Il Made in Italy è attraente ed ha tantissimi ammiratori nel mondo, a dimostrazione che il nostro Paese piace ed all’Estero piace ciò che a noi italiani piace bere e mangiare. Per quanto si possa immaginare al Made in Italy come al frutto di una strepitosa campagna di marketing strategico, come quelle che il genio di Dino Villani sapeva condurre con successo, creando dal nulla San Valentino, la Festa della Mamma e la Colomba Pasquale, superbe macchinette dei soldi quasi alla pari con l’aspetto più laicamente consumista e sprecone del Natale, non è così. Il Made in Italy non è stato studiato dal fior fiore dei marketing strategist o da qualche branding manager e si vede:
i prodotti del Bel Paese sono eccellenti ma non si vendono da soli!
Sulla carta di identità di ogni italiano, alla voce segni particolari, ciascuno di noi dovrebbe portare scritto sul proprio documento “ambasciatore del territorio”: sarebbe un bellissimo sintomo di fierezza e appartenenza, amor di Patria e rispetto per le nostre tradizione, che sarebbe così buono e giusto da sbandierare che gioverebbe non solo all’unità nazionale ed alla nostra memoria collettiva ma farebbe bene anche ai nostri affari tanto in seno al mercato nazionale che all’export; tale senso di appartenenza sarebbe la materializzazione di un fronte comune efficacissimo contro le meschine regolamentazioni europee, i boicottaggi e le falsificazioni a danno della nostra Enogastronomia, che altri rivali non vede se non appunto la nostra incapacità a fare team building.
Ci vuole però onestà intellettuale, una visione davvero ampia e che guardi agli interessi comuni di imprenditori, consumatori e territorio.
Molti, troppi imprenditori sottovalutano le capacità comunicative degli uomini e delle donne che da anni si spendono in favore dell’Enogastronomia ed abbiano cognizione di ciò che sia un tessuto narrativo genuino ed al di sopra delle parti, che pratichino l’up selling e che sappiano indicizzare i contenuti redatti, collocandoli in quella parte del web dove l’attenzione selettiva del pubblico sia più alta e dove le possibilità di penetrazione del mercato siano maggiori. Però c’è ancora troppa ostinazione in giro a pensare che gli influencers siano più fighi, i followers non organici siano potenziali clienti e che si possa comprare la qualità della comunicazione con qualche bevuta o assaggio gratis, fatte salve le dovute eccezioni costituite da veri e propri specialisti del food & beverage management e del web marketing che si celano dietro questa affascinante categoria.
Per Carol Agostini il cibo è risorsa preziosa, veicolo di complicità, condivisione emotiva e fonte di appagamento sensoriale. Vicentina del ’75 è figlia di argentini, il papà, a sua volta figlio di immigrati veneti, decide di ritornare in Italia nel ’74 mettendo su famiglia ed aprendo un’attività commerciale. Cibo, vino ed idee sono gli ingredienti di questa tavolozza con la quale questa pasionaria riccioluta estrinseca la sua creatività e che nel 2004 è stata presidente dell’Associazione Artigiani del Mandamento di Marostica per la sezione metalli preziosi. Carol è uno spirito sbarazzino e cosmopolita, parla correttamente tre lingue grazie alle sue origini e ne mastica altre due per motivi di lavoro, ama il ballo di sala, che ha praticato da piccola, per la sua sensualità di movimento e armonia, per la musica in generale, per il contatto ed il controllo del proprio corpo e per il coinvolgimento dell’animo. Ama la compagnia degli animali ed infatti da 5 anni Paco Rabanne junior, un cane meticcio di taglia medie, è membro della famiglia. La sua per certi versi è una verve adolescenziale ed infatti tra i suoi film preferiti cita “Il Tempo delle Mele”, ma ama anche il genere fantascienza ed azione, tutti i film di Tom Cruise ed “Memorie di una Geisha”, libro compreso, però al momento debito assume tutti i tratti della mamma italiana, ricordando con ammirazione l’infinita abnegazione ed amore di sua madre per la famiglia, la quale costituisce tutt’oggi il suo primario modello di riferimento. Non di meno pratica il cucito creativo con sua suocera, passando pomeriggi interi a creare, sagomare e cucire, oltre che a cucinare assieme a lei preparando quantità industriali di lasagne, cannelloni e conserve di vario genere. Infatti tra i piatti che ama di più ci sono proprio le lasagne al forno della suocera Itala, l’insalata russa di sua madre Marta e le tiritas e l’asado alla brace che fa il padre Giuseppe e suo marito Alberto… e da qui si può ben capire da dove nasca la predilezione e le abilità culinarie di Carol che, valorizzando qualsiasi ingrediente indipendentemente dal territorio di origine, li trasforma con la cognizione della cucina italiana ed internazionale, cercando anche il giusto pairing. Ma lasciamo che sia lei a descriversi e a raccontarci della sua attività di assaggiatrice…
Qual è la descrizione più appropriata per un enogastronomo e le capacità umane e professionali che bisogna avere per poterlo fare?
