Il dono di natale, Grazia Deledda
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(…) Nella tetra nottata che quest’algido / vespro predice, Tu discenderai, / alba cristiana di splendore e gioia, /Gesù Bambino? / Se scendi io resterò quassù nel gelido / vano del mio balcone ad aspettarti, / e quando luminoso passerai / davanti a me, ti dirò con le tese mani supplici:/ per quest’anno, Gesù, quest’anno scendi, / ne le capanne desolate e / oscure / e negli ovili /dei pastori che primi ti cantarono/ L’osanna; scendi e guarda; tu lo sai / che l’uragano d’ieri ha pur disperso / le loro greggi. (Vigilia di Natale di Grazia Deledda)

Sono trascorsi 150 anni dalla sua nascita, ed è con questi versi che inizierò a parlare di lei. Siamo alla Vigilia di Natale e la forza implacabile della natura questa volta si scaglia proprio contro coloro, i pastori, che furono i primi, così narrano le Sacre Scritture, a celebrare la venuta del Salvatore: questa è la vita, sembra dire la poetessa, con quel sentimento di accettazione delle cose e degli eventi che la caratterizzano, animato però, da una profonda fede e umanità, dalla speranza che la preghiera sarà esaudita. La scrittrice osserva, analizza, scorge le imperfezioni del mondo, legge il dolore, le sofferenze degli esseri umani in continua lotta tra bene e male. “Solo chi conosce la grazia di Dio non teme il proprio destino, segnato dal senso di precarietà e caducità di tutte le cose (”uomini siamo, Elias, uomini fragili come canne”)”, spiega Dino Manca, professore di Filologia della letteratura italiana all’Università degli Studi di Sassari, dove insegna anche Linguistica italiana e Letteratura e filologia in Sardegna.

(…) Era, dunque, la Vigilia di Natale: una giornata grigia, annuvolata, ma tiepida, spirava anzi un vento di levante che portava il lontano e snervante tepore del deserto e come un umido odore di mare…le campane suonavano a festa…la gente girava per strade e per le case, ideando come riunirsi per festeggiare il Natale. (…) (da Mentre soffia il Levante)

Porchetti, dolci, frutta secca, e latte di vacca appena munto erano i doni di Natale, al tempo si usava così. Deledda amava descrivere le usanze e tradizioni del suo paese. Una passione quasi documentaristica. Secondo una nota leggenda nuorese, il corpo di chi nasceva durante la Vigilia di Natale, non si sarebbe mai decomposto, sarebbe arrivato intatto fino al giorno del Giudizio Universale. E di questi argomenti nella presente novella si si suole cantare, sono i canti a disputas, dialoghi in versi estemporanei, gare poetiche.

Dopo i preparativi per la cena, ci si recava alla messa di mezzanotte, camminando per le buie e strette strade del paese, soltanto dopo iniziava il banchetto, seduti sulle stuoie. Per l’occasione venivano preparate abbondanti porzioni di pasta fresca, porchetto arrosto e dolci. Vi era inoltre un’antica consuetudine secondo la quale, il fidanzato, nelle occasioni solenni come il Natale, dovesse regalare alla donna un piccolo maiale e una moneta d’oro, e che i due innamorati dovessero stare distanti l’uno dall’altro, in segno di decoro e rispetto.

Le donne dopo la cena dovevano ritirarsi nelle loro stanze, mentre gli uomini si trattenevano a bere e dedicavano alle gare poetiche, cantando e ridendo anche su un noto detto popolare “S’omine cando est bezzu no est bonu…”.

Gli uomini, dunque, come in tutte le famiglie patriarcali, continuavano la festa tra canti e bevute, noti etiliche e goliardiche, durante le quali poteva capitare di tutto, anche che un servo confessasse al proprio padrone l’inconfessabile, ovvero l’amore proibito verso la figlia. (da La via del Male). Sposare un uomo o una donna di provenienza sociale inferiore, era considerato un disonore. Brutta fine farà chi, travolto da una passione accecante, finirà col scegliere la via del male. “Dovrà sopportare il peso della colpa e l’angoscia del naufrago sospeso sull’”abisso del nulla””.

E poi c’era un rito che accompagnava quella magica notte, per accogliere i morti che, così si credeva, tornassero a visitare le case durante la vigilia del Natale, si preparava loro un piatto di vivande e un boccale di vino.

Non tutti però potevano festeggiare il Natale con abbondanza di cibo e al riparo dal freddo nelle proprie abitazioni: “(…) Mio padre era pastore di porci, e stava fuori tutto l’anno, ma per il giorno di Pasqua e Natale voleva tornare in paese. Finché fui piccolo io, egli in quei giorni faceva custodire il gregge a un servo; ma appena potei aiutarlo io egli mi condusse all’ovile, e la notte di Natale mi toccava di stare lassù…”, ( da Il vecchio Moisè).

Non a tutti è dunque concessa la festa, e non tutti hanno le stesse possibilità. E’ naturale chiedersi che cosa pensasse la premio Nobel delle disuguaglianze sociali, delle condizioni di svantaggio economico, di bisogno e di emancipazione, se intravedeva la possibilità di una giustizia sociale. “La giustizia come principio regolativo dell’esperienza intra e interindividuale per la Deledda dovrebbe penetrare nella definizione stessa del diritto e poggiare su una moralità cristiana. Per la scrittrice la giustizia umana è fallace, imperfetta, non di rado causa di ingiustizia, quella divina è ordinatrice e risolutiva”. “Chi va su, (in cima all’albero della cuccagna), con le falci attaccate ai piedi arriva dove vuole; chi cerca di arrampicarsi a piedi scalzi, scivola malamente! Basta; Speriamo vi sia almeno giustizia nell’altro mondo: in questa non ce n’è davvero.” (da La Via del male)

Ho una grande pietà, una infinita misericordia per tutti gli errori e le debolezze umane (…) Per me non esiste il peccato, esiste solo il peccatore, degno di pietà perché nato con un suo destino sulle spalle. (Lettera di G. Deledda a Monsieur L. De Laigne, Consul General de France, da Roma a Trieste, 17 gennaio 1905. cfr. Ciusa Romagna 1959 p.87)

” Anche questo avvertito senso del limite e questo sentimento di pietà cristiana rendono la Deledda una grande donna prima ancora che una grande scrittrice”, conclude l’accademico. Pubblicato anche su www.horealizzatounsogno.it

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