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Gli italiani, nonostante le numerose emergenze ambientali a cui hanno condannato il Belpaese, amano la natura, sono salutisti e si stanno scoprendo, o riscoprendo, esperti e consumatori, in varie forme, di piante officinali. Il mercato è in costante espansione e guarda con favore all’omeopatia, alla cosmetica, alla cucina e perfino alla tintoria. Nel solo 2018, secondo la Coldiretti, la domanda nazionale ha raggiunto i 25 milioni di chili.

Di particolare gradimento risultano per esempio l’aloe, la bardana, il basilico, la camomilla, il cardo mariano, l’echinacea, l’elicriso, l’eucalipto, la lavanda, la liquirizia, la maggiorana, la menta piperita, il mirtillo nero, il meliloto, il mirto, l’origano, la passiflora, il peperoncino, il rosmarino, la salvia, la stevia, il tarassaco, il timo, la valeriana, la vite rossa e lo zafferano.

Qualche dato

Le aziende che operano nel settore, impegnando più di 7 mila ettari di superficie, sono circa 3 mila e riescono a coprire soltanto il 30 per cento del fabbisogno italiano. Per il restante 70 per cento, stando a una stima della Coldiretti, ci si rivolge all’estero. Un quarto delle importazioni, fa sapere l’organizzazione agricola, proviene dalla Cina. In base ai casi trattati dal RASFF, il Sistema di Allerta Rapido in ambito europeo, Pechino è però ai primi posti nel mondo per frodi alimentari.

La Sardegna, come emerge dai dati elaborati da Laore, adibisce alle colture di piante officinali quasi 200 ettari di superficie, conta circa 160 aziende e grazie all’isolamento geografico e alla scarsa antropizzazione può vantare la presenza persino di oltre 200 endemismi. Si ricordano la borragine, l’elicriso e l’iperico, ma anche il cardo del Gennargentu, la pompia e il ribes sardo, che sono ad altissimo rischio di estinzione, soprattutto a causa della sconsideratezza umana.

L’attenzione per il settore, quindi, è in crescita a livello internazionale. L’OMS, comunque, circoscrive la materia già dal 1980, considerando «pianta medicinale ogni vegetale che contenga in uno o più dei suoi organi sostanze che possono essere utilizzate a fini terapeutici o preventivi o che sono precursori di emisintesi chemiofarmaceutiche», cioè sfruttabili dopo essere state sottoposte a trasformazioni chimiche.

Questo interesse ha spinto il legislatore italiano a intervenire e a varare il Decreto Legislativo 21 maggio 2018, n. 75 – Testo unico in materia di coltivazione, raccolta e prima trasformazione delle piante officinali, che sostituisce la Legge 6 gennaio 1931, n. 99, ritenuta poco soddisfacente perché ormai superata da tempo. Tra le novità si segnala la definizione data nell’articolo 1.2, che così recita: «Per piante officinali si intendono le piante cosiddette medicinali, aromatiche e da profumo, nonché le alghe, i funghi macroscopici e i licheni destinati ai medesimi usi […]». Si evidenziano anche l’articolo 3, che disciplina la raccolta spontanea per evitare il depauperamento delle aree, l’articolo 6 che introduce i registri varietali e l’articolo 7 che prevede l’istituzione di marchi collettivi per la certificazione della qualità su iniziativa delle Regioni.

Quali conseguenze

Sebbene l’Italia abbia sul campo una storia millenaria, l’aumentato consumo di piante officinali sta generando diversi interrogativi in merito alla loro sicurezza, sia per quanto attiene alle proprietà benefiche sia per quanto riguarda il processo di lavorazione. Gli eventi avversi documentati in letteratura, tuttavia, spesso derivano unicamente da standard qualitativamente bassi delle materie prime e «sono dovuti a contaminazioni da metalli pesanti, pesticidi, micotossine e microrganismi» sottolinea Assoerbe. Lungo lo Stivale, comunque, la vigilanza appare sempre più intensa. Per esempio «a partire dalla fine del 2019 ogni medicinale in vendita nelle farmacie avrà un’AIC, esattamente come accade per i prodotti allopatici» afferma Giovanni Gorga, presidente di Omeoimprese. L’Autorizzazione all’Immissione in Commercio dovrebbe costituire una tutela per tanti poiché, secondo un’indagine condotta da EMG Acqua per l’associazione di categoria, gli italiani che ricorrono all’omeopatia almeno una volta all’anno sono quasi 9 milioni. Principalmente hanno un’età compresa tra i 35 e i 54 anni, vivono soprattutto al Nord, il 58 per cento, e hanno per lo più un titolo di studio di scuola superiore, il 51 per cento. Il 62 per cento cerca un rimedio per riniti e per raffreddori, il 34 per cento per problemi dell’apparato respiratorio e per allergie, il 31 per cento per difficoltà digestive, il 27 per cento per dolori articolari e muscolari, il 26 per cento per malesseri gastrointestinali, il 22 per cento per l’insonnia, il 21 per cento per l’emicrania, il 15 per cento per disturbi agli occhi. Per sapere che ripercussioni avrà tutto ciò sull’economia nel medio e nel lungo periodo è ancora presto, ma il fatturato legato all’omeopatia raggiunge già i 300 milioni di euro annui.