Al giorno d’oggi si identifica e viene spesso definito più come una sorta di promotore di prodotti ma per me è molto di più: un enogastronomo è colui che valorizza le risorse promuovendo non soltanto la qualità autentica dei prodotti ma divulga le tradizioni culinarie e culturali e difende il territorio, favorendone lo sviluppo turistico e la conoscenza in esso racchiusa; deve poter essere l’anello di giunzione tra enti, associazioni, persone ed operatori del settore coi quali condivide la sua personale conoscenza e trasmette l’importanza di fare rete.
Da questo punto di vista la prima capacità umana è quella di essere sensibile rispetto al lavoro altrui ed ai sacrifici compiuti da chi è operatore di filiera, deve possedere spiccate doti comunicative, organizzative ed anche manuali all’occorrenza, se vuole essere in grado di creare un network territoriale a 360°. Non di meno bisogna avere un bagaglio tecnico e quindi conoscere l’informatica, la comunicazione attraverso i social, essere dei fotografi capaci di fare foto e riprese accattivanti, essere predisposti verso i diversi modelli di programmazione aziendale con tanto di nozioni di micro e macro economia, essere costantemente aggiornati sul trend del mercato turistico ed enogastronomico, sia in Italia che all’Estero, ed avere cognizione puntuale della ristorazione e dell’hospitality industry. A completare il quadro occorrono doti organizzative per la creazione di percorsi ed eventi a tema e la conoscenza delle lingue straniere.
Descrivici per favore una tua giornata tipo Carol…
La mia giornata inizia decisamente molto presto, prima dell’alba per essere precisi: faccio la casalinga dedicandomi alla casa e alla cucina, pianifico per forza di cose tutto il da farsi durante la giornata, seguendo con cura la famiglia… alle otto del mattino sono già operativa per dedicarmi a degustazioni ed assaggi, descritte tramite una scheda sensoriale, orientata anche su necessità commerciali che io stessa ho strutturato, dopodiché mi premuro di tradurre tutto ciò in un report corredato di fotografie.
Generalmente nel pomeriggio ad ogni vino assaggiato associo un piatto, creato in maniera spontanea e casalinga nella mia cucina, contenente gli ingredienti di cui stabilisco l’idoneità sia per la preparazione che per finalità commerciali. A questo piatto conferisco una presentazione estetica di modo che possa seguirne una foto aggraziata che metta in risalto il vino in abbinamento e le materie prime impiegate per eseguire la ricetta, immortalata in un video per descrivere tutti i passaggi.
In famiglia c’è una grande complicità ed ho un rapporto intenso e molto confidenziale con le mie figlie Emma e Nora che mi vedono come la loro migliore amica, ma devo anche riconoscere il grande sostegno di mio marito, sempre disposto ad incoraggiarmi ed al quale va il mio ringraziamento. Senza tutto questo una giornata effettivamente molto lunga ed impegnativa, sarebbe davvero più estenuante, senza contare i salti mortali che bisogna fare per trovare la giusta quadra quando ci sono le visite aziendali di mezzo.
Crollo molto presto, non sono certo un animale notturno… durante il fine settimana mi sposto in altre regioni italiane, alla ricerca di nuovi vini da assaggiare e selezionare, vado a provare i nuovi menù di chef che mi invitano, partecipo a fiere, eventi e manifestazioni di settore. Da molto anni sono accreditata a tutte le manifestazioni che riguardano l’enogastronomia, ospitalità compresa, come esperta enogastronomica e food and wine blogger, scrivendo anche per un magazine che si chiama Spaghetti Italiani oltre al mio blog, raccontando tutto quello che assaggio, qualche volta anche in radio web portando avanti uno spazio che si chiama “il viaggio degli umami” dove racconto tutto quello che faccio nel mondo del vino e della gastronomia.
