Di Abou EL Alaa Dabboussi
Nel quadro della letteratura testimoniale sull’immigrazione in Italia ho scelto il testo di un immigrato marocchino, Chiamatemi Ali, scritto da Mohamed Bouchane (pubblicato in collaborazione con due giornalisti italiani: De Girolamo e Miccione nel 1991) è una sorta di diario che registra lo sconfortante scarto tra l’ottimismo con cui il protagonista immaginava il suo viaggio in Occidente, e la pessima esperienza in Italia. Bouchane arriva a Milano nel 1989, dopo studi di biologia a Rabat, convinto di trovare libertà e benessere, e si trova costretto a dormire in automobili abbandonate e a fare lavori umilissimi e mal pagati: diventa un clandestino emarginato e rifiutato dalla maggior parte degli Italiani, ciò che lo sorregge in questo momento molto difficile della sua vita è la fede (addirittura l’incipit del romanzo è «Nel nome di Allah Clemente e Misericordioso»).
Bouchane riesce a mantenere una certa dose di equilibrio e di pace interiore anche nelle avversità, perché è sicuro dell’amore di Allah, e nei centri islamici di Milano trova quella solidarietà che altrove gli è negata. Come tutti i migranti alle prese con una cultura diversa da quella di origine, si sente a volte spaesato, e l’Islam più di ogni altra cosa rappresenta per lui un punto fermo dell’identità personale e culturale.
In Chiamatemi Ali, l’autore racconta la sua esperienza di viaggio/migrazione in Italia, mettendo in scena i suoi incontri, i suoi pensieri, le sue difficoltà di inserimento nel Paese. Il libro è una testimonianza a più livelli: la ’contrattazione’ quotidiana dell’esistenza con vari soggetti, la rappresentazione entro il diario di scambi epistolari con i parenti; la cooperazione per la scrittura in italiano con i due giornalisti milanesi che spesso è anche ‘traduzione’ ed infine la ‘ricostruzione dialogica’ basata sulla capacità comparativa del lettore italiano di cogliere l’uguale e il diverso nel viaggio migratorio di Bouchane. In questa ulteriore cooperazione dialogica al testo è possibile esperire anche un’antropologia che fa vedere allo specchio il popolo italiano.
Fin dal titolo del diario di Bouchane l’intenzione dialogica è ben marcata : ‘Chiamatemi’ è un’espressione genericamente indirizzata agli ’Italiani’, che si basa su una vicenda interna all’esperienza di lavoro in Italia:
«E’ arrivato il solito problema della pronuncia del mio nome… il principale non riesce a chiamarmi Mohamed: si confonde, pasticcia, si ferma, lo storpia. Ho cosi sfoderato il mio « secondo nome » (creato appositamente da quando sono in Italia, perché prima non sapevo di averlo) : « Chiamatemi Alì ». Cosi è tutto più semplice»1
Alì è infatti un soprannome di gruppo, un blasone, un nomignolo, stereotipo per indicare tutti gli arabi (sostituito dal più stigmatizzante ‘vu cumprà).
Ma l’altro aspetto significativo è che Bouchane ci porta verso un problema fortemente italiano, e cioè la difficoltà di comprendere -entro l’emigrazione- chi è portatore di una cultura religiosa islamica.
L’autore, all’interno della cultura marocchina di tradizione islamica, esplora il mondo italiano e cristiano praticando nel diario una sorta di comparazione interna tra i differenti modi di vita.
Il testo evidenzia un processo di riappropriazione dell’identità attraverso il recupero della dimensione religiosa. Questa esperienza dell’autore del diario non vuol qui essere considerata rappresentativa di altri percorsi migratori, ma significativa in sé. Il problema di comprendere, nel quadro multiculturale, la varietà di percorsi individuali e di riferimenti religiosi è stato segnalato fin dai primi studi sull’immigrazione in Italia (IRES,1991), ma è più spesso accaduto che l’antropologia tendesse a separare la cultura dalla religione: di conseguenza gli studi sul mondo dell’emigrazione oscillano tra gli aspetti socioeconomici e giuridici e sulle manifestazioni etniche di gruppo, o la psicopatologia del disagio, senza forti analisi sulle ‘routines’ di vita e sui temi religiosi in questo quadro.
Il racconto di Bouchane sollecita invece nel lettore un rincorporamento di tutti questi aspetti. In questa riconnessione di molteplici aspetti del quotidiano è la ricchezza del testo e, per ciò che riguarda la religione, nel proporre varie tipologie del rapporto immigrati – religione. Nel suo diario Bouchane va oltre il sentiment religieux di cui parla Déjeux (1986) a proposito della letteratura maghrebina di lingua francese, e si spinge nella direzione del recupero della funzione sacerdotale e della teologia praticata, lanciando così una sfida ulteriore alla comprensione di un mondo fortemente laicizzato come quello Occidentale. Il testo permette di riflettere sulla difficile operazione della ricerca di una nuova identità ‘dislocata’, che non fa più riferimento esclusivo al ‘luogo’, ma a tutta una serie di legami transnazionali che rimandano alla dimensione contemporanea e globale delle relazioni umane; legami che anche a distanza continuano ad essere fortemente significativi per colui che si trova in paese straniero: l’esperienza della distanza dalla propria cultura comporta il rafforzamento degli aspetti tradizionali. Sono i temi della ‘identità diasporica’.
Un esempio testuale può esser subito proposto: è una delle lettere che Bouchane riceve dalla sorella Fatima e trascrive nel suo diario:
Sabato 6 maggio
Ti scrivo dopo aver ricevuto le tue lettere, due consecutive. Fratello, Mohamed, ho letto e capito le difficoltà che stai affrontando nella tua nuova vita in Italia. Noi speriamo che la tua salute sia ottima, il tuo animo sereno e soprattutto preghiamo perché Dio ti accompagni nel tuo cammino.
