Parliamo della lotta ai batteri più forti dei farmaci con il dr. Simone Ambretti, dell’Unità di Microbiologia al Policlinico di Sant’Orsola- Malpighi di Bologna
Ogni anno nell’Unione Europea muoiono 33 mila persone a causa di un’infezione perché gli antibiotici sono diventati meno efficaci o non funzionano più contro i batteri. Di questi decessi oltre 10 mila si registrano in Italia, secondo le stime del Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo della Malattie (ECDC), riportate dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA). Questo fenomeno prende il nome di antimicrobico-resistenza (AMR) di cui l’Italia presenta da tempo un quadro critico rispetto allo scenario europeo.
Facciamo il punto della situazione nel nostro Paese alla luce degli interventi istituzionali per fronteggiarla, con il dr. Simone Ambretti, (nella foto di copertina), dirigente medico dell’Unità di Microbiologia del Policlinico di Sant’Orsola-Malpighi di Bologna, dove svolge attività di sorveglianza e monitoraggio delle infezioni resistenti agli antimicrobici. Prima forniamo alcune utili informazioni sulla problematica.
Va detto che sono diversi anni che l’antimicrobico-resistenza allarma la comunità scientifica internazionale. La sua evoluzione porta l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) a inserirla nel 2019 nella lista delle 10 minacce alla salute globale. Il fenomeno interessa tutti i microbi responsabili di infezioni e le relative classi di farmaci, tra questi i batteri rappresentano la sfida più urgente per i Paesi di tutto il mondo. Perché la diffusione della resistenza batterica ha subìto un’accelerazione, che non è stata compensata dallo sviluppo di nuovi antibiotici contro i patogeni diventati resistenti a uno o più farmaci contemporaneamente.
Questo ha compromesso sensibilmente la capacità di guarire dalle infezioni batteriche, comprese le più comuni. In sostanza, la resistenza è una problematica con importanti implicazioni cliniche, le quali possono portare al collasso dei sistemi sanitari.
Com’è noto l’abilità dei batteri di avere la meglio sui farmaci è innata o può essere acquisita in seguito a mutazioni genetiche. L’aspetto cruciale della questione e che analizzeremo con il dr. Ambretti, risiede nel fatto che la resistenza batterica insorge più rapidamente e in forma più grave a causa dell’uso eccessivo e non corretto degli antibiotici, sia nella medicina umana che veterinaria.
Da quando è stato lanciato il primo allarme sulla resistenza, nei Paesi sono state avviate diverse iniziative, anche collettive, finalizzate a contenere il fenomeno.
Nel 2001 l’Italia attiva il “Sistema nazionale di sorveglianza dell’antibiotico-resistenza” sotto il coordinamento dell’Istituto Superiore di Sanità (AR-ISS). Ogni anno produce i dati sulla frequenza e sull’andamento della resistenza alle principali classi di antibiotici di un gruppo selezionato di batteri. Questi sono ritenuti rilevanti dal punto di vista clinico ed epidemiologico, poiché responsabili di infezioni sia in ambito ospedaliero che comunitario. I dati relativi a ogni patogeno confluiscono nella rete europea EARS- Net (European Antimicrobial Resistance Surveillance Network) coordinata dal già citato ECDC.
Nel 2017 il nostro Governo delibera il Piano Nazionale al Contrasto dell’Antimicrobico-Resistenza (PNCAR), valido per il triennio 2017-2020. Ciò avviene nell’ambito di una strategia europea che si allinea con l’iniziativa dell’OMS, il cosiddetto “Piano d’azione globale sulla resistenza antimicrobica” lanciato nel 2015. In sintesi, il nostro Piano puntava a ridurre e ottimizzare l’uso degli antibiotici sia nel settore umano che veterinario, sulla scia dell’approccio One Health sostenuto dalle autorità sanitarie internazionali, che considera in modo integrato la salute dell’uomo, degli animali e dell’ambiente. Il Piano prevedeva interventi coordinati e in più ambiti tra cui la prevenzione, la formazione rivolta ai professionisti sanitari e la comunicazione ai cittadini.