Qual è stato il tuo primo approccio al mondo dell’enogastronomia, come ti sei avvicinata a questo mondo?
Cucino da molti anni, ho iniziato il mio percorso tecnico/formativo attraverso corsi sia a livello pratico di cucina, sia come sommelier. Ho iniziato coi primi concorsi enologici internazionali, come commissario, a ruota ho preso qualifiche di vario genere come maestro di cucina orientale, maestro di micro pasticceria e di cioccolateria artistica, fatto master specialistici in tecniche di cotture sottovuoto e di linea, conseguito altri certificati quali degustatore di cioccolato oltre a quello di sommelier come già detto.
Mi sono avvicinata a questo mondo per la passione per il cibo, ho voluto imparare, formarmi ed essere in grado di creare tutto quello che mi passava per la testa, a casa ho avuto un grande esempio: le mie nonne, donne dedite ai fornelli che altro non conoscevano se non l’amore per la cucina che mi hanno trasmesso sin da piccola.
Ed il tuo rapporto col vino in particolare?
il vino è stato un riflesso, avevo l’esigenza di sentirmi completa, volevo potermi esprimere a 360° senza tralasciare nessun dettaglio, nessuna conoscenza e nessun abbinamento possibile che esaltasse il cibo.
Il buon Ruggero Mazzilli sostiene la viticoltura sia un atto privato in luogo pubblico. Condividi questo pensiero? Come lo interpreti?
Ruggero Mazzilli è un bravo agronomo e porta avanti da tanti anni la filosofia della sostenibilità; interpreto questa frase come un invito al rispetto per la natura intesa come bene comune di tutti, spesso i nostri gesti, azioni e sfruttamento che sono atti privati aggrediscono, uccidono e demoliscono un bene comune. Si, condivido questo pensiero!
Recentemente si parla tanto di vino prodotto da vitigni resistenti. Non abbiamo forse ancora tanto lavoro da fare per avvalorare ciò che già esiste in natura?
È un argomento di tendenza in questo periodo e c’è ancora molta confusione intorno ai piwi: ricordiamo che la creazione di nuovi vitigni resistenti alle malattie fungine, attualmente volontà di alcuni produttori di ridurre l’uso dei pesticidi in vigna, vuole essere un’alternativa sensata alla protezione convenzionale delle colture intensive, ma soprattutto tesa a realizzare una viticoltura più sostenibile con lo scopo di proteggere l’ambiente; questo attraverso metodi di modificazione genetica dei vitigni tramite incroci pensando al futuro della propria vigna e territorio. Ho sentito e vissuto pareri discordanti in tutto ciò nel periodo estivo scorso, viaggiando per cantine in 11 regioni diverse per quasi 4 mesi e non mi sono ancora fatta un’idea chiara sulla validità concreta per la vite intesa come pianta, ma sulla validità organolettica del vino che ne scaturisce si: dopo vari assaggi comparativi ho riscontrato una maggiore intensità e complessità nei vini da vitigni piwi rispetto a quelli dello stesso vitigno non modificato, come ad esempio i vari clone di Cabernet. Resto comunque entusiasta rispetto ai vini da Solaris, Bronner e Prior.
È vero che c’è già molto da fare in vigna ma se questa sperimentazione, per alcuni una vera fede e filosofia produttiva, porta a dei benefici a 360° perché non tentare? Personalmente sono sempre aperta alla sperimentazione, a progetti di sviluppo ed innovazione nel bene e nel male: sono convinta che nella vita, quando si tenta e si fallisce, gli errori sono comunque fonti di crescita, si può sempre migliorare ed imparare da essi. Quel che conta di più è trovare soluzioni.
Che opinione hai del sistema piramidale dei disciplinari del vino qui in Italia? Non trovi che troppo spesso si mettano al di sopra del territorio senza il quale non avrebbero avuto ragione di esistere?
Sono un commissario enologico di concorsi nazionali ed internazionali, il mio operato è proprio quello di valutare i vini senza condizionamenti che riguardano la scala qualitativa teorica ma quella reale, a meno che la commissione non sia espressamente indirizzata alla costituzione di un nuovo disciplinare, allora sì che la mia degustazione diventa proiezione qualitativa basata sulle regole produttive richieste. Ritengo la sicurezza della filiera un tema molto serio come la garanzia della qualità del prodotto finito, come la valorizzazione di uno specifico territorio e la protezione di vitigni, specialmente di quelli autoctoni.
