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Era il 1630 quando la Peste nera arrivò a Firenze, la stessa che colpì il centro e nord Italia tra il 1629 e il 1633 per spostarsi poi verso Napoli nel 1659, era la peste manzoniana dei I Promessi Sposi. Una tragedia immane, una pandemia che vide nella sola Firenze 10.000 morti, che diede spunto a un’arte che prometteva raffigurazioni più vere del vero. Con La peste di Gaetano Giulio Zumbo (1656-1701) nasceva la lunga e fortunata stagione della ceroplastica scientifica, un connubio arte-scienza, che ebbe in Italia i massimi rappresentati. Una tecnica destinata, per oltre due secoli ad avere un ruolo chiave nella conoscenza scientifica.
L’antica arte, in chiave rinnovata e moderna, può oggi rappresentare un’altra pandemia, quella da Covid -19 che dal marzo 2020 sta cambiando il nostro modo di esistere.

La ceroplastica o arte di modellare la cera affonda le suo origini nella cultura mediterranea. Erede di tradizioni millenarie che si perdono nella notte dei tempi, vide la sua applicazione nella divulgazione della cultura scientifica a partire dall’opera di Gaetano Giulio Zumbo considerato il primo ceroplasta scientifico. Nel museo de La Specola sono conservati i cosiddetti teatrini, rappresentazioni di morbi, diffusi e terribili, per i quali all’epoca non si conosceva cura. Fra questi il più celebre è La peste. Un manufatto realizzato probabilmente a Napoli e che lo Zumbo portò in Toscana alla corte di Cosimo III de’ Medici dove fu chiamato, intorno al 1691, per le sue doti di abile ceroplasta.

Un groviglio di morti, vecchi, giovani, bambini e un animale sono ammassati in una quinta architettonica. Sono gli appestati uccisi dal morbo e accatastati dai monatti. Un’immagine che si ripete nel 2020 a Bergamo, un’immagine diversa nella modernità ma uguale nel dramma. La colonna infinita di mezzi militari che trasporta madri, padri, figli, nonni per sepolture senza cerimonia funebre diventa lo scenario, la quinta scenografica della pandemia del XXI secolo.

La peste di Gaetano Giulio Zumbo

Assumono posizioni scomposte e disarticolate i morti dello Zumbo, colorazioni che variano dal giallognolo, di chi è appena morto, al verde scuro della decomposizione. La descrizione della morte è raccapricciante, cruda, tremendamente realistica. Non hanno volto, non hanno colore, i morti di Covid-19, i congiunti non li hanno visti nemmeno per l’ultimo saluto.

Con “la peste” di Giulio Gaetano Zumbo l’aspetto della malattia trovava concreta documentazione iconografica.  Successivamente, a partire dal ‘700 e per tutto l’800, si faceva sempre più strada l’esigenza di una conoscenza approfondita dei meccanismi fisici e del funzionamento del corpo umano. I morbi responsabili delle epidemie dell’epoca come il vaiolo e al peste trovarono allora naturale rappresentazione nelle cere degli istituti anatomici. Fra le più note quelle di Giuseppe Astorri (1795-1852) e Cesare Bettini (1801-1885) conservate presso il Museo delle Cere anatomiche Luigi Cattaneo di Bologna. Si tratta dei sintomi esteriori della malattia con effetti devastanti sui volti dei malati. Dallo scenario di paesaggio di morte dello Zumbo, di scenografia quasi teatrale, si passava, con le cere bolognesi, alla descrizione macroscopica e minuziosamente raffigurata dei sintomi esteriori.

Nel 1798 Edward Jenner realizzava il primo vaccino della storia. Nel 1897 Waldemar Haffkine metteva a punto il vaccino contro la peste. I morbi più terribili diventavano curabili mentre la ceroplastica scientifica più cruda, quella patologica, perdeva pian piano significato. Non ci fu un’evoluzione della ceroplastica capace di rappresentare i morbi nella loro più intima struttura microscopica. L’avvento della fotografia fece cadere in disuso quel tipo di rappresentazione.

I malati di Covid-19 non hanno sintomi esteriori, tali da essere bloccati nel tempo e nello spazio di una scultura, ma vengono minati dall’interno, da un virus di dimensioni infinitamente piccole. Può trovare nuovo slancio il connubio arte-scienza nella costruzione della memoria collettiva di una pandemia di epoca moderna?

In questi lunghissimi mesi del 2020 c’è un’immagine, trasmessa da tutti i media, che più di ogni altra è presente nella nostra mente: è il Coronavirus. Una sfera dalla superficie irregolare incorniciata da punte rosse che ricordano la corona sul capo di un re. Essa rappresenta la superficie esterna del virus che racchiude l’agglomerato virionico interno così come osservato al microscopio elettronico. Questa illustrazione è stata creata nel Centro Americano per il Controllo delle Malattie e Prevenzione (CDC). Le evidenti protuberanze in colore rosso rappresentano la proteina di punta, o spicola (spike), che emerge dall’involucro del virus all’interno del quale si trova il materiale genetico del patogeno. La proteina media l’aggancio e l’ingresso del virus nelle nostre cellule.