Dr. Ambretti, siamo giunti alla fine del triennio del PNCAR, approvato il 2 novembre 2017 in risposta alle sollecitazioni dell’OMS e dell’UE. Il documento suggerisce che l’Italia ha colto la sfida della lotta ai batteri resistenti. Tuttavia l’ultimo rapporto diffuso dalla sorveglianza nazionale, con i dati del 2019, rivela che i livelli della resistenza si mantengono alti e in alcuni casi in aumento. Secondo lei in quali aspetti del Piano siamo stati poco efficaci?
Il PNCAR è stato deliberato anche come risposta istituzionale ad una country visit svolta dall’ECDC nel nostro Paese all’inizio dello stesso anno di approvazione, per affrontare il tema dell’antimicrobico-resistenza. Le conclusioni tratte dagli esperti europei erano state molto severe nei confronti dell’approccio complessivo italiano verso la problematica. Il quadro descritto era estremamente preoccupante.
Il rapporto conclusivo, in particolare, faceva riferimento alla scarsa consapevolezza della reale rilevanza del tema e al fatto che gli alti livelli di resistenza, che da decenni caratterizzano l’Italia, fossero ormai considerati come un dato ineluttabile dagli stakeholder di tutto il sistema sanitario, con conseguente mancanza di supporto istituzionale a livello sia nazionale che regionale e locale. Pur non mancando esperienze locali virtuose, quello che risultava evidente era una mancanza di coordinamento delle attività.
A fronte di questo quadro, purtroppo in gran parte realistico, in primo luogo il PNCAR è servito a creare reti ed infrastrutture spesso mancanti in molte realtà. Per questo, anche se interventi significativi in alcuni ambiti, come la sorveglianza e l’uso degli antimicrobici in ambito animale, sono stati implementati rapidamente, il 2018 e il 2019 sono stati soprattutto impiegati per preparare e programmare gli interventi necessari. Purtroppo nel 2020, anno in cui molte delle attività pianificate avrebbero dovuto concretizzarsi, l’uragano pandemia Covid-19 ha spazzato via molti dei buoni propositi, assorbendo tutte le energie e le risorse di buona parte dei professionisti coinvolti. Così siamo arrivati alla fine del triennio e il nuovo PNCAR, che sarebbe dovuto uscire entro la fine 2020, non ha ancora visto la luce.
Lo scorso dicembre l’Agenzia Italiana del Farmaco pubblica il Rapporto Nazionale sul consumo degli antibiotici con i dati del 2019. Il nostro Paese si conferma tra i maggiori utilizzatori nell’UE. La prescrizione proviene in prevalenza dal medico di medicina generale e dal pediatra di libera scelta. Entrambi rivestono un ruolo centrale nel contrasto alla resistenza batterica, tuttavia le stesse autorità sanitarie rilevano che la prescrizione è spesso inappropriata, per esempio nelle affezioni delle vie urinarie e respiratorie. Un’ osservazione che viene mossa ai medici di comunità è quella di prescrivere, in alcuni casi, per soddisfare le aspettative dei pazienti. Considerato questo scenario, secondo lei come bisogna intervenire nella medicina del territorio, affinché mantenga efficacemente il ruolo di filtro dell’AMR?
I medici di medicina generale e i pediatri di libera scelta, hanno indubbiamente un ruolo fondamentale sull’utilizzo corretto dei farmaci antimicrobici in comunità. Essi devono essere supportati in modo appropriato per consentire loro di svolgere questo difficile compito nel modo migliore. Ritengo che la chiave sia coinvolgerli costantemente con una formazione specifica, ma anche fornirgli degli strumenti concreti per rendere il loro complesso lavoro più affrontabile.
Porto ad esempio un progetto ormai storico implementato in Regione Emilia-Romagna, il cosiddetto ProBA (Progetto Bambini Antibiotici). Attraverso un forte coinvolgimento dei pediatri, lo sviluppo di linee guida per la gestione delle principali infezioni in età pediatrica e un’importante formazione, ha ottenuto risultati estremamente positivi in termini di riduzione delle resistenze e di miglioramento dell’appropriatezza prescrittiva di antibiotici sistemici ossia circa il 40% dal 2009 al 2017.
Fondamentali sono anche le campagne di comunicazione per la popolazione generale, proprio per ridurre l’impatto negativo degli antibiotici prescritti per “accontentare” pazienti o genitori troppo insistenti nel pretendere il farmaco anche quando non ce ne sia la reale necessità.