La piramide dei disciplinari con il tempo ha dimostrato la sua capacità di essere un parametro essenziale per le richieste di mercato in due direzioni: verso il consumatore finale e verso gli operatori, se non diventa strumento di potere. Il consumatore finale ha l’opportunità di scegliere tra prodotti base fino ad arrivare a quelli più pregiati, frutto di pratiche enologiche differenti man mano si sale di tipologia e con progressive restrizioni; l’operatore ne riconosce la tutela, accettando di rispettare le regole, o almeno così dovrebbe essere, che garantiscono autenticità, territorialità e spesso qualità.
Purtroppo alcuni disciplinari, spinti da fattori politici e commerciali, si mettono al di sopra del territorio stesso, componente principale di rilievo che reputo indispensabile per il rispetto della produttività e della qualità del prodotto stesso.
Robert Parker, James Suckling, Wine Spectator…ma obiettivamente ha ancora un senso attribuire un punteggio al vino e piegarlo all’omologazione dettata secondo il gusto di certi guru?
Secondo me i punteggi del vino resi pubblici non dovrebbero essere resi tali: se esposti diventano fonte di condizionamento commerciale invece di essere fonte trasparente e oggettiva di identificazione qualitativa.
Concordo sul fatto che diventano canale di omologazione dettata secondo il gusto di certi guru. Inoltre mi chiedo: il gusto di questi esperti è realmente il gusto della maggior parte di noi operatori o dei consumatori? Quanto concretamente ci si rispecchia in tale gusto e quanto veramente rappresentano un valore qualitativo per la massa? Per me hanno senso se attribuiti oggettivamente e senza creare e classifiche che condizionano il costo del vino e spingono agli acquisti. La gente dev’essere libera di sperimentare, basandosi al massimo solo sul valore descrittivo che identifica un prodotto con oggettività, come già detto prima
E cosa mi dici riguardo alle guide del mondo della ristorazione?
Per un periodo ho collaborato in questo settore, stando dietro le quinte, che esperienza! Con un nome fittizio e mansione non espressa pubblicamente, devo ammettere di aver fatto esperienze uniche e stimolanti, di crescita personale. Personalmente ora non le acquisto, non le leggo e non le seguo, preferisco sperimentare da sola, senza alcun condizionamento… le recensioni di settore neanche le leggo più. Conosco molti addetti ai lavori seri ed onesti, altri meno… sento racconti poco gradevoli spesso da chi opera nella ristorazione e tenta di entrare in alcune guide ma non mi sono mai presa la briga di approfondire più di tanto.
Non so attualmente quanto valore abbiano, il mondo è in evoluzione veloce, verso un digitale accanito che sforna social media pundits cioè “opinionisti dei social” che usano il loro account come se fosse una guida, dando punteggi, recensioni e posizionamenti su tutto ciò che mangiano e bevono, inclusi i locali che frequentano.
Sono immediate, sono più smart le loro recensioni rispetto a quelle delle guide, quanto però meno pilotate??? Lascio la riflessione aperta a tutti noi.
Concludo col dire che ormai tutti siamo diventati saccenti, tutti ci riteniamo all’altezza di commentare e giudicare senza alcuna qualifica, gavetta, esperienza e professionalità e questo sta danneggiando il vero scopo per cui sono nate le guide.
I prodotti agroalimentari e della gastronomia italiana sono inconfutabilmente di altissima qualità e riscuotono di una certa fama a livello internazionale, peccato però che non sempre godono di un buon posizionamento sul mercato? A cosa credi sia dovuto ciò?
Non sempre i prodotti agroalimentari italiani trovano posizionamento nel mercato secondo me e per alcuni motivi ben precisi, pur ricevendo il riconoscimento in quanto materie prime agricole e vitivinicole di pregio e di grande varietà perché: l’attività di comunicazione non è di forte determinazione, è una funzione complessa e richiede capacità manageriale ed investimenti ben precisi, spesso non sono alla portata delle imprese che operano nel settore agroalimentare.