Caro fratello, qui, nella nostra casa, va tutto bene, tutti ti salutano: la mamma, le sorelle, i fratelli. La mamma ti pensa sempre e prega perché i tuoi problemi possano trovare una soluzione. Anche i vicini ti salutano. Per loro è stata una sorpresa. Non sapevano della tua decisione di andare in Italia. Mohamed, nella tua lettera hai raccontato cosa mangi per il Ramadan. Sappiamo però che il riso non ti è mai piaciuto. E adesso che fai ? Lo mangi o no? E come fai per il sahor? Hai trovato un lavoro?2
Questo passo del testo, che si configura come una sorta di fonte nella fonte, o un frammento del dialogo interno del personaggio del diario che coincide con l’autore, si colloca in un ‘contesto-testuale’ abbastanza interessante sul piano metodologico: è un mese e mezzo che l’autore è a Milano, e la lettera è una sorta di ‘punto’ del suo viaggio migratorio. Ha conosciuto varie forme di assistenza e di carità, liti tra immigrati, notti passate in stazione; ha venduto accendini e distribuito volantini pubblicitari, ha avuto problemi con i cibi e con le persone, ha subito furti e imbrogli e il suo bilancio è piuttosto negativo. Il 30 aprile aveva annotato:
“[…] Sono passato dalla vita serena che facevo in Marocco quando studiavo biologia all’Università di Rabat, a una vita da barbone. Nella mia città avevo visto spesso gente senza casa, costretta ad arrangiarsi per dormire e per mangiare. Ma non avrei mai immaginato che sarei diventato come loro. […]”3
La lettera è introdotta come ‘una sorpresa’ trovata tornando a casa. Il rapporto tra il suo bilancio migratorio e la lettera è quindi esplosivo:
« Non sono riuscito a leggerla tutta. Le lacrime me lo hanno impedito. Non piangevo per quello che c’era scritto, ma per i ricordi che mi sono venuti in mente. Il ricordo di come passavo El-Esagher in Marocco. Ho pensato a quando mi svegliavo presto, mi lavavo e andavo a fare gli auguri a mia madre e alle mie sorelle. E poi salutavo i vicini, la signora che abita accanto a noi e che io chiamo zia. Ho ricordato la felicità che provavo nell’andare alla moschea a pregare, e la gioia che mi riempiva il cuore quando mangiavamo tutti assieme per festeggiare degnamente El-Esagher. Ho pianto per mezz’ora… » 4
La presenza della famiglia attraverso la lettera è un segnale comparativo di perdita della dignità dell’immigrato, e di perdita del contesto socio-culturale che dà senso alle azioni della vita quotidiana. Non a caso la giustificazione del pianto è legata al confronto tra un giorno del ciclo religioso islamico passato a Milano (il diario del 6 maggio cominciava cosi : «Il Ramadan è finito. Oggi è il giorno della festa di El-Esagher… E’ la prima volta che passo questa festa lontano dallafamiglia “ e il ricordo della festa nel suo contesto nazionale e familiare, nel mondo dell’esperito e del conosciuto. L’identità viene vissuta come frattura e sdoppiamento, lui è qui, ma la sua identità è là, altrove. Qui c’è il suo doppio.
Il tempo ciclico della festa produce una comparazione di immagini che il lettore percepisce come una ferita nell’esperienza di vita di Bouchane. Ed ha livelli ancora più complessi:
« …sono andato in via Anacreonte per fare gli auguri ai fratelli musulmani al Centro islamico. Lì mi hanno regalato 150.000 lire. Sono i soldi della zakat, un obolo che i Musulmani versano alla fine del Ramadan. Il denaro raccolto viene diviso tra i poveri e hanno deciso che ne spetta un po’ anche a noi che siamo senza lavoro. Io però non li ho accettati volentieri… »5
Qui, se si continua a stare dentro il discorso della vita di Mohamed-Alì ‘come se’ si trattasse effettivamente di una rappresentazione attraverso la quale noi costruiamo la nostra rappresentazione, si coglie che per il protagonista lo statuto religioso della zakat è vissuto per la prima volta negativamente, come una trasformazione dolorosa nel rango di povero. Bouchane ha scelto gli Italiani come pubblico con il quale parlare, al quale offrire commenti e traduzioni della vita dall’interno di una specifica cultura religiosa. Diversamente non avrebbe spiegato che cosa è l’obolo che riceve e quale è la sua funzione sociale nel mondo musulmano. Il diario infatti nasce anche per reazione allo shock connesso alla scoperta che la società italiana, comprese le persone più istruite, disponibili e amichevoli, non sa nulla della sua cultura, la ignora radicalmente o ne ha rappresentazioni arcaiche, residuo di un immaginario d’epoca coloniale. Ecco altri esempi di traduzione per gli Italiani:
Mercoledì 27 settembre
Mentre mangiamo iniziamo a parlare, come sempre, il discorso finisce sul Marocco. Quando dico che è un paese a quattordici chilometri dalla Spagna non mi credono. E non mi credono nemmeno quando dico che non ci sono cammelli fermi ai semafori: io ne ho visti soltanto due in tutta la mia vita. Maurizio e Carlo, invece, pensavano che in Marocco ci fossero i cammelli al posto delle macchine. 6
Giovedì 25 gennaio ’90
Anna dopo la lezione mi ha invitato da lei. Abbiamo parlato a lungo. Delle nostre tradizioni e di quelle italiane. E l’idea che gli Italiani non sappiano nulla del mio paese si è andata rafforzando. Tutti hanno una conoscenza del Marocco legata forse a confusi ricordi cinematografici. Credono che sia un paese deserto, popolato da selvaggi o quasi. Perché? Provincialismo Ignoranza? Disinteresse? Fatto sta che sono veramente stanco di spiegare ogni volta che paese è il Marocco e che gente siamo noi marocchini. Carla un giorno mi ha perfino domandato se in Marocco si producono olive! L’altro giorno ho trovato al supermercato un barattolo di olive marocchine 7
In questo modo, su una esperienza di negazione (che potrebbe definirsi con De Martino uno ‘scandalo epistemologico’), si innesta per reazione spontanea una forma primaria di antropologia dialogica che da un lato ‘descrive’ l’ignoranza culturale degli Italiani verso il Marocco, dall’altra cerca di introdurre elementi di traduzione, anch’essi istintivi, legati all’orizzonte della vita quotidiana (ma a loro modo antropologici) per farsi capire come uomo dotato di una cultura, e far capire dunque la sua cultura.