Le conoscenze degli italiani sugli antibiotici e sulla resistenza batterica sono al centro di uno studio del Censis, condotto nel 2019 come attività prevista dal PNCAR. Il quadro generale che ne è emerso assolve i cittadini dai comportamenti che favoriscono l’AMR, la quale è nota ad un italiano su due. La maggior parte dichiara di assumere gli antibiotici su raccomandazione o prescrizione del medico (96,3%). Le cause dell’AMR sono individuate con percentuali molto alte: ad esempio “l’assunzione della terapia senza rispettare le indicazioni del medico” è un comportamento a rischio molto/abbastanza importante per l’88,4% dei rispondenti. E il 77,9% ritiene un comportamento a rischio “l’impiego di antibiotici per trattare l’influenza, il raffreddore o altre infezioni virali”.
Le chiedo un commento su questi dati.
Al di là di questi dati che possono essere più o meno verosimili, credo che complessivamente nel nostro Paese ci sia ancora una scarsa consapevolezza della reale rilevanza del tema AMR. Purtroppo, storicamente, come evidenziato anche dagli esperti dell’ECDC nella country visit del 2017, non abbiamo dato il giusto peso al fenomeno. Ciò ha avuto delle ripercussioni negative non solo sulla percezione del problema da parte degli operatori sanitari, ma anche in termini di informazione alla popolazione generale sull’argomento. Per recuperare il tempo perduto, quindi, è fondamentale ancora più che in altri Stati, intervenire in modo incisivo con campagne di comunicazione mirate che raggiungano ogni fascia di popolazione.
Certamente negli ultimi anni qualcosa in più si è fatto, anche a seguito della pubblicazione del PNCAR. E’ stata realizzata la campagna di comunicazione Antibiotici sì, ma con cautela un progetto collaborativo tra Agenzia Italiana del Farmaco, Istituto Superiore di Sanità e Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, così come varie iniziative vengono annualmente proposte il 18 novembre quando ricorre la “Giornata europea degli antibiotici” nell’ambito della Settimana mondiale della consapevolezza antimicrobica (World Antimicrobial Awareness Week – WAAW) promossa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ribadisco però che l’aspetto relativo alla comunicazione è assolutamente fondamentale, rappresenta un elemento cruciale nella lotta all’ AMR e va ulteriormente potenziato.
La lotta all’antimicrobico-resistenza è una sfida quotidiana negli ospedali per il suo forte impatto sia clinico che economico. Secondo i dati istituzionali il 75% delle infezioni resistenti ai farmaci riguarda proprio l’ambito assistenziale. L’ECDC dichiara che il 50% di tutti gli antibiotici utilizzati negli ospedali potrebbe essere inappropriato. Tra gli operatori sanitari, inoltre, viene rilevata poca consapevolezza dei princìpi base dell’igiene delle mani, è quanto riferisce il report di autovalutazione del primo anno di attività del PNCAR.
In questo ambito tra le strategie utili per contrastare l’antibiotico-resistenza viene citata la antimcrobial stewardship. Può spiegarci dicosa si tratta?
Si intende un insieme di interventi coordinati e finalizzati ad indirizzare un utilizzo appropriato degli antimicrobici. Non si tratta solo di usare meno gli antibiotici, ma soprattutto di usarli meglio, in termini di scelta del farmaco, del giusto dosaggio, della modalità di somministrazione più corretta e della durata della terapia più appropriata. Una gestione di questo tipo è fondamentale per minimizzare gli effetti negativi potenzialmente legati all’utilizzo di questi farmaci. Per questo motivo l’antimicrobial stewardship viene considerato come uno dei due principali strumenti di lotta all’antimicrobico-resistenza.
Qual è lo scenario italiano in riferimento all’applicazione di questo prezioso strumento?
Non c’è un modello univoco di applicazione delle strategie di antimicrobial stewardship. Ogni realtà deve sviluppare la propria soluzione ottimale valutando quelle che sono le risorse umane disponibili, le esigenze formative dei professionisti, il contesto organizzativo ed epidemiologico.
Certamente gli elementi cardine di ogni programma sono ben noti e caratterizzati, e rientrano nelle competenze peculiari di tre figure professionali. Gli infettivologi, come massimi esperti di terapia anti-infettiva, hanno la responsabilità di dover governare l’utilizzo di questa risorsa preziosa, anche fornendo consulenza e formazione a tutti gli altri medici prescrittori. I farmacisti non devono essere visti solo come contabili che mirano al contenimento dei costi, ma devono rappresentare un valido supporto per ottimizzare le terapie e monitorare i consumi da un punto di vista qualitativo. I microbiologi con la loro attività diagnostica e di sorveglianza epidemiologica devono indirizzare un utilizzo più appropriato degli antimicrobici.