L’immagine realizzata dal CDC

L’immagine è stata realizzata con la tecnica della crio-microscopia elettronica. La tecnica consente di generare immagini e modelli tridimensionali rivelando processi su scala atomica che resterebbero altrimenti sconosciuti. Il microscopio elettronico è composto essenzialmente da componenti principali che ricordano il comune microscopio ottico, ma non utilizza come sorgente la luce bianca, bensì un fascio di elettroni. Se il campione da esaminare è di natura biologica, viene preventivamente congelato per impedire che possa essere danneggiato dal fascio di elettroni. Il potere di ingrandimento è di migliaia di volte superiore rispetto a quello dei tradizionali microscopi ottici.

La pandemia 2020 prende il volto del morbo, non più come sintomo, ma come entità biologica che riassume in sé l’evoluzione della scienza nelle tecniche di rappresentazione. Una rappresentazione sugli schermi di Tv, computer, tablet, cellulari lontana secoli dalle rappresentazioni in cera delle epidemie antiche. Una rappresentazione probabilmente destinata all’oblio quanto l’epidemia sarà dichiarata finita e nuove tecnologie affiancheranno la scienza.

E’ possibile bloccare nel tempo e nello spazio questa rappresentazione che costituisce vissuto comune? Ancora una volta, dopo oltre 200 anni dalla morte dell’ultimo grande ceroplasta scientifico, Egisto Tortori (1829-1893) la ceroplastica può scoprire rinnovato connubio con la scienza e rendere visibile ciò che l’occhio non vede, ciò che tutta l’umanità ha tragicamente vissuto e continua a vivere.

Lavorazione del modello in cera di Coronavirus (C. Delunas)

Prende così forma il modello tridimensionale del Coronavirus realizzato nella più autentica tradizione italiana della ceroplastica. Ricette antiche che mescolano cera d’api, cera carnauba, paraffina, coloranti minerali e gomma lacca in una forma sferica con le punte ormai nota.

Il modello del virus nella vetrina di un museo, un qualunque museo, costituisce tappa fondamentale della memoria di questo 2020 che mai ci saremmo aspettati. Quando i musei di tutto il mondo raccolgono testimonianze, foto e video sui mesi appena passati, una nuova vetrina viene allestita.

Una vetrina dove la sfera con le punte è volutamente isolata, come ciascuno di noi nel lockdown, trova la sua narrazione nella didascalia completa di codice QR che apre una pagina dedicata. Tutti possono lasciare la propria personale testimonianza che andrà ad arricchire un tipo di cultura che trova origine dagli utenti stessi. La ceroplastica diventa un passaggio alle tecnologie digitali che mai come nei mesi del Coronavirus sono entrate nel quotidiano.

Il primo modello realizzato in questa prospettiva prenderà dimora presso l’IGiRa, I Giacimenti Raccontano, percorso museale presso il DICAAR, Dipartimento di ingegneria Civile Ambientale Architettura, dell’Università degli Studi di Cagliari. Una pagina del sito internet dedicato sarà riservata alla raccolta delle testimonianze degli studenti, dei docenti e del personale tutto che hanno visto l’Università cambiare forse per sempre.

La rappresentazione tecnologica del Coronavirus è distante quattro secoli dalle prime rappresentazioni di un morbo, ma non per questo meno inquietante e destinata a raccontare una triste tappa del cammino dell’uomo che ha visto fino a oggi oltre 530.000 morti. Da questa immagine simbolo la ceroplastica può trovare oggi spunto per la narrazione di un altro passo della cultura scientifica, di un vissuto comune, di un cambiamento delle nostre abitudini che va oltre lo spazio chiuso di una vetrina, oltre il concetto di museo tradizionale per diventare memoria di ognuno di noi. La ceroplastica, oggi come allora, si presta a fissare nel tempo l’immagine del morbo, delle nostre paure, della fragilità umana e diventare documento di pandemia.

La ceroplastica è stata riproposta, dopo oltre due secoli, nei primi anni 2000 come tramite tra l’osservatore e la comunicazione museale in campo naturalistico. Alcuni allestimenti in musei universitari e naturalistico/territoriali hanno come fulcro narrativo modelli botanici, micologici, entomologici realizzati in cera in esposizioni di tipo tradizionale. Alla luce delle più recenti teorie musologiche e museografiche la ceroplastica si presta a un’evoluzione, nella comunicazione scientifica, che può connettersi con la tecnologia multimediale.
La pandemia del 2020, come la peste manzoniana, diventa il principio di una nuova stagione della ceroplastica che assume nuova veste nella comunicazione scientifica. Rendere tangibile l’infinitamente piccolo, ciò che gli antichi non poterono rappresentare per mancanza di tecnologia, è il ruolo che si prospetta per la moderna ceroplastica. I percorsi di conoscenza, alla luce del cambiamento indotto in maniera improvvisa dalla Covid-2019, non possono prescindere dalla connessione alla rete. Il modello all’interno di una vetrina può costituirne il “tasto” d’accesso a una cultura ormai irreversibilmente permeata da contenuti multimediali.

Immagine in evidenza: Modello in cera di Coronavirus (realizzazione C. Delunas)

16 thoughts on “Dalla peste alla Covid-19: la ceroplastica delle pandemie

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