Il percorso migratorio di Mohamed Bouchane comincia venerdì 24 marzo 1989, alla stazione di Rabat, su un treno che lo porterà in Europa « alla ricerca di chissà che cosa ». Il diario inizia con il racconto del passaggio da un mondo familiare ad un universo ignoto: le prime descrizioni riguardano i saluti e il momento degli addii con i propri familiari, zii, cugini, sorelle, madre, la quale, «intanto, in cucina, preparava il cibo e i dolci per le lunghe ore di treno».
L’incipit del diario rappresenta il primo riferimento alla sua identità musulmana. Nel nome di Allah Clemente e Misericordioso, è, infatti, la frase iniziale della prima sura (capitolo) del Corano detta bismillahi. Nel linguaggio popolare, tale invocazione è ripetuta migliaia di volte nella vita quotidiana e viene utilizzata anche nel rituale della macellazione halal.
Durante il viaggio, traversando la Spagna, Mohamed annota nel suo diario di aver trovato sulla nave una moschea dove poter compiere una delle cinque preghiere quotidiane (salat), che rappresenta uno dei cinque ‘pilastri’ della fede (oltre l’elemosina rituale, zakat), il pellegrinaggio alla Mecca da compiere almeno una volta nella vita, la professione di fede (shahada) con cui si dichiara di appartenere alla religione islamica e il digiuno durante il mese di ramadan).
Tangeri, sabato 25 marzo
Siamo arrivati a Tangeri dopo una notte di viaggio. Percorriamo il centinaio di metri dalla stazione al porto. Una lunga fila, un veloce controllo del passaporto e siamo sul traghetto che ci porta ad Algeciras, Spagna. Non ho mai messo piede su una nave, mi sento di buonumore e gironzolo un po’ per scoprire tutto quello che mi sta intorno. In fondo a una ripidissima scala trovo una moschea: posso lavarmi e inginocchiarmi per una delle cinque preghiere quotidiane dei Musulmani.8
La moschea rappresenta per Mohamed, nel contesto migratorio, il legame con il proprio retroterra culturale, essa è sintesi del religioso, del rituale, del sociale; l’analogo – in un certo senso – di quel « campanile di Marcellinara » che De Martino usa ad emblema della dialettica ‘appaesamento’-‘spaesamento’. E quindi simbolo dell’orizzonte del senso della vita.
Quando si reca per la prima volta a pregare in una moschea in Italia Bouchane annota:
«Venerdi 31 marzo
Il venerdì è il giorno festivo per i musulmani, e con Taufik andiamo al Centro islamico di via Anacreonte, dove c’è la moschea. Quando arriviamo il mio cuore si apre e finalmente, dopo tante preoccupazioni, mi sento bene. Fra tanta gente che parla la mia lingua e professa la mia religione sono a casa. Mi sembra di essere un naufrago che rischiava di annegare e all’improvviso ha trovato un pezzo di legno al quale aggrapparsi. Mi tolgo subito le scarpe e mi sdraio sul tappeto della moschea come facevo in Marocco, per riposare. Poi chiacchiero con gli altri. Mi danno consigli, ricevo parole di conforto. 9
L’immagine del naufrago e del pezzo di legno richiama direttamente i temi de martiniani del ‘rischio della perdita della presenza’ e delle forme culturali di superamento della crisi. Nel contesto migratorio:
«La moschea è comunque un luogo che marca il territorio, in qualche modo simbolico anche di una significativa transizione nel mondo stesso dell’immigrazione: essa infatti comincia ad apparire, come esigenza improcrastinabile prima ancora che come edificio, a partire dal momento in cui il progetto migratorio si è orientato definitivamente all’insediamento nel paese di accoglienza e nel territorio urbano» 10
In effetti, per Bouchane, una volta rassicurata la ‘presenza’ nel mondo della diversità, le forme religiose della preghiera diventano un ‘palo totemico’ (è ancora una metafora demartiniana) duttile, cui l’orizzonte della presenza della moschea fa da sfondo e garanzia.
Mohamed ricorre ai versetti del testo sacro ogni qualvolta si trova in una situazione in cui è necessario situarsi nella ‘giusta posizione’ e compiere ‘le giuste azioni’. I versetti fungono da guida ai comportamenti quotidiani.