Qual è il secondo strumento di contrasto all’antimicrobico-resistenza?
Sono le strategie di “infection control”, a partire dall’adesione alle corrette pratiche di igiene delle mani. Gli organismi antibiotico-resistenti che si possono generare in seguito ad un utilizzo non corretto degli antibiotici, possono disseminarsi, soprattutto in ambito ospedaliero, quando le norme igieniche non vengono rispettate.
Il PNCAR prevede nel settore veterinario la maggior riduzione dell’uso di antimicrobici. L’obiettivo è tutelare la sicurezza e il benessere degli animali sia da allevamento che da compagnia e in considerazione delle ripercussioni sulla salute umana. In questo ambito lo scenario è complesso. In particolare, la zootecnia è stata per lungo tempo additata come la principale responsabile dell’AMR. Ma gli stessi rappresentanti del settore dichiarano che l’uso di antimicrobici negli allevamenti è ormai limitato ai casi di effettiva necessità. Qualcuno precisa che il divieto assoluto è una strada impraticabile per ragioni sanitarie ed economiche, chi lo dichiara al consumatore in realtà persegue logiche commerciali. Altri sostengono che bisogna puntare maggiormente sui vaccini.
Ciò detto potrebbe illustrarci le evidenze scientifiche sulla trasmissione all’uomo di batteri resistenti attraverso gli animali?
Indubbiamente oggi l’approccio One Health è fondamentale per affrontare la problematica AMR e l’utilizzo degli antibiotici in ambito veterinario è certamente uno dei fattori da non sottovalutare, per l’impatto significativo e multifattoriale sulla diffusione delle resistenze.
I patogeni antibiotico-resistenti che si originano negli animali si possono trasmettere all’uomo attraverso il cibo e per contatto diretto. Ci sono quindi categorie professionali più esposte a questo rischio, senza dimenticare il potenziale veicolo che anche gli animali da compagnia possono rappresentare. Inoltre i microrganismi presenti negli animali vengono eliminati con urine e soprattutto feci contaminando potenzialmente l’ambiente, che può anch’esso diventare un serbatoio per la diffusione dell’AMR.
Per fare un esempio del potenziale impatto delle resistenze originate negli animali come conseguenza dell’uso/abuso degli antibiotici, ricordo la storia del gene di resistenza mcr-1, la cui scoperta qualche anno fa ha avuto notevole risalto mediatico. Si tratta di un elemento genetico che determina resistenza alla colistina, farmaco particolarmente prezioso in quanto rappresenta spesso una delle ultime armi terapeutiche nei confronti dei batteri gram-negativi multi-resistenti. Questo gene, albergato in un plasmide, aspetto che ne aumenta la capacità di diffusione e quindi la pericolosità, è stato inizialmente riscontrato in isolati batterici di origine animale, per poi passare dagli animali da allevamento all’uomo.
Non a caso la riduzione dell’uso veterinario di colistina rientra tra gli obiettivi del PNCAR ed in generale, per quanto possibile, bisognerebbe cercare di limitare l’utilizzo negli animali di antimicrobici che hanno un ruolo rilevante nella pratica clinica in ambito umano.
Il PNCAR identifica l’antimicrobico-resistenza come un’area prioritaria per la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci. Tuttavia questo ambito sembra poco attrattivo per l’industria farmaceutica sia per i tempi lunghi della ricerca sia per gli oneri finanziari. C’è chi osserva che i batteri, presto o tardi, diventeranno resistenti anche ai nuovi antibiotici per l’uso o abuso che ne facciamo e come conseguenza del processo evolutivo dei microbi.
Lo scenario suscita pessimismo. Cosa può dirci al riguardo?
