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Tic-Tac-Tic-Tac-Tic-Tac-Tic-Tac

I battiti sono accelerati, li sento, devo avere ancora febbre. Febbre senza sintomi di influenza, manco un banale raffreddore. Niente. Eppure non sto bene. Insisto a dire a tutti che non è nulla di grave, uso il colpo di freddo come unica possibile causa cercando di convincere soprattutto me stessa. Perché io lo so che non è lì il problema.

Una parte dell’ingranaggio si è rotta, il tempo non può andare così veloce, ha la sua cadenza, la sua misura che è anche misura dell’equilibrio delle cose.

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Insistono nel volermi portare in ospedale, io prendo tempo. Non riesco ad accettare che qualcosa si sia rotto, non lo sopporto. Certo, se mi faccio un esame di coscienza, non ne esco per niente pulita. Un’ora inginocchiata sui ceci più mille scritte sulla lavagna: “Devo prendermi il mio tempo”. Sì, perché se unisco alla vita frenetica che conduco, la finitezza insopportabile di questa macchina fisica che mi permette di essere materialmente nel mondo, non posso certo essere stupita di ciò che mi sta accadendo.

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Mi portano di peso in ospedale. Vado dritta nel reparto di ginecologia, è lì il guasto meccanico, ne sono ormai certa. Faccio l’accettazione e attendo. Mi pare di stare meglio, le fitte son più rade. E adesso chi glielo dice ai tizi dentro?

Dopo ore di attesa mi fanno entrare, una dottoressa mi visita trattandomi con sufficienza, come una delle tante che va lì senza dei reali problemi. Mi sento quasi in colpa, dico che ha ragione, sto meglio, forse è passato tutto. Io non volevo manco venire…

La sua assistente è più gentile e mi fa accomodare dicendomi che, per precauzione, mi faranno un’ecografia interna.

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Sono in una stanza bianca, le gambe all’aria spalancate. Attorno a me uno stuolo di studenti che parla, traffica, mi osserva.

Sento disagio.

Il dottore ride.

Sghignazza e tratta male gli studenti da quando sono entrata. Con me non è da meno. Mi fa accomodare sul lettino con un sorriso sardonico, poi afferra un macchinario dell’orrore dandolo in mano a una studentessa. Io son di nuovo dolorante e quell’aggeggio, dentro di me, amplifica le fitte.

Noto che qualcosa non va, chiamano il dottore. Lui guarda lo schermo e si illumina. Poi mi dà il benvenuto nell’ospedale dicendomi che sarei già dovuta andarci qualche giorno prima, non solo per la mia salute, ma anche perché lui si annoiava con tutta quella gente che arrivava per motivi futili. Finalmente un caso vero. E grave.

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Son terrorizzata, mi dicono che probabilmente mi opereranno, ho una brutta infezione a una tuba. Provano con gli antibiotici, se no mi operano il giorno dopo. Mi spiegano che ho una specie di corpo estraneo che, se dovesse scoppiare, potrebbe arrecare grossi danni al mio organismo e che rischierei di morire.

Ho paura. Sono stata operata solo di adenoidi da piccola, non ho mai stupidamente contemplato che sarebbe potuto accadere di nuovo. D’altronde io e i dottori non abbiamo mai avuto un legame assiduo, direi piuttosto sporadico se non inesistente.

Voglio scappare dal mio corpo, rifiutare di vivere quell’esperienza.

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Mi sistemano in una camera piccola e tetra. O almeno così la vedo io. Mi pungono dappertutto, sono tesa e non trovano la vena. Mi fanno male, sono intrattabile.

Cambia il turno e per la notte arriva un’infermiera dolce, mi calma e mi addormento. Mi fido di lei, è stata mandata a custodirmi.

Sogno di volare fra i tetti delle case, prendo lo slancio e sento l’aria che mi attraversa. Poi tutto si annuvola, un’ombra nera si frappone al mio volo. Mi sveglio di soprassalto, sudo freddo. L’antibiotico non ha fatto effetto.

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Attendo che mi portino in sala operatoria. Una dottoressa entra a spiegarmi come funziona e a farmi firmare le carte per l’autorizzazione. Firmo. Se ne va.

Entro nel panico. Piango. Mi sento in un limbo: avrei voluto non firmare, prendere tutto e andarmene. Tuttavia se vado via, l’orologio si ferma, il tempo scompare.