L’utilizzo dei versetti coranici è una pratica frequente, il Corano è spesso utilizzato anche a livello colto, come modello letterario, e le sue sure sono inserite, direttamente o modificate, con intenzione letteraria dagli scrittori. Berque scrive che, più in generale, il Corano :
Costituiva la base di ogni educazione, l’obiettivo di qualunque cultura adulta. Ancor oggi le sillabe sacre impregnano i primi anni della vita. S’incorporano nella personalità iniziale, miste a ricordi familiari accumulano, nella profondità delle anime adolescenti, un tesoro di sentimenti. Preparano per l’avvenire la segreta ponderatezza con cui l’adulto affronterà tutte le sue vicissitudini. In un mondo amaro, umiliato, sconvolto, resteranno l’oasi di freschezza, il ricordo di un paradiso perduto: perduto per colpa dei credenti e per la cospirazione dello straniero »11
Esempi di utilizzo del testo sacro come risorsa letteraria ci giungono soprattutto nell’ambito della letteratura maghrebina di lingua francese (Ben Jelloun, 1990)
Il primo versetto citato da Mohamed nel suo diario è quello che concerne il rituale prima della preghiera e cioè il dovere di lavarsi adeguatamente prima di entrare in contatto con Dio:
Lunedi 3 aprile ’89
O voi che credete, quando vi levate a pregare, lavatevi il volto e le mani fino ai gomiti ; strofinate, con la mano bagnata, la testa e i piedi fino alle caviglie. (Corano, Sura V)
Lavarmi è diventato un grosso problema: ho bisogno di essere pulito per pregare e da fratello Ettore non sempre riesco a fare la doccia perché siamo in troppi, dovrei svegliarmi all’alba.12
Quindi il problema che Mohamed incontra all’inizio della sua esperienza, è quello di poter riuscire a lavarsi e mantenersi in una condizione di purità rituale. La ripetizione dei versetti del Corano deriva dal considerare il testo sacro come un testo da memorizzare poiché si può avere contatto diretto con Dio senza bisogno di intermediari. Il Corano quindi è un testo da recitare a memoria in lingua araba classica.
«I Musulmani quando recitano i versetti del Corano che, sempre secondo la dottrina dell’Islam, furono rivelati al profeta (nabi) ed inviato (rasul) di Dio (Al-lach), si sentono membri della comunità islamica mondiale (umma) al di là delle frontiere geografiche, delle diversità culturali, delle differenze linguistiche »13
L’altro versetto che Mohamed riporta nel suo diario, riguarda il mese del Ramadan, il mese del digiuno, in cui ogni buon musulmano deve rispettare questa regola dall’alba al tramonto:
«Il mese di Ramadan, il mese in cui fu rivelato il Corano come guida per gli uomini e prova chiara di retta direzione e salvazione, non appena ne vedete la nuova luna digiunate per tutto quel mese(…) Bevete e mangiate fino a quell’ora dell’alba in cui potrete distinguere un filo bianco da un filo nero, poi compite il digiuno fino alla notte » (Corano, SuraII).14
Mohamed continua il suo diario annotando di seguito al versetto il significato del Ramadan, che lui tenta di rispettare anche nella condizione di immigrati:
«Giovedì 6 aprile ’89
Oggi è il primo giorno del Ramadan, il mese dedicato al digiuno e alla preghiera. Come prescrive il Corano resto digiuno tutto giorno e la sera torno al Centro islamico, dove offrono un pasto a tutti (…) Fratel Ettore ci dà il permesso di svegliarci alle tre di notte per fare uno spuntino, come è abitudine dei musulmani durante il Ramadan. Non si può accendere la luce per non disturbare gli altri, così mangiamo al buio, in silenzio, cibi freddi e in scatola» 15
Descrizioni che riguardano le tradizioni del suo paese si alternano a quelle del contesto nuovo in cui si trova a viverle: il dormitorio di fratel Ettore (luogo della carità cristiana e dell’accoglienza ai senza casa e senza lavoro, traversato dai conflitti tra immigrati tunisini e marocchini) in cui lui e i suoi amici sono costretti a mangiare al buio per non svegliare gli altri, in quanto è d’abitudine fare uno spuntino durante la notte per essere in grado all’alba successiva di riprendere il digiuno.
Il digiuno durante il Ramadan è uno dei rituali di coesione più seguiti della tradizione islamica, tanto che:
«viene spesso osservato anche da chi non si considera praticante e non frequenta la moschea, dalla seconda generazione religiosamente più tiepida, e in non pochi casi recuperato in emigrazione anche da quegli elementi più laicizzati che non lo osservano più rigidamente nel paese di origine»16
Mohamed ‘traduce’ l’esperienza del Ramadan nel contesto migratorio, attraverso la comparazione con la pratica, nel suo contesto di provenienza:
Lunedi 26 marzo’90
L’inizio del Ramadan non è uguale ogni anno. Cambia sempre. Bisogna regolarsi scrutando il cielo. E la mezza luna che ne annuncia l’inizio. In Marocco passavano la voce i vicini, gli amici, gli uomini con maggiore esperienza. Una gara di solidarietà per avviare il Ramadan. Senza contare il bombardamento di radio e TV, subito impegnate a dare la buona notizia. Qui è diverso. Non ho vicini che fanno il Ramadan. E non posso arrangiarmi da solo. Ho telefonato allora al Centro islamico, dove mi hanno detto di richiamare dopo le 23. Solo allora sapranno con esattezza l’orario di inizio del Ramadan. Verso mezzanotte ho la conferma e richiamo subito Aicha, che aveva il mio stesso problema»17
L’esito individuale, singolare, dell’esperienza migratoria di Mohamed risulterà infine centrato sul valore religioso della vita, vissuto anche entro il mondo industrializzato e cristiano, come unica possibilità di mantenere la dignità culturale e personale. In un certo senso il suo ‘onore’ di uomo si identifica con la sua capacità di mantenere un orizzonte etico fondato nei valori dell’Islam, e la sua stessa capacità di lettura- traduzione del mondo italiano sarà basata sul confronto tra etiche, mondi religiosi, cicli festivi.
Nel suo diario il riconoscimento di questa sua modalità di vivere l’emigrazione, il riconoscimento di quella che per gli ‘antichi’ era la pietas, e quindi del « pius » Mohamed, avviene sia come fondazione della sua propria identità in terra straniera con il soprannome o nuovo nome di Fakih, sia come sottolineatura del ruolo comunitario e identitario della‘pietas’ in contesti culturali di estraneità.
