli giunsero nella cittadina cilentana per rivivere l’emozione di quella gloriosa avventura entrata a far parte della memoria storica degli italiani e della memoria collettiva della comunità di marina di Camerota così tanto sentimentalmente legata alla marinaresca vicenda…. i pronipoti del maestro d’ascia donarono al comune cilentano, in quell’occasione, la medaglia d’oro custodita da Pietro fino alla sua morte.

In quella occasione si cominciò a parlare di restauro e persino della costruzione di una replica che, governata dallo skipper locale Raffaele Gammarano, avrebbe dovuto ripetere la traversata sino a Montevideo ed essere donata al museo cittadino. Almeno questo era quel che si diceva.
Fatto sta che il restauro non fu avviato e neanche si pensò di dotare la grotta di impianti che ne deumidificassero l’ambiente.

Nel 2007, con la ricorrenza del bicentenario della nascita di Garibaldi, coi fondi concessi dal ministero dell’ambiente, della tutela del territorio e del mare al comune di marina di Camerota il restauro avviene, miracolo italiano, fuori dal comprensorio cittadino e della provincia di Salerno: infatti la migrazione senza fine del leone di Caprera attraverso luoghi, enti e burocrazia, dopo anni di abbandono da parte delle istituzioni prosegue fino a Livorno coi mezzi della guardia di finanza nei cantieri della “Old fashioned boats” per iniziativa ove ha visto avviare i lavori di restauro conservativo-museale sotto la direzione del comitato tecnico scientifico dell’A.R.I.E. (associazione per il recupero di imbarcazioni d’epoca) con a capo Stefano Faggioni; il recupero del cimelio ha avuto termine 2 anni dopo anche grazie alla collaborazione della federazione italiana vela ed al patrocinio del politecnico di Milano e il 9 giugno 2009, 128 anni dopo l’arrivo in Italia, ha avuto luogo a Livorno presso la banchina del molo mediceo il “varo” museale; dopo la cerimonia la goletta è partita per La Spezia ed è stata esposta in occasione della “Festa della marineria” dall’11 al 16 dello stesso mese.

L’ultimo viaggio di un cimelio intriso di mare, di marineria e di storia di ardimento e generosità delle comunità di emigranti italiani lo ha visto giungere a Milano il 28 per il 150° anniversario dell’unità d’Italia, in esposizione dal 16 al 22 marzo 2011 nell’ottagono della galleria Vittorio Emanuele II a Milano e successivamente fino al 30 aprile visitabile al Largo Cairoli ai piedi del monumento dedicato a Garibaldi.

Il 2 giugno 2011 il leone di Caprera varcava le porte del museo nazionale della scienza e della tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano per essere esposto in via definitiva nel padiglione aeronavale, ove si trova tutt’ora.

Quest’anno Marina di Camerota, s’è vista aggiudicare il premio per la spiaggia più bella dopo un sondaggio web di Legambiente, è la “Cala bianca” questa spiaggia, un’oasi immersa nel parco nazionale del Cilento e del Vallo di Diano; ci si chiede se questa recente popolarità possa servire alla cittadinanza per reclamare con lo stesso vigore di un tempo il ritorno del Leone di Caprera; un vigore la cui voce, dal 2007, ha cominciato a perdere tono abbandonandosi alla rassegnazione di vedere il testamento più prezioso delle comunità di emigranti italiani in Uruguay e argentina, non certo un lascito delle istituzioni, così lontano dai sentimenti che ne ispirarono l’impresa e dai lidi che ne videro il varo applaudito da un entusiasmo più vivo e genuino di quello toccatogli in sorte toccando il porto livornese. Non ad Ancona, non a Marina di Camerota, non a Bagnara Calabra ma a Milano, lì giacciono il Leone e i buoni propositi dell’Italia vera!

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