Da casa scorgo le prime luci dell’alba e mi affaccio al balcone della camera da letto, lasciando che i pensieri scivolino via. Sono frastornata. L’emergenza Covid19 con il conseguente stop del governo che impone di restare a casa ci è precipitata addosso come un macigno, mettendo a nudo le fragilità.
Ho scelto però di allargare il punto di vista e osservare le cose in un’ottica cubista, seguendone tutte le sfaccettature. Nell’atto di scomporre e ricomporre la realtà in cui mi trovo, dove ansia e paura, insieme al senso di oppressione per i vincoli imposti, rischiano di avere la meglio, scopro una possibilità, quella del viaggio tra le pareti di casa. Una sosta, una pausa dall’andirivieni quotidiano, dal ritmo frenetico delle giornate, insieme alla libertà di scegliere come trascorrere il tempo, di dedicarmi quanto voglio ai miei interessi, ma soprattutto di fare quelle cose che non mi concedo mai, come per esempio dedicarmi agli impasti di una volta.
Desideri nascosti che porto con me dall’infanzia, ricordi di bambina quando di tanto in tanto mamma si metteva a impastare le uova e la farina, quasi eco di un‘emozione ancestrale, di una manualità antica e forse impressa nei geni, il movimento di mani e dita. La mia casa è in collina, in Sardegna. Quando mi affaccio nel balcone della camera da letto vedo i monti, un frutteto, e qualche abitazione qua e là.
Inizia il viaggio. Ora sono nella sala da pranzo seduta sul divano. Una lampada da terra bianca, la gatta che mi guarda da dietro i vetri della finestra, il caminetto acceso. C’è un piano di marcia da stilare, ma lascerò che sia il cuore a condurmi in questo mio essere in movimento tra le pareti di casa, un itinerario da scrivere giorno per giorno. Saranno emozioni e curiosità a guidarmi. Sono ancora sul divano, il pc e svariate idee per la testa.
In questo momento mi accorgo di abitare lo spazio che desideravo, costruito nel tempo pezzo per pezzo: il teatrino di carta nel sottoscala per le fiabe, piccole pile di libri di saggi e poesia sparsi dappertutto, un paio di ferri da lana e uno scampolo rosso, ricordo di una persona speciale.
Prima tappa in cucina per la colazione: tazze e bollilatte, fiori e frutta, miele e marmellata, ci sono tutti gli “ingredienti” per dipingere una still Life. Io non lo so fare, ma ho una curiosità, quella di scoprire se è esistita un’artista che si è distinta nel genere. Un tuffo nel web e trovo un nome, Clara Peeters (1594, data di morte ignota), pittrice fiamminga, pioniera dello still life. Nelle sue opere svettano le tipiche colazioni e pranzi olandesi, così come le posate e i fiori, curati nei dettagli, dando volto alla luce, ai suoi effetti speciali. La luce: osservo la pianta di fiori sul tavolo e il raggio di sole che la illumina in un gioco di bagliori e ombre che accende il rosso dei petali, l’intensità.
Un richiamo al presente riposto nell’intimo di ciascuno di noi, il dolore per i morti e malati di questi giorni che cambia la visione delle cose, riconduce ai valori, all’essenziale. In sottofondo la voce del cronista che annuncia le ultime notizie: il numero dei decessi, dei malati, le guarigioni. La realtà si scompone e ricompone di continuo, entro ed esco dal mio viaggio tra chiamate e messaggi al cellulare, il mio lavoro a distanza, le notifiche sui social, il tg. Poi spengo tutto. Pausa.