Lo sviluppo di nuovi antimicrobici non rappresenta per l’industria farmaceutica un tema di interesse prioritario, quantomeno dal punto di vista finanziario. Questo ha portato come conseguenza il progressivo rallentamento nel corso degli anni del ritmo con cui i nuovi antibiotici venivano immessi in commercio. Tra il 1990 e il 2010 il numero di nuove molecole di reale impatto nella pratica clinica sviluppate si può contare sulle dita di una mano e questo a fronte di una esplosione nella diffusione degli organismi multi-drug resistant. La situazione è lievemente migliorata negli ultimi anni poiché l’AMR ha raggiunto livelli di criticità tali da far riprendere almeno in parte l’interesse per lo sviluppo di nuovi antimicrobici, anche grazie all’impegno delle istituzioni per promuovere questo tipo di ricerca. Sono state infatti attivate diverse iniziative di collaborazione internazionale tra pubblico e privato, tra le quali ad esempio il programma New Drugs for Bad Bugs (ND4BB) che si basa su una partnership tra la Commissione europea e la Federazione europea delle industrie e associazioni farmaceutiche (EFPIA).
Siamo giunti all’ultima domanda. La pandemia COVID-19 ha fatto emergere le criticità presenti nel nostro Paese in termini di prevenzione, gestione delle emergenze sanitarie e delle risorse per combatterle. Concludiamo la nostra analisi sull’AMR lanciando uno sguardo al futuro: lei quale percorso suggerisce per vincere la lotta ai batteri resistenti?
Certamente non bisogna perseverare nell’errore di sottovalutare l’AMR, pensando che i nuovi antibiotici possano essere la soluzione di tutti i problemi. L’Italia è in una situazione di endemia, cioè di presenza costante e significativa, per i principali patogeni multi-drug resistant che dura ormai da decenni. Se ci limitiamo agli enterobatteri produttori di carbapenemasi (CPE), che rappresentano attualmente la principale minaccia globale, il nostro Paese è endemico ormai da oltre 10 anni, con molte epidemie di grande rilevanza, come quella avvenuta a partire dal 2018 in Toscana, sostenuta da ceppi produttori di NDM, la cosiddetta New Dehli metallo-beta lattamasi.
La lotta all’AMR non si combatte con la logica dell’emergenza bensì con un impegno continuo e costante negli anni. Non dobbiamo pensare che ormai sia troppo tardi per ottenere dei risultati. Porto l’esempio della Gran Bretagna, che nei primi anni 2000 aveva raggiunto dei livelli di prevalenza di Staphylococcus aureus meticillino resistente (MRSA) perfino più elevati di quelli italiani. Ma con una politica specifica di sorveglianza e controllo del fenomeno ha ottenuto risultati straordinari nell’arco di pochi anni, riducendo in modo significativo il numero di casi, la mortalità e anche le spese correlate.
Infatti è bene sottolineare che l’AMR è anche un fenomeno con un elevato impatto economico in cui le nazioni che più hanno speso e spendono in prevenzione, più risparmiano in termini di costi sanitari e sociali. Quindi, per concludere la mia risposta, la gestione del rischio legato all’AMR richiede certamente di programmare ma anche di investire in prevenzione con risorse dedicate, se si vogliono ottenere risultati importanti e duraturi. Da questo punto di vista il PNCAR 2017-2020 non forniva alcun tipo di risposta. Mi auguro che il nuovo piano nazionale rappresenti un salto in avanti anche in questi termini.
L’analisi compiuta con il dr. Ambretti sottolinea che la lotta all’antimicrobico-resistenza richiede l’integrazione e il coordinamento delle attività, nell’ottica dell’approccio multidisciplinare e multisettoriale previsto dal PNCAR. Nonostante le premesse, i dati dicono che finora tale approccio non è pienamente realizzato. Certamente la pandemia COVID-19 ha giocato un ruolo determinante, tuttavia non sfuggono le origini più lontane della problematica dibattuta. Tra l’altro esiste una relazione tra i due fenomeni, ben illustrata in questo articolo pubblicato sugli Annali dell’Istituto Superiore di Sanità.
Per recuperare il tempo perduto nel contrasto alla resistenza batterica, il dr.Ambretti delinea un percorso da seguire con costanza e tracciato da due elementi utili ad aumentare la consapevolezza della rilevanza del fenomeno. Il primo è la formazione ai professionisti sanitari che tenga conto dei ruoli e delle specificità del contesto lavorativo. Il secondo strumento è la comunicazione a ogni fascia della popolazione. Insieme e se ben strutturate contribuiscono a prevenire il risveglio in un mondo senza antibiotici efficaci. Cosa comporterebbe viverci ormai è chiaro.