Mercoledì 2 agosto’89
Gli amici di Thami, prima che io partissi per Piacenza, mi hanno dato un soprannome: Fakih, una parola che in dialetto significa uomo molto religioso. A volte, scherzando, mi chiamano anche imam, perché da qualche sera guido la preghiera collettiva in giardino. Prima infatti ognuno pregava per conto suo, in ginocchio sul tappetino o sulla stuoia. Adesso invece ci raggruppiamo per farlo tutti assieme.
“Nel nome di Dio, Clemente e Misericordioso,
sia lode a Dio, il Signore del creato,
il Clemente, il Misericordioso,
il Padrone del di del Giudizio!
Te noi adoriamo, Te invochiamo in aiuto :
Guidaci per la retta via,
La via di coloro sui quali hai effuso la tua grazia,
La via di coloro con i quali non sei adirato,
La via di quelli che non vagano nell’errore“
(Corano, Sura I)18
Le preghiere dette in comune hanno più valore agli occhi di Allah».
Il valore di orientamento etico è evidenziato in altri passi del diario:
Giovedì 12 ottobre ‘89
La mia religione mi vieta di pagare gli alcolici, così per evitare di pagare anche le birre che hanno bevuto gli altri faccio il conto di quello che ho preso, e pago esattamente la mia parte » 19
Martedì 24 ottobre ’89
Ho comprato una macchina fotografica rubata e si è rotta subito. Ho comprato una giacca rubata e non ho potuto usarla nemmeno un giorno. Sono coincidenze o segnali per farmi capire che le cose haram per me non vanno bene? Sentivo di non fare una buona azione comprando oggetti rubati, ma la tentazione è stata troppo forte.20
Venerdì 19 gennaio ’90
Anche se la mia religione vieta l’alcol, io ho provato a bere, quando ero al liceo. Erano delle bravate e il peccato commesso è rimasto un segreto tra me e i miei compagni di scuola. Un segreto del quale non ho mai messo al corrente nessun altro. (…) Ora sono pentito, assalito dai sensi di colpa. Haj dice che nelle nostre condizioni l’alcol può aiutare a dimenticare i brutti momenti che stiamo passando. Ma io non credo che questa sia la soluzione giusta » 21
La Preoccupazione per il rispetto dei limiti tra haram (‘illecito’) e balal (‘lecito’) è vissuta fortemente nella sfera dell’alimentazione che rappresenta uno dei momenti di forte legame con la cultura di appartenenza. Il diario è uno strumento utile per capire non tanto i concetti di divieto e di prescrizione nell’orizzonte religioso islamico, quanto il disagio della vita quotidiana entro un orizzonte che non prevede e non condivide il senso sacro del mangiare.
Venerdì 31 marzo
Ci sediamo a tavola. Servono da mangiare, ma non tocco nulla. La tristezza mi ha chiuso lo stomaco e ho paura che i cibi siano contrari alle norme della mia religione.
«Vi siano interdetti gli animali morti di morte naturale, il sangue, la carne di maiale, gli animali su cui sia stato invocato, all’atto dell’uccisione, un nome diverso da quello di Allah » (Corano, Sura V).22
Le norme riguardanti l’alimentazione concernono, oltre il divieto del consumo del maiale, le modalità di uccisione degli animali ed è possibile mangiare solo carne macellata secondo il rituale islamico che, come quello ebraico, consiste nel fare uscire quanto più sangue possibile attraverso un taglio netto sulla gola, pronunciando la formula Bismillah che significa «Nel nome di Dio».
Tutto ciò comporta la difficoltà, all’interno delle mense per gli immigrati, di trovare cibo halal e la costante paura di trasgredire le norme islamiche:
Venerdì 29 settembre ’89
Per la prima volta da quando sono nato, oggi ho mangiato carne haram, che non è stata macellata come prescrive il Corano. Non avevo tempo di passare a far la spesa alla macelleria islamica ma avevo fame, cosi ho comprato al supermercato della carne di vitello tagliata a pezzetti. L’ho cucinata secondo le usanze marocchine e poi l’ho mangiata. Ma ho fatto fatica a mandarla giù. Un po’ perché non ha lo stesso sapore della nostra carne. Almeno cosi mi è sembrato.79 Si osservi il carattere marcante, autostigmatizzante, dell’espressione.23
«Per la prima volta da quando sono nato», il contesto di infelicità, di disagio etico che consegue al consumo alimentare del cibo haram. L’impegno ad affrontare ‘onorevolmente’ e in modo non sacrilego il rapporto tra cibo quotidiano e regole della vita musulmana caratterizza l’impegno di Bouchane a costruirsi uno spazio autonomo, una zona per quanto possibile franca, entro il mondo dei consumi ‘laici’ dell’Occidente.
La preparazione dei cibi scandisce il tempo rituale delle tradizioni, in quanto ci sono determinate pietanze che si mangiano all’inizio o alla fine di una festa. Bouchane annota, nel suo diario, tutte le usanze alimentari del ciclo dell’anno; ad esempio durante il periodo del Ramadan si rispetta il digiuno, e si consuma un pasto poco prima dell’aurora, detto sahur, per rinforzarsi, ed uno dopo il tramonto chiamato fatur.
