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Il tracciato di ghiaia separava due Stati, distinguendo gli esseri umani in due categorie diverse. Non era una strada ma un muro, invisibile agli occhi eppure reso concreto dalla legge.
Khosravi, 2019

La contemporanea diffusione di quella che potremmo definire una psicosi della frontiera, indissolubilmente intrecciata alle modalità di narrazione e rappresentazione – politica, sociale, mediatica – dei fenomeni migratori, sembra sostenere la tesi condivisa da molti studiosi, secondo cui la volontà di fortificazione massiccia, espressione di un desiderio di protezione diffuso a livello popolare, incrementata e sostenuta da una retorica politica di carattere sensazionalista, non riesca a tenere il passo con quella che è la direzione di un mondo globalizzato oggi sempre più globale, il quale spinge verso l’abbattimento totale di ogni confine e la costruzione di nuove semiosi, verso il raggiungimento di una reale multiculturalità.

Il Mediterraneo racchiude quella che spesso è erroneamente definita un’unità culturale che altro non è una realtà multipla densa di differenti significatività che tra loro entrano in conflitto; il nostro mare, da un punto di vista occidentale, è oggi palcoscenico di specifiche narrazioni del confine e della frontiera, esse stesse creatrici artificiali di quelle differenze con le quali difficilmente riusciamo ad amalgamarci, determinando continui respingimenti di potenziali nuovi significati, trincerati come siamo dietro ai nostri muri.

Per comprendere i modi in cui i «nuovi muri» oggi operano nelle cornici contestuali e discorsive dei significati, e la potenza con la quale determinano lo scenario spaziale all’interno del quale sono generati, è necessario partire da un’analisi del contesto sociale, politico e culturale in cui vengono costruiti.

La sorprendente e sempre maggiore immaterialità che caratterizza le relazioni umane contemporanee rende evidente la natura paradossale dei confini cementificati: la loro consistenza materiale, che richiama un mondo e un potere premoderno molto diverso da quello che conosciamo oggi, difficilmente può relazionarsi con successo a tutto ciò che è virtuale, liquido direbbe Zygmunt Bauman 1, miniaturizzato;

I muri a cui l’umanità oggi è abituata sono di natura virtuale – costituiti dalla presenza di codici di accesso, filtri per la posta elettronica, sistemi automatici di chiusura e apertura per auto, case e uffici – e la materialità delle frontiere fortificate, delle barriere in cemento, dei rotoli di filo spinato, rimanda ad un’epoca antica, quella dei borghi medievali, dei castelli e dei fossati, che li rende estremamente anacronistici e oggettivamente inadatti a ricoprire il ruolo di protettori della cittadinanza di fronte alle minacce contemporanee costituite dalle armi chimiche e batteriologiche, dalle bombe intelligenti e dalle armi missilistiche.

La realtà alla quale assistiamo svela che dietro ai nuovi muri è, piuttosto, presente una volontà politica di combattere i sempre più frequenti movimenti di persone e oggetti, i quali hanno il potere di minacciare la stabilità socio-economica dello Stato.

In particolare a sentirsi minacciata è l’identità nazionale costituita da specifici valori e tradizioni che rischia di essere diluita dalle infiltrazioni etniche indotte dai flussi migratori.

In alcuni casi i nuovi muri sono efficaci, possono rallentare l’entrata di masse e gruppi sociali ritenuti pericolosi; ma molto più spesso appaiono come gesti spettacolari, segni di un fenomeno migratorio che spaventa ma che non può essere contenuto se non a fatica, e per brevi periodi di tempo.

Una spettacolarizzazione questa che risponde alle pance di gruppi di elettori, coloro sui quali una propaganda di efficace allarmismo funziona al punto da costruire nell’immaginario comune una sorta di mostro dell’invasione.

E’ il caso di aprire brevemente una parentesi sull’importanza del ruolo che in questo contesto come in altri assume la comunicazione, sul valore delle parole.

Nell’epoca della messaggistica istantanea l’informazione ha la possibilità di viaggiare ad una velocità senza precedenti e le informazioni distorte, le fake news, le dichiarazioni per così dire infelici hanno acquisito un enorme potere dettato proprio dalle nuove tempistiche.

In pochissimo tempo le parole sbagliate possono compromettere anni di sensibilizzazione al politically correct, così come al lavoro contro i pregiudizi e gli stereotipi, e possono creare importanti disagi ed elevata confusione a molte più persone rispetto ai tempi di una comunicazione più lenta.