Ma io voglio vivere.

Mi faccio forza.

La mia infermiera preferita non è in turno, le altre mi trattano come un sacco informe. Qualcuna scherza. Io non ho voglia di scherzare, non adesso.

Tiiiiic-Taaaaac Tiiiiic-Taaaaac

Mi risveglio dalla sala operatoria urlando. Nelle visioni oppiacee sogno di tutto, finanche il chirurgo che mi sta operando. Mi risveglio con amici e parenti intorno. Sto male ma son sveglia, è già qualcosa. Mi hanno fatto tre buchetti in pancia, nessuna ferita invasiva. In compenso mi hanno esportato una tuba.

Son contenta di vedere le persone che più mi son care, mi prendono in giro per le frasi deliranti che ho detto appena uscita dalla sala. Rido. Mi sento felice.

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Le giornate passano e la febbre non scende. Ogni notte mi sveglio sudata e devo cambiarmi il pigiama. Non ho più cambi, mi portano di continuo roba pulita ma non basta. Sono in condizioni pessime: i capelli, che non lavo da giorni di febbri e sudate, sono stopposi e non emanano un buon odore, ho le braccia coperte di lividi e il terrore continuo che esca l’ago della flebo che in questo momento è conficcato nella mano.

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Ciò che mi aiuta è scrivere, riportare tutto, anche i singoli dialoghi: i continui battibecchi col chirurgo, gli scambi di battute con l’animosa donna delle pulizie, i mille tentativi perché le operatrici sanitarie si ricordino di me. Forse troppo abituate a un flusso continuo di persone X, scordano che nella solitudine di una stanza di ospedale, ogni persona X ha bisogno che loro la riconoscano. La Persona X malata si sente abbandonata dal suo mondo, forse anche un po’ rifiutata. Il suo ambiente confortevole ha bisogno di individui sani e forti, gli altri stanno indietro e soccombono. Si chiama selezione naturale. Solo che, quando sei dalla parte dei forti, non te ne accorgi nemmeno, quando arranchi fra quelli deboli, lì capisci cosa vuol dire essere scartati dal grande dio Natura.

Per questo quella Persona X ha necessità di essere riconosciuta, considerata, di acquisire una identità. Non è semplice resistere al sentimento di inutilità dell’ospedale.

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E poi c’è lei, la mia compagna di stanza, una donna sfortunata che mi fa ricordare quanto i miei siano stupidi lamenti.

Il mio mondo si è cancellato, si è spostato lì, in quell’ospedale storico dai lunghi corridoi. Non ho interesse per il mondo esterno, né questo sembra nutrirne per me. Il baccano dei social network, la frenesia delle mie giornate sono incontemplabili in questo momento.

Sono malata, questa adesso è la mia condizione. Imprigionata nel mio corpo dolorante.

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Le cose cambiano quando riesco ad alzarmi. Vago per il vecchio ospedale cogliendo la bellezza dei suoi antri misteriosi.

Mi sto abituando a questa assenza di rumore e alla solitudine, riesco a concentrarmi e a sentire il mondo in modo puro, diretto.

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La febbre scende lentamente confermando la gravità dell’infezione iniziale. Mi pompano antibiotici di continuo. Ho il terrore dell’ago che continua a fuoriuscire costringendo le infermiere a bucarmi di frequente. Sono stanca ed esasperata. Mi dicono che potrò andarmene solo quando non avrò più nemmeno una linetta di febbre. Passano i giorni e le compagne di stanza. Con qualcuna di loro lego e le trascino a far passeggiate cercando di scoprire ogni angolo di quel posto.

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Dopo 10 giorni la febbre passa, Il battito torna regolare, l’ingranaggio è riparato e funzionante. Il tempo ha riacquistato il suo ritmo.

Il dottore mi visita facendomi una lavata di capo per i miei ritmi di vita e sulla necessità di fare controlli regolari. Io son felice di uscire, annuisco su tutto, l’importante è che apponga quella firma.

Mi rifugio nella serenità della casa dei miei genitori e scopro che sono cambiata. Con me ho portato il silenzio, il bisogno di raccoglimento e la pace del vecchio ospedale. Sì, perché il suo potere terapeutico non ha curato solo il male fisico, ma si è insinuato dentro collegandomi col silenzio del mondo, quel silenzio in cui si percepiscono perfettamente i battiti del proprio orologio.
Ora perfettamente sincrono.

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