Martedì 27 marzo ’90
Ho ricevuto un regalo. Un pacco pieno di brewa, dolcetti tipici del mio paese: triangolari, ripieni di miele, mandorle e noci. Me li ha mandati mio zio, facendomi un dono veramente gradito: li ha preparati sua moglie. E’ tradizione, a casa mia e in gran parte del Marocco, magiare i brewa ogni sera durante il Ramadan. (…) In Marocco si celebra il Ramadan anche con la preparazione di particolari piatti. Per esempio, mi mancherà un piatto indispensabile, l’harira, cioè una zuppa di carne, legumi e pomodoro, che serve ad ‘aprire’ lo stomaco, a fargli ‘riprendere conoscenza’ dopo le lunghe ore di digiuno dell’intera giornata. Con questa zuppa si comincia nella maniera più consona un pasto del Ramadan! Ma la preparazione dell’harira è troppo complessa, così mi devo accontentare di un piatto unico con carne riso, verdure e brewa. 24
L’Autore connette il cibo con le relazioni familiari, il senso di tradizione, la nostalgia e il sentimento religioso, così che il lettore italiano possa riconoscere queste pratiche, pur nella loro diversità, nel suo bagaglio di relazioni, di memorie e di antico senso della sacralità del cibo e del desco.
Il ‘centro’ dell’azione narrativa del testo di Mohamed Bouchane è quello in cui il protagonista compra, per evitare di mangiare cibi haram, un fornelletto e comincia a cucinare i piatti tradizionali marocchini. Si tratta di una svolta che connette etica – socievolezza – identità perché consente di stabilire, all’interno di un universo che appare disgregato, privo di ordine e di dignità per i soggetti immigrati, un momento di unione e di condivisione forte che attraverso le spezie, il tè alla menta e altri cibi ricrea un universo di riferimento e un legame che rischiava di indebolirsi:
Mercoledì 9 agosto ’89
Stasera, confortato dal successo che ho avuto l’altro giorno con la pastasciutta, decido di lanciarmi in un’altra impresa gastronomica: il tajin marocchino. E’ un piatto di pesce (o di carne) e verdura che si prepara in una pentola di terracotta bassa, con un alto coperchio a cono. Preparo uno strato di patate e cipolle a pezzetti, uno di pesce e un altro di patate e prezzemolo. Mi manca il qasbor, una spezie simile al prezzemolo che noi usiamo per cucinare il pesce. In un campo dove giocano i bambini, vicino a piazzale Corvetto, ho raccolto tantissima menta e ogni sera, a cena, riesco a preparare un vero tè marocchino. Richiamati dall’inconfondibile profumo, molti mi chiedono di assaggiarlo. Lo dividiamo in tanti bicchieri. Qualcuno, mentre beve, mi confessa che non assaggiava tè alla menta da più di due anni.25
Giovedì 26 aprile ’90
Domani ricorre l’ultimo giorno del Ramadan. E’ festa. Telefono a casa per fare gli auguri. Io e Abidi, qualche giorno fa, ci siamo messi d’accordo con un marocchino che abbiamo conosciuto alla moschea per avere due conigli allevati da lui e uccisi secondo l’usanza musulmana. Oltre ai conigli abbiamo comprato il cous-cous e le verdure. Alle undici io, Abidi, Jarif, Houcine e Fatah, vestiti con i tradizionali abiti arabi – quanti si sono fermati a guardarci ! – siamo tornati a casa per preparare un pranzo degno del giorno di festa. 26
Attraversando un mondo che non lo prevede, e facendone esperienza, Ali-Mohamed arriva ad una comprensione attiva della società ospitante, finalizzata a una rivendicazione di spazi che consentano di non essere del tutto culturalmente alienato, e che procedono di pari passo ad una scoperta e una mappa di luoghi e persone amiche. Analogamente con la competenza linguistica, l’esplorazione spaziale e comportamentale consente ‘traduzioni’ dell’altro e conseguentemente ‘discorsi propri’, sequenze di azioni in cui elementi di identità propria si disegnano nell’altrove. Questi sono i tracciati che caratterizzano e connettono le ‘enclavesle identità diasporiche, gli ibridismi e le polifonie. Infatti una ‘enclave’ culturale
marocchina a Milano è sia un ibrido che una identità diasporica: è un altrove che si presentifica qui, ma è anche un qui che individua un soggetto che ha tradotto il lessico azionale del mondo di accoglienza e ne ha accettato alcune forme fondamentali (dalle leggi all’etichetta, al discorso sull’altro) entro le quali esprime l’apparente dissonanza di una voce diversa.
La seconda metà del testo di Bouchane è dominata da questo effetto di traduzione e dal riscontro che si manifesta come padronanza della mappa, rivendicazione verso gli ‘ospiti’ e riconoscimento da parte degli ‘ospiti’.
“La sera andiamo a mangiare in viale Jenner. Hanno aperto una mensa nuova. Si mangia bene e tutti i cibi sono halal» 27
Anche se non può andare sempre alla moschea o al ristorante ‘halal’, la scoperta di questi rifermenti riapre la città a una potenziale vita culturale per l’uomo esterno (lo straniero) che può diventare anche interno (accettato, integrato, straniero-interno), è il principio di un multiculturalismo possibile, e al tempo stesso segno di presenza faticosa, difficile, stratificata, dolorosa della diversità culturale che ha potuto introdurre nella altrui mappa alcuni propri capisaldi di sopravvivenza-accoglienza.