L’uso in cucina

In cucina, poi, le piante aromatiche risultano piuttosto apprezzate, anche perché secondo il Rapporto Italia 2019 di Eurispes il 7,3 per cento degli italiani è vegetariano o vegano. La scelta nel 25,1 per cento dei casi rappresenta una vera e propria filosofia di vita e non è stata dettata unicamente da ragioni di stampo ambientalista e animalista. Dall’analisi dei dati emerge che sono la Sicilia e la Sardegna ad avere la maggiore incidenza di vegetariani, pari al 10,4 per cento e in aumento di 1,5 punti percentuali rispetto al 2018, quando erano all’8,9 per cento, a conferma del trend positivo riscontrabile dal 2017, quando erano allo 0,8 per cento. All’ombra del Tricolore, dove si stima che il solo mercato vegan valga oltre 700 milioni di euro, il salutismo è però piuttosto complesso e di frequente è finalizzato esclusivamente alla prevenzione. Il 19,3 per cento degli italiani segue una dieta senza glutine, seppure soltanto al 6,4 per cento sia stata diagnosticata un’intolleranza. Il 18,6 per cento ha eliminato il lievito, ma solamente il 4,6 per cento ha avuto reazioni avverse. Il 26 per cento compra prodotti senza lattosio, sebbene solo l’8,5 per cento lo faccia per una precisa diagnosi.

Altri ambiti d’uso

Inoltre ultimamente sono alquanto ricercate le tinture naturali, create con scarti agricoli, per la colorazione degli abiti. Il 55 per cento degli acquirenti, infatti, è disposto a pagare di più per capi di abbigliamento ecofriendly, che tra l’altro dovrebbero ridurre al minimo le manifestazioni cutanee associate a dermatiti da contatto. Donne in Campo di Cia-Agricoltori Italiani e Ispra spiegano a tale riguardo che «le potenzialità di una filiera del tessile ecologicamente orientata sono enormi, fino a rappresentare nel Paese il 20 per cento del fatturato del settore, pari a 4,2 miliardi».

Anche la cosmetica è sempre più verde e più cruelty free perché tanti brand, sia emergenti sia storici, si stanno impegnando a ridurre gli additivi chimici e a fermare i test su animali. Quindi no ai parabeni, ai petrolati, ai solfati e ai siliconi. Gli italiani li evitano e per verificare che siano assenti hanno imparato a leggere l’INCI, con cui secondo una nomenclatura internazionale standard si indicano in etichetta gli ingredienti contenuti nei prodotti. Il fenomeno, in base all’indagine effettuata per il 2018 da Cosmetica Italia, vale 1.100 milioni di euro.

Nei vari ambiti, pertanto, si rileva anche un certo ritorno alla tradizione. E la Sardegna non fa eccezione. I corsi dedicati alle piante officinali sono in aumento e riscuotono un successo crescente, come dimostra quello tenutosi recentemente a Tula, organizzato dal Comune con Laore e di durata semestrale, che ha avuto oltre 70 partecipanti provenienti da numerosi centri. La risposta è stata talmente positiva da spingere l’Amministrazione locale ad aprire un bando per la concessione in affitto di lotti agricoli appartenenti all’ente, destinati esclusivamente proprio alla coltivazione di piante officinali. Nell’isola, poi, non sono poche le aziende specializzate nella cosmesi naturale ed esiste persino qualche laboratorio che si occupa di colorazione sfruttando solamente i saperi di una volta. D’altronde i sardi hanno appreso le tecniche tintorie addirittura nel Neolitico, affinandole nel tempo. Si citano, a questo proposito, Osilo e Tempio Pausania, che nel Settecento e nell’Ottocento del secolo scorso erano note per la coltivazione della robbia, da cui si ottiene il rosso.

L’uso delle piante officinali, tuttavia, non è esente da insidie e deve essere sempre responsabile. Senza le opportune conoscenze il fai da te è da escludere. Inoltre occorre prestare attenzione tra le maglie eccessivamente larghe di Internet perché accanto a chi esercita legalmente la propria attività sono molti coloro che lucrano sull’ingenuità e sulla buonafede di troppi, commerciando prodotti non rispondenti alle caratteristiche indicate e spesso addirittura pericolosi per la salute.

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