Piuttosto caratteristico della comunicazione politica europea degli ultimi tre decenni è l’uso di espressioni iperboliche quali ondata, invasione di clandestini, un lessico al quale ci siamo assuefatti che si serve di un elevatissimo numero di metafore naturali e belliche come, ancora, tsunami umano o esodo biblico2.

Basti pensare ai difficili giorni nei quali siamo immersi, in cui la lotta al coronavirus, implacabile, viene continuamente associata dai vertici della politica nazionale ad una

vera e propria guerra, richiamando quegli schemi concettuali che culturalmente vengono associati al conflitto: la necessità di trincerarsi, di combattere, di resistere e, soprattutto, di restare al sicuro, nascosti dietro alle mura domestiche.

Per tornare al tema principale, nell’immaginario collettivo gli sbarchi sono l’emblema delle migrazioni irregolari ma, come sostiene la giornalista Raffaella Cosentino, nel 90% dei casi sono i risultati delle operazioni Sar (Search and Rescue) di soccorso in mare di migranti in pericolo di vita3.

Il risultato di una simile comunicazione è quello di far apparire dei profughi, di cui la maggior parte ottiene un permesso di soggiorno umanitario, come una minaccia da temere, tra l’altro dalle dimensioni molto più grandi di quelle che ha.

L’espressione «tsunami umano», citando ancora la Cosentino, usata per la prima volta nell’aprile 2011 dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha sfruttato il forte impatto emotivo che neanche un mese prima era stato generato dal reale tsunami che aveva colpito il Giappone. Le ondate sono potenti, distruttive, imprevedibili, inarrestabili, una metafora di tipo naturale dunque, scelta appositamente per suscitare specifiche emozioni di paura, angoscia e desiderio di protezione nella popolazione.

I salvataggi in mare sono quindi percepiti come una sciagura, come figli di una mancata responsabilità da parte dei governi o, addirittura, come azioni che presentano fini nascosti ancora più indicibili.

E’ dunque importante evidenziare quanto la comunicazione sia determinante nel generare quello che è un processo di teatralizzazione che rende i muri potenti alleati politici.

Le frontiere sempre più militarizzate, associate ad una propaganda politica di stampo allarmista, resuscitano l’immagine di uno Stato che, sostiene Wendy Brown, filosofa e professoressa di scienze politiche, «rafforza proprio le capacità di protezione e autodeterminazione messe in discussione sia dalle tecnologie del terrorismo sia dal

capitalismo neoliberista. Sono una rappresentazione virtuale di questa protezione e autodeterminazione, e più in generale della decisione e della capacità di azione che costituiscono l’autonomia politica propria della sovranità»4 .

I muri offrono conforto politico per problemi i quali non hanno facile soluzione o fenomeni, come l’immigrazione, fondamentalmente inarrestabili in quanto insiti nella natura umana.

Il confine fortificato, dunque, non si presenta semplicemente come una risposta ai crescenti nazionalismi o ad un più radicato razzismo che persiste nel fondo degli animi degli uomini, bensì è opinione diffusa che esso sia in grado di ri-attivarli e di mobilitarli, per contrastare quelli che sono realmente problemi di difficile gestione – e giustificazione – quali crisi economiche e politiche.

La teatralizzazione di una sovranità – territoriale – messa in ginocchio da un mondo sempre più globale , venduta come rigida, integra, ordinata e forte intensifica il senso di appartenenza nazionale che si riduce a nazionalismo offensivo, escludente e xenofobo che si traduce a sua volta nell’atto diffuso, severo e, se vogliamo, disperato di erigere muri sempre più alti.

1 Bauman, Z., Modernità liquida, Laterza, Bari, 2011.

2 Nel 2011 il racconto dell’evento mediatico degli sbarchi sull’isola di Lampedusa ha fatto ricorso a toni allarmistici ricchi di espressioni esagerate, come osserva una ricerca Msf/Osservatorio di Pavia. h ttps://www.osservatorio.it/

3 Cosentino, R., Immigrazione, in Redattore Sociale (a cura di), Parlare Civile, comunicare senza discriminare, Bruno Mondadori, Milano, 2013.

4 Brown, W., Stati murati, sovranità in declino, Laterza, Bari, 2013.

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