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Essere stati è una condizione per essere.

Braudel, 1987

La storia della cartografia ci insegna l’importanza e il ruolo fondamentale della rappresentazione delle frontiere e dei confini territoriali già a partire dal XVI secolo. D’altronde, le fortificazioni proteggevano il territorio e con esso l’idea di territorialità intesa come senso di appartenenza ad un luogo specifico, e la riproduzione sulle carte delle membrane di confine stabiliva – e stabilisce – visivamente fin dove si estendeva lo spazio, quindi il potere, dello Stato. Per spazio statale si intende alludere a quello unificato sotto la stessa egemonia, comprese le colonie formatesi tramite le conquiste oltremare, motivo per cui si sviluppa velocemente l’idea di una cartografia globale. Considerate basi concettuali fondamentali al progetto espansionistico dell’ impero, sacramentali quasi, le carte acquistano fin dalle proprie origini un ruolo cruciale, in quanto forniscono una forma visibile al potere dello stato, figlie dell’ambizione dei poteri statali in stretto rapporto alla curiosità scientifica.

La rappresentazione cartografica, che con il tempo si affina grazie all’avvento di nuove tecnologie della misurazione e del calcolo, riconosciuta, non a caso, perfino come arte, rientra a pieno titolo in quelle che sono le strategie narrative cui un’autorità statale si appella per manifestare ed imporre sé stessa tanto nella realtà che nell’immaginario delle comunità. Come si sa, la storiografia è da sempre indissolubilmente legata alle sue rappresentazioni, come le carte appunto, ma anche a tutte le  narrazioni che dei grandi eventi sono state proposte da chi la Storia è stato chiamato a scriverla. Quei popoli, dunque, che rientrano nella categoria dei vincitori, occultando quella fetta di Storia che appare diversa se narrata dai vinti.

Facendo un passo indietro, la presunta neutralità scientifica delle carte – che, come la Storia, neutrale non può esserlo – basate su un’attenta e precisa misurazione dello spazio, si fa in realtà strumento di riaffermazione della distanza e garante della gerarchia dei poteri, basandosi sulla capacità della geografia di tracciarne gli assetti 1. Il potere della geografia di determinare la spazialità dei poteri lascia riflettere sulla reale natura dell’area mediterranea: area socialmente, culturalmente e politicamente prodotta. Raccontare il Mediterraneo significa riconoscere quelle che sono le forze che imporrebbero – e hanno finora imposto – una narrazione specifica differente rispetto alle altre realtà storico-culturali che lo abitano. Un lavoro difficile se si pensa che anche solo adottando la denominazione «Mediterraneo» si abbraccia una di queste realtà a discapito delle altre; perchè infatti non chiamarlo Bahr al-Rum (il mare dei Romani) o al-Bahr al-Shami (il mare siriaco)? La storia del Mediterraneo lo rende una combinazione di processi storici e pratiche analitiche di origini culturali diverse, ma l’immagine che assume oggi è quella di paradiso marittimo ideale dove passare le vacanze, le cui caratteristiche climatiche e culinarie lo rendono unico al mondo.

Ciò che in tempi recenti ha bucato la perfezione di questo immaginario è l’arrivo, sempre più evidente in quanto mediatizzato al massimo, di migranti illegali proprio dal mare, quasi a testimonianza che è presente un’altra costa, un altro Mediterraneo, che nel corso del tempo e attraverso una diversa narrazione si è provato a cancellare. E’ in questo modo che la complessità della formazione storica e culturale del Mare Interno torna con tutta la sua forza e irruenza direttamente nel piatto di coloro che di fronte al mare si gustano una delle tante specialità culinarie del posto, stracciando quella geografia che aveva delineato precisi luoghi all’interno dei quali intere civiltà hanno costruito la loro storia mediterranea e la loro geografia. Recenti rivolte e lunghi conflitti all’interno del mondo arabo determinano l’emergere di altre mappe che rendono la geografia europea, che ha finora avuto l’illusione di inquadrare sé stessa e altre civiltà all’interno dei propri rigidi confini geopolitici, ormai inadeguata.

E’ necessario dunque insistere sull’importanza di andare oltre i confini nazionali di quella che è una  geo-storia molto più ampia e che si palesa in tutta la sua complessità davanti agli occhi di quella fetta di mondo – quella occidentale – che ha fino ad oggi dominato la rappresentazione mediterranea. Affermare che «lo spazio è storia»2 equivale ad affermare che non è semplicemente la storia che si verifica in uno spazio preciso, bensì che è tale spazio a conferire forma e sostanza alla storia stessa. Così il Mediterraneo abbandona quello che finora è stato un inquadramento statico determinato dalla diffusione di «narrazioni storiche approvate»3 e diviene esso stesso una storia.