Sul piano alimentare viene esplicitata una formula che designa in positivo, prevenendo una possibile stigmatizzazione, la propria particolarità:
« Mangio tutto eccetto la carne di maiale e quella macellata secondo i vostri usi, e non bevo alcolici ». 28
Formula dialogica proprio perché si offre come aperta alla esperienza, ma dove questa è limitata rivendica che anche il modo occidentale di macellare sia un uso. Su questa base rivendicativa di identità il protagonista ottiene i suoi risultati, un colonnello al quale dà lezioni di arabo si dimostra particolarmente sensibile alle usanze musulmane:
Venerdì 4 maggio ’90
Sono andato a cena dal colonnello. Pasta al forno, carne halal e altre buone cose. Il fatto che il colonnello abbia comprato apposta per me la carne alla macelleria islamica mi fa un enorme piacere. Mi riempie di gioia mangiare con persone italiane a una tavola in cui tutto è halal : niente alcolici, niente carne di maiale. « Perché? Ho chiesto al colonnello. Mi ha risposto che loro abitualmente consumano pochi alcolici. Ho capito che è rispetto nei miei confronti. 29
Nell’esperienza vissuta con il colonnello, Bouchane vive, anche se solo per un istante, il risanamento della frattura venutasi a creare con il passaggio da una cultura ad un’altra. Il colonnello è il suo ‘studente’, sta imparando qualcosa da lui, che non è solo la lingua, ma la possibilità stessa dell’incontro-dialogo tra persone che appartengono a culture differenti.
Pasta al forno e carne halal è un menù un po’ vago, ma che esplicita un principio di interculturalità, e la nascita di mediazioni e di configurazioni nuove, minuscole ma significative, proprie delle situazioni di incontro culturale. In un certo senso la possibilità dell’incontro è data dalla possibilità che l’individualità culturale dell’immigrato abbia il suo spazio, il suo punto di ritorno, per cui l’istituzione o enclave dell’identità (macellerie halal, Moschea, ristoranti halal) che fa il multiculturalismo non è in contrasto con i processi di mediazione e di innovazione culturale.
« A mezzogiorno ho posato gli attrezzi da lavoro … ma il padrone ha preso al volo l’occasione perlamentarsi di nuovo: « ieri moschea, oggi moschea… ». « Senti » ho risposto « voi avete il 1° maggio, il 25 aprile, la Pasqua, il Natale. Noi soltanto due feste: quella di ieri e un’altra che ci sarà tra due mesi. Che ci posso fare se una di queste è capitata proprio quando ho cominciato a lavorare? »30
Il riferimento alle feste italiane è un vero e proprio esempio di ‘traduzione’ culturale, il terreno del lavoro resta uno dei più difficili nel racconto di Bouchane, in linea di principio le feste e la preghiera sono rispettati, ma in concreto il loro accadere viene osteggiato. Segno di difficoltà, di du-rezza del dialogo. Nonostante l’esperienza di recupero di dignità e di conquista del rispetto che il protagonista compie, l’Autore, fuori dalla dimensione testuale, tornerà in Marocco, nonostante la pubblicazione del diario, sicuramente gratificato. Ma la sua esperienza resta un riferimento, una vita raccontata per tredici mesi di disorientamento e di conquista dell’orientamento, dove si svolgono alcuni dei nodi principali dei lunghi processi di incontro-scontro tra culture e singole persone.
Mohamed offre agli ‘ospiti’, agli Italiani, tramite la pubblicazione del suo diario, il suo punto di vista sull’incontro, l’opportunità di entrare in contatto con le emozioni e le esperienze di uno dei tanti immigrati, troppo spesso considerati privi di una storia vissuta e ancor meno da narrare. Offre un dialogo sul quale occorre costruire altri dialoghi. Via che cresceranno i racconti di emigrazione cresceranno, per l’antropologia, le occasioni di dialogo e di comprensione.
Al contrario di altri paesi europei, la letteratura migrante prodotta in Italia appare tuttavia un fenomeno meno consolidato e strutturato rispetto ai movimenti letterari diffusi in Gran Bretagna e Francia. In Inghilterra, infatti, il movimento denominato “Black Britain”, attraverso la divulgazione dei costumi e degli stili di vita della popolazione immigrata, intende combattere il razzismo e contribuire al superamento dei pregiudizi che impediscono una serena convivenza tra le diverse etnie che si ritrovano a stretto contatto nella società inglese. I “Black Writers”, nelle loro opere puntano soprattutto a guidare l’attenzione dell’opinione pubblica nei confronti di alcune questioni civili, come ad esempio, il permesso di soggiorno agli immigrati o il diritto alla cittadinanza la cui mancanza diventa il maggiore ostacolo al processo di integrazione.
Un importante portavoce di tale corrente è lo scrittore Mike Phillips86, che nelle sue opere tratteggia la vita e le vicissitudini degli immigrati neri in Inghilterra a partire dalla sua storia personale, così com’è descritta nel suo ultimo libro, London Crossings: a biography of black Britain, nel quale racconta il suo difficile inserimento a Londra. Nelle sue opere egli utilizza abitualmente un inglese non accademico, intriso di influssi linguistici differenti, denso di neologismi e di accostamenti lessicali originali.
Un altro esempio di letteratura della migrazione è quello francese. In Francia si è assistito all’inizio degli Anni ‘80 del secolo scorso alla nascita della cosiddetta letteratura francofona della generazione dell’immigrazione maghrebina, nata o arrivata in giovane età in Francia. Tali autori hanno scelto come lingua quella degli ex colonizzatori, sia perché base fondante della propria formazione socio culturale, sia con l’intento di raggiungere potenzialmente tutti i Francesi e aprire un dibattito sull’inserimento delle comunità arabofone provenienti dai territori delle ex colonie. Anche in questo caso, come spesso accade negli scritti degli scrittori migranti, si rileva un uso libero della lingua con una ricerca sperimentale di nuove parole e commistioni linguistiche tra francese, arabo classico e dialetto, per meglio esprimere concetti, significati ed emozioni delle proprie molteplici identità di appartenenza.
Uno scrittore di spicco della letteratura francofona è il, già ampiamente citato, Tahar Ben Jelloun. Il suo successo internazionale, come quello dello scrittore indiano naturalizzato inglese Salman Rushdie87, conferma che nei paesi dal passato coloniale, nonostante il processo forzato di acculturazione e di non valorizzazione dei patrimoni dei paesi sottomessi, si sono ormai consolidate nuove forme di aggregazione culturale caratterizzate da un rapporto di interscambio tra identità culturali differenti ma contestualmente attigue negli eventi sociali e storici che le hanno percorse.