Di nuovo in cucina. Prendo le uova dal frigorifero, riempio una terrina di farina e amalgamo il tutto, poi mescolo la ricotta con il parmigiano e piccole foglie di timo per fare il ripieno dei ravioli. Metto a riposare l’impasto per trenta minuti e resto a guardare con l’illusione forse di ritrovare un sapere perduto. Quel sentire fatto di cose vissute con semplicità, in autenticità. Senza mettere il viso fuori dall’uscio osservo i gatti in giardino che dormono accovacciati sopra la cenere del barbecue. Appisolati sotto il sole sbadigliano mentre tento di fotografarli. Faccio un altro giro sul web alla ricerca di artiste dello still life, ho un altro nome, Maria van Oosterwijck (1630 – 1693), pittrice olandese. Fu famosa per le sue rappresentazioni floreali, ma il suo nome, in quanto donna, non fu inserito nella lista della corporazione dei pittori. Ebbe più successo di loro però, tra i suoi committenti e protettori Luigi XIV e tanti altri di pari calibro. Artista e imprenditrice, ebbe il coraggio di andare controcorrente, scegliendo di non sposarsi e di dedicarsi completamente all’arte.
E’ ora della tisana e devo scaricare la lavastoviglie. “La lavastoviglie…”, elettrodomestico sempre presente e tanto ambito, “chi la inventò?”, digito il nome su Google e scopro con sorpresa che fu una donna. Jhosephine Cochrane, statunitense (1839 – 1916), di famiglia benestante, organizzava eventi mondani per promuoverne l’immagine sociale del marito, commerciante e politico. Amava tenere cene ed esibire le sue preziose porcellane cinesi, eredità di famiglia, per fare colpo sugli ospiti. Accadeva però che la servitù ne rompesse sempre qualcuna o che non venissero lavate bene. Dopo numerosi e improduttivi richiami decise che, “se nessuno aveva inventato una macchina per svolgere tale compito ci avrebbe pensato lei”. Con una buona dose di fantasia, temperamento e perseveranza riuscì nell’impresa. Si presume che possedesse anche qualche conoscenza di elementi d’ingegneria perché suo padre, che progettava mulini ad acqua, rimasto vedovo, la portava spesso con sé, rendendola partecipe del suo lavoro. Si racconta inoltre che avesse disegnato i pezzi di base, che ancora oggi fanno parte delle più moderne lavastoviglie, prendendo le misure delle sue porcellane. Inventò un macchinario i cui principi di costruzione sono rimasti invariati, ed ebbe successo, nonostante le discriminazioni di genere. Presentò il brevetto all’Esposizione di Chicago del 1893 e vinse il premio alla Migliore Invenzione Meccanica, attirando l’attenzione di tante persone che non riuscivano a credere e accettare che fosse opera di una donna. La sua invenzione fu chiamata “Cochrane Lavastoviglie” ed ebbe una larga diffusione soprattutto tra gli hotel e i ristoranti. Grazie al successo ottenuto riuscì a emanciparsi e malgrado i debiti del suo defunto marito, a condurre una vita agiata.
“L’Italia supera la Cina per numero di decessi”, si legge in sovrimpressione sullo schermo della tv. Ho bisogno di silenzio. Sono triste, arrabbiata, spaventata. Ma soprattutto in collera con chi sminuisce o nega la gravità della situazione, comportandosi in modo irresponsabile. La tensione a tratti è tale che finche’ non mi rimetto in viaggio, mi adiro per un non nulla.
Una rampa di scale ed eccomi nella sala da bagno, prima fermata. Mi guardo intorno come se vi entrassi per la prima volta. Lo sguardo si muove come in dissolvenza da una cosa all’altra: carta igienica, dentifricio, doccia, vasca da bagno e via di seguito. Osservo con sgomento che su di loro non so nulla. La carta igienica, per esempio: quando nacque, dove e per opera di chi? Una ricerca veloce e scopro che i primi a far uso della carta da toilette siano stati i cinesi nel XIV secolo, e che prima di allora ci si arrangiasse con un po’ di tutto, dall’erba all’argilla. Fu nella seconda metà dell’ottocento che comparve il primo prodotto moderno, ad opera dello statunitense J. Gayetty, confezione con salviette, ma non ebbe successo. E fu l’invenzione del rotolo di carta a far crescere le vendite nel 1890 grazie ai fratelli Clarence e Irving Scott. Ma la svolta si ebbe nel 1928 quando la Hoberg Paper, nello Stato della Pennsylvania, per lanciare l’articolo incarica un team di pubblicitari che lo battezzano con un nome accattivante “Charmin” e studiano un logo su cui è raffigurato il corpo di una bellissima donna, successo assicurato. Da allora nessuno ne fece più a meno. Sarà vero? D’ora in poi la guarderò con occhi diversi. In Italia se ne ebbe larga diffusione dagli anni 60.