La seconda motivazione è che le strategie a volte adottate per la valorizzazione commerciale da parte di produttori, o chi per essi, non si rivelano sempre ottimali e non forniscono valide garanzie ai consumatori, di conseguenza non assicurano un migliore posizionamento sui mercati né tanto meno chance o performance economiche agli operatori.
Il terzo motivo riguarda la mancata consapevolezza sui vincoli cui le aziende vien chiesto di sottoporsi da parte di buyers che chiedono delle garanzie specifiche in misura della loro legislazione sul cibo e sull’export in generale, quindi una scarsa conoscenza, il non volersi o potersi adeguare o entrambe. Le aziende per ultimo non fanno indagini di mercato sui competitors che già sono posizionati e presenti con un forte dinamismo, perdendo traccia della qualità dei prodotti preesistenti rispetto alla propria ed ignorare il trend di gradimento del consumatore medio.
Come vedono il mercato estero i nostri produttori e, soprattutto, come il mercato estero vede i produttori italiani?
Il Made in Italy è il brand più efficace e gratuito che esista, infatti non è nato da una campagna di marketing, quindi i prodotti italiani vengono visti come prodotti di eccellenza ed in alcuni paesi emergenti vengono considerati un vero e proprio status symbol, persino negli Emirati Arabi ove non c’è sempre una cultura tale da saperli apprezzare appieno. Purtroppo però i nostri prodotti sono quelli che subiscono più contraffazioni e falsificazioni all’estero e basta davvero poco a farlo: nomi dei prodotti leggermente modificati, tonalità dei colori nei loghi diverse, dichiarate poi in seguito come sfumature non identiche, la bandiera italiana posizionata sugli scaffali di prodotti ovviamente surrogati dei prodotti tutelati da marchio italiano e così via.
Inoltre sappiamo tutti che le produzioni di molti prodotti sono delocalizzate in paesi confinanti all’Italia e poi marcati Made in Italy, semplicemente perché vengono poi assemblati o imballati ed etichettati quindi in Italia.
Noto però che negli ultimi anni il consumatore finale estero è più attento, cerca il vero Made in Italy facendo ricerche attraverso i siti delle aziende produttrici e ciò sta creando una dinamica che non si basa più totalmente nel business delle quantità ma dalla distinzione del Vero dal falso, mettendo advisor, buyers e piattaforme commerciali nella condizione di operare con prodotti autentici.
Cosa cambieresti e cosa faresti per migliorare le cose?
Cosa farei? Per prima cosa metterei alla porta tutte quelle persone che speculano sul lavoro altrui, sui sacrifici e l’impegno degli altri, credo che l’individualismo e l’opportunismo siano il cancro del secolo, dopodiché farei una vera unione di interessi, di qualità, di formazione e di business. Come? Facendo squadra tra stato, enti, associazioni ed operatori.
Fin da subito alla costituzione di un’azienda metterei nella condizione i titolari di avere una base di formazione, strumenti di marketing, di comunicazione, di specializzazione, a costo zero per un periodo determinato, fino a quando questi abbiano acquisito tutti gli strumenti e canali necessari per affinare il loro prodotto, vendite, immagine, posizionamento.
In Italia a mio modesto parere manca il concetto di network che è solo utopico e a scopo di lucro giusto per chi ne fonda uno senza consentire la crescita degli altri. Purtroppo qui non abbiamo quasi più il valore e il concetto di squadra, di solidarietà e di altruismo… insomma il crescere assieme è un optional e lascia spazio con ben più frequenza all’egocentrismo ed all’interesse personale. Fare squadra tra aziende, associazioni, enti e stato invece può tutelare e garantire business e successo per chi è veramente meritevole e si impegna con reali prodotti Made in Italy, senza contraffazioni o falsi, ma lavoro e serietà.
Anche la nostra mentalità deve cambiare, basta fregare il prossimo, aiutiamoci e cresciamo assieme, facciamo squadra!
Un tuo sogno nel cassetto?
Ne ho due…
Sogno lavorativo: continuare a fare quello che sto facendo, aiutare con la mia professionalità le aziende che vengono a contatto con me, attraverso la mia formazione e network, capacità, canali di comunicazione e commerciali, creando continuamente squadre di lavoro, sensibilizzando le aziende verso la professionalità reale.
Sogno personale: continuare ad avere la forza e la determinazione per fare quanto scritto sopra, lottando contra l’avidità, l’arrivismo e l’individualismo.