La situazione della letteratura dell’immigrazione in italiano è invece resa particolare e originale della mancanza di una rilevante storia coloniale, dall’assenza di familiari punti di contatto culturali e linguistici con i diversi paesi d’origine degli scrittori che sono piuttosto frammentati per gruppi etnici e origine geografica. A questo proposito lo scrittore brasiliano naturalizzato italiano Julio Monteiro Martins afferma:
“L’italiano non è la lingua letteraria in nessun altro paese se non in Italia. Ecco che allora le persone che vengono presentano un più ampio ventaglio di origini, non ci sono regioni privilegiate, trovi sudamericani, maghrebini, scrittori dell’Africa occidentale, orientale, sono tutti uomini che hanno scelto questa cultura e non l’hanno ereditata per vie coloniali. Ciò fa una grande differenza perché in questo caso la conoscenza e l’approccio nei confronti di una lingua nascono da un’empatia, da un elemento amoroso, da una forte dose di affettività”.31
Riferimenti bibliografici
Bouchane, Mohamed, Chiamatemi Alì, a cura di D. Miccione e C. De Girolamo, Milano, Leonardo, 1991.
Aa. Vv., Certi confini, Letteratura italiana della migrazione, (a cura di) I. Quaquarelli, Milano, Morellini, 2010.
S. Camilotti Silvia, S. Zangrando, Letteratura e migrazione in Italia, Studi e dialoghi, Trento, Editrice Uni Service, I ed., aprile 2010.
A. Gnisci, La letteratura italiana della migrazione, Roma, Lilith edizioni, 1998
A. Gnisci, Creolizzare l’Europa. Letteratura e migrazione, Roma, Meltemi, 2003
I. Guardi, Letteratura italiana nascente? Considerazioni sulle opere di alcuni scrittori arabofoni, in “Lingua italiana, Afriche e Orienti”, n. 2, luglio 2007.
A. Luzi, Ragioni di un incontro, Scrittura, migrazione, identità in Italia: voci a confronto, edizioni Università di Macerata, 2007.
C. Mengozzi, Narrazioni contese. Vent’anni di scritture italiane della migrazione, Roma, Carocci, 2013.
M. Meschini e C. Carotenuto (a cura), Scrittura, Migrazione, identità in Italia: Voci a confronto, Edizioni Università di Macerata 2010.
F. Pezzarossa e I. Rossini (a cura), Leggere il testo e il mondo – Vent’anni di scrittura della migrazione in Italia, Bologna, Clueb, 2012.
L. Quaquarelli, Certi confini sulla letteratura italiana dell’immigrazione, Vignate,Morelli Editore,
Raffaele Taddeo, Letteratura nascente, letteratura italiana della migrazione. Autori e poetiche, Raccolto edizioni, 2006.
Alaa Dabboussi, nato in Tunisia, dottore in lingua, letteratura e civiltà italiana. Ha seguito un corso magistrale e ha ottenuto il master nel 2015 presso la Facolta’ delle lettere e delle umanistiche de La Manouba. Presso lo stesso Ateneo ha discusso nel 2021 la sua Tesi di dottorato “Espressioni della letteratura magrebina di lingua italiana tra integrazione e identità”. Insegna lingua italiana presso licei tunisini. Si occupa essenzialmente di letteratura di frontiera magrebina .
1
M. Meschini e C. Carotenuto (a cura), Scrittura, Migrazione, identità in Italia: Voci a confronto, Edizioni Università di Macerata 2010.p220
2
Bouchane , Mohamed , chiamatemi Ali , Milano 1991 p 180
3
Bouchane , Mohamed , chiamatemi Ali , Milano 1991 p 184
4
Ibidem, p 185
5
Ibidem, p 185
6
Ibidem, p 185
7
Raffaele Taddeo, Letteratura nascente, letteratura italiana della migrazione. Autori e poetiche, Raccolto edizioni, 2006, pp. 104-105; p. 200.
8
Alfredo Luzi, Ragioni di un incontro, Scrittura, migrazione, identità in Italia : voci a confronto, edizioni università di Macerata 2007, p 11.
9
Bouchane , Mohamed , chiamatemi Ali , Milano 1991 p 186
10
S. Camilotti Silvia, S. Zangrando, Letteratura e migrazione in Italia, Studi e dialoghi, Trento, Editrice Uni Service, I ed., aprile 2010.p200.
11
Aa. Vv., Certi confini, Letteratura italiana della migrazione, (a cura di) I. Quaquarelli, Milano, Morellini, 2010.p301.
12
Bouchane , Mohamed , chiamatemi Ali , Milano 1991 p 188
13
Ibidem, p 188
14
Ibidem, p 188
15
Ibidem, p 189
16
Bouchane , Mohamed , chiamatemi Ali , Milano 1991 p 190
17
Ibidem, p 191
18
Ibidem, p 191
19
Bouchane , Mohamed , chiamatemi Ali , Milano 1991 p 192
20
Ibidem, p 192
21
Ibidem, p 192
22
Ibidem, p 193
23
Bouchane , Mohamed , chiamatemi Ali , Milano 1994
24
Ibidem, p 194
25
Bouchane , Mohamed , chiamatemi Ali , Milano 1991 p 195
26
Ibidem, p 196
27
Ibidem, p 196
28
Ibidem, p 197
29
Bouchane , Mohamed , chiamatemi Ali , Milano 1991 p 197
30
Ibidem, p 198
31
88Intervista al prof. Julio Monteiro Martins per la rivista Sagarana rilasciata alla Dott.ssa Francesca Macchioni