Riaccendo il cellulare ormai sovraccarico di messaggini. Proliferano immagini e video ironici marcati “Iorestaoacasa”, fake news sull’epidemia e quant’altro.
Mi siedo sul bordo della vasca da bagno. Di lei si legge che nel 1917 fu protagonista di un fatto mediatico interessante: i principali quotidiani americani avevano pubblicato un articolo in cui un famoso giornalista, H. L. Menchen, criticava la stampa per non aver celebrato il 75esimo anniversario dell’invenzione della moderna vasca da bagno, e che tale evento non dovesse passare inosservato, perché a lei s’intrecciavano molti fatti importanti per il popolo americano. La notizia, come l’autore aveva previsto, aveva fatto in lungo e in largo il giro del paese. Ma era volutamente falsa. Lui sospettava, avendo fatto l’inviato di guerra, che molte news diffuse durante la prima guerra mondiale non fossero vere ma solo di natura propagandistica. La sua fu una provocazione verso quei giornalisti che avevano l’abitudine di pubblicare notizie false, e una burla per i lettori americani che si bevevano tutto. Aveva utilizzato una icona come la vasca da bagno per confermare e dimostrare la sua tesi a tutta la nazione.
Apro la finestra, sfumature rosse dipingono il cielo, la montagna i tetti delle case. Il sole ci saluta. Chiudo la porta, ho bisogno di poesia. La cerco nello studio tra gli scaffali della libreria. Prima però mi affaccio al balcone per godermi il tramonto, da lì si vede meglio. Giochi di luce sulle case, il paesaggio. Ho bisogno di poesia. Trovata.”…Sullo schermo davanti a me, un garbuglio colorato di luci, legate, intrecciate, si muove. Una ragnatela sensibile di luce mutevole, perché il sole si muove, l’aria si muove. Danzo la mia danza lenta…”( Muriel Rukeiser, L’artista del sole).
Ma il mio compagno accende la tv e la voce del giornalista rompe l’incanto, scendo in sala da pranzo. Un’altra terribile notizia: a Bergamo il numero dei morti è tale che non c’è più spazio nelle camere mortuarie e nei cimiteri. Il governo restringe ancora le misure di contenimento: le passeggiate solo entro duecento metri da casa, chiusi parchi e giardini. L’impatto del coronavirus sull’economia è drammatico. La Commissione Ue, messa alle strette, ha attivato la clausola di salvaguardia del Patto di stabilità che consentirà ai governi di ricevere tutto il denaro necessario per sostenere i cittadini e l’economia. Non è tutto: il numero di morti e casi positivi è cresciuto in modo esponenziale in Lombardia. Penso con ansia a mio fratello che vive a Milano e poi a mia sorella che sta a Parma.
Spengo la tv e mi accosto al fuoco del camino. Avverto un senso di calma e sacralità che evoca in me il ricordo delle letture sui riti del fuoco in onore di Estia, divinità greca del focolare. Case, templi e città, si narra nei miti, venivano consacrati con il fuoco della Dea, fonte di luce, calore, intima unione. Ma c’è qualcosa che le fiamme sembrano dire: “Vorrei che la mia anima ti fosse leggera, che la mia poesia ti fosse un ponte, sottile e saldo, bianco – sulle oscure voragini della terra” (Antonia Pozzi, Lieve Offerta).
Mentre scrivo sento lo scoppiettio del camino, un brusio di legna che brucia, socchiudo gli occhi e resto ad ascoltare senza fretta. Quel rumore rievoca in me il fragore del mare. Il mare, dovrò restare lontano per un po’. Chiudo ancora gli occhi. Il brusio pian piano si placa, così la fiammella, dovrò aggiungere un altro arbusto.
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