Il Mare Interno non è uno spazio omogeneo e richiede l’adozione di molteplici punti di vista per poterlo comprendere nella sua complessità. L’ampiezza della storia mediterranea richiede di porre attenzione specifica ai limiti dei nostri linguaggi per poter superare una visione unilaterale, nello specifico eurocentrica, occidentale, che risponde al bisogno di esercitare sulle sue terre – e sulle sue acque – costante controllo. E’ necessario riscoprire una nuova genealogia distante da quella che rispecchia la volontà e la visione della civiltà europea, attingendo a quelle che sono le origini greche e mediterranee, «indigene», ed incontrare, incoraggiare, nuove geografie di comprensione4 che interrompono brutalmente la logica cronologica della narrazione storiografica e permettono di ricomporre tutti quei pezzi che restituiscono al passato la sua doverosa complessità.

Il diritto di narrare sembra sottostare a logiche di proprietà, fattore che spinge a chiedersi se la nostra memoria sia semplicemente il risultato di un ritaglio e ri-assemblaggio continuo, forte della tendenza a lasciar raccontare la storia dai vincitori, mai dai vinti. Il linguaggio è vulnerabile, precario, figlio del tempo e conseguenza del medesimo nelle sue modifiche: è necessario individuare i limiti dei nostri linguaggi per evidenziare le molte cose che sfuggono al nostro desiderio di inglobare il mondo. Il sociologo e antropologo I.M. Chambers insiste sulla necessità di operare un taglio nella narrazione dominante. I processi storici e culturali rendono il Mediterraneo un archivio vivente, aperto e costantemente in movimento. I saperi politici-egemonici che impongono una logica sullo spaziotempo degli altri evidenziano il problema di una scientificità presunta che finisce con il trascurare – se non addirittura nascondere – elementi scomodi in una specifica narrazione del potere.

Evidenziare i rapporti gerarchici che hanno consolidato il dominio occidentale sugli spazi, compreso il Mediterraneo significa, secondo le parole di Robert Young, critico culturale: «affrontare la divisione e l’inquadramento del pianeta non solo in termini di poteri economici e politici, ma anche nei termini culturali e filosofici che hanno consolidato il mito bianco della supremazia occidentale che sfocia inconsciamente in un razzismo strutturale»5. Analizzare il Mediterraneo mediante rapporti strutturali e processi piuttosto che tramite lo studio dei grandi eventi, porta a sfidare la piattezza della mappa trattando contemporaneamente con diverse dimensioni temporali; Il «mare è storia» 6 dunque, ed essa non può essere trattata adeguatamente se non si abbandona l’idea di una necessaria ed obbligatoria cronologia unica. Si intrecciano nel Mare Interno mappature multiple che registrano la specificità di una moltitudine di storie e Storie di diverse origini etniche e religiose, aventi differenze di classe e di genere; riconoscerle e registrarle all’interno della nostra Storia significa assumere un necessario – e oggi lo è più che mai – approccio transculturale e interdisciplinare.

La narrazione unilaterale legittima il presente, lo vincola, lo mantiene chiuso all’interno di determinate categorie di comprensione; l’assunzione di molteplici narrazioni invece apre altre categorie di pensiero che ne permettono la comprensione invece di una giustificazione. In questo modo, il Mediterraneo si trasforma in spazio critico della modernità, non più solo spazio storico, culturale, politico e geopolitico.

Tomba del Tuffatore

Chambers ritrova nella Tomba del Tuffatore, manufatto dell’arte funeraria greca, la prova dell’origine multietnica della civiltà mediterranea, celata all’interno di un sarcofago che sarebbe dovuto rimanere chiuso; il colore scuro della pelle del corpo maschile rappresentato sulla tavola sfida l’immaginario europeo della sacra famiglia e del tipico eroe greco, tutti rappresentati prestanti, giovani e soprattutto bianchi; il Tuffatore, magrolino, dalla pelle nera, scardina le presunte origini «ariane» del cuore mediterraneo lasciando – a chi vuol guardare – la possibilità di intravedere la realtà storica – costituita da brutali repressioni colonialiste – del violento insediamento politico europeo, colpevole di aver arbitrariamente sostituito le popolazioni indigene, imponendo un nuovo assetto politico e una nuova cultura.

Rinunciando a vedere nell’Europa l’inizio della civiltà, si comincia a comprendere che niente è iniziato in Europa, al contrario, che essa è il risultato di credenze, prodotti, frutti di culture, tecniche e terre extraeuropee, senza le quali oggi un’Europa non esisterebbe.


1 Gramsci, La questione meridionale, 2012. Per rivisitazioni più recenti del tema si rimanda a Cassano F., Zolo, D. (a cura di), L’alternativa mediterranea, Feltrinelli, Milano, 2007.

2 Carter, P., The Lie of the Land, Faber&Faber, London, 1996.

3 Chambers, I., Cariello, M., La questione mediterranea, Mondadori Education S. p. A., Milano, 2019.

4 id.

5 Young, R.J.C., White Mythologies, Routledge, London, 2004.

6 Walcott, D., The sea is History, in The Star-Apple Kingdom, 1979.

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