soldato guerra
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Checché ne dicano poeti, filosofi e cantori della guerra come “igiene del mondo”, la guerra è un inferno, come ha scritto M. Walzer. Un inferno per chi la combatte e muore o è ferito o mutilato; un inferno per i civili “innocenti” colpiti direttamente o indirettamente. Ed è proprio perché la guerra è un inferno ed è criminale iniziarle, che i leaders politici hanno da sempre cercato in qualche modo di “giustificarla”, per ottenere il consenso di chi doveva combatterla o di chi doveva sostenerla o subirne le conseguenze.

Io per prima sono convinta che la pace sia il bene fondamentale, soprattutto in un mondo dove, come non si stancava di ripetere Norberto Bobbio agli allievi del corso di filosofia del diritto, le armi non sono più baionetta, ma missili e altri ordigni micidiali.

Siamo l’unica specie animale che fa la guerra”: non è un’affermazione dei nostri giorni. A dirlo fu Erasmo da Rotterdam, che più di cinquecento anni fa smontò il concetto di guerra “giusta”.

In un mondo come quello attuale, dove i conflitti si moltiplicano ed espandono, dove le armi disponibili potrebbero distruggere il pianeta è sí ragionevole porsi il problema è domandarsi come se ne esce, sempre che una via di uscita sia possibile. Ecco perché quando sento dire ad alcuni che “la guerra è ingiusta“, nella migliore delle ipotesi, non se ne abbiano a male, mi viene da sorridere. Abbiamo, forse, scoperto l’acqua calda? Non credo. Si tratta di un’affermazione talmente ovvia da apparire perfino superflua. Non sono né una giurista, vero, neppure un teologo, tantomeno un militare. Ma sono un’antropologa e in quanto tale tendo a problematizzare l’ovvio.

Ma torniamo alla guerra, a questa inevitabile esperienza personale e collettiva che sì, lo sanno perfino i muri, quanto sia ingiusta, col suo carico di distruzione e morte. Lo è soprattutto, per un criterio assoluto ed oggettivo, proprio in quanto “guerra”, in quanto atto di violenza reciproca generata dall’insufficienza e dal tracollo del diritto.
Dopo decenni di “cultura della pace” viene chiesto oggi a gran parte del mondo occidentale, abituato ormai a considerare come unico e inviolabile, il diritto alla vita per ogni singolo individuo, di accettare come “inevitabile” e “giusto”, lo scenario di morte, distruzione e sterminio di questi giorni.

Sono settimane che mi chiedo se e come si possa rimanere passivi davanti a un’aggressione, e fino a che punto spingersi: se ci si possa assumere il rischio e la responsabilità di trasformare la “riparazione del torto” in un vero e proprio massacro.

A ben rifletterci, quando si parla di guerre “giuste” spesso si tende a confondere i diversi significati del termine. Una guerra può essere “giusta” dal punto di vista del diritto ed essere lo stesso sentita come ingiusta dal punto di vista etico. Ma può anche essere giudicata ingiusta o illecita o illegittima e tuttavia essere sentita come giusta dal punto di vista etico (come fu ai tempi dell’intervento NATO in Bosnia). Ancora, una guerra può essere vista come giusta secondo il profilo del diritto e della moralità dei fini, ed essere considerata ingiusta quanto ai mezzi impiegati (pensiamo all’uso dell’Atomica)

Comunque stiano le cose, la guerra è sí sempre uno spreco incredibile di risorse umane e materiali, nonché una ferita profonda inferta alla natura, tuttavia, essa sembra diventare inevitabile quando sono in gioco le motivazioni profonde dell’agire umano. Quando vivere diventa impossibile, la guerra appare inevitabile. E poiché siamo fatti di carne e ossa ci combattiamo “fisicamente”, ma se anche questo ci fosse precluso, o non fosse considerato opportuno, come dimostra il conflitto russo-ucraino, ci combatteremmo con armi “immateriali” la cui violenza, come abbiamo visto, sarebbe non meno devastante.

Che la guerra non possa modificare alcuna situazione se non in peggio credo sia fuor di discussione. Pensiamo al disastro sociale, economico ed ecologico che molto spesso determina. La guerra, soprattutto quella moderna, non premia i forti, i giusti o i buoni, così come non punisce i deboli e i cattivi. La guerra è una tragedia per tutti, è un evento che abbruttisce l’umanità facendola regredire paurosamente. Dire che essa è voluta prevalentemente da soggetti violenti, individualisti, magari affetti da chissà quale non meglio precisata patologia psichiatrica, avrebbe senso solo nell’ambito della psicologia sociale, mentre non ne avrebbe all’interno del corpo economico e politico. Le guerre, lo sappiamo bene, essere causate non da interessi superiori come la salvaguardia dell’essere umano e dei suoi diritti, bensì da interessi economici che, certo, in un ipotetico e agognato mondo ideale, non dovrebbero mai motivare una guerra.

La realtà, tuttavia ci restituisce un’altra verità: si combattono guerre soprattutto in difesa di interessi economici, la violazione dei diritti umani è una motivazione che ad oggi, da sola, non muove una nazione a un conflitto, che porta sempre dolore, distruzione, morte e violazione dei diritti fondamentali. Un paese dopo una guerra, può impiegare decenni a riprendersi, un arco di tempo in cui, esattamente come durante il conflitto, la popolazione vivrà di stenti, fame e sofferenze di ogni sorta. L’economia stagnerà e si indebolirà perché per lungo tempo tutte le forze del paese saranno state investite negli armamenti. La popolazione avrà, dunque, meno risorse per la propria sopravvivenza.

La guerra, inoltre, genera altra guerra, altri paesi sono coinvolti e i civili fuggono dal loro paese.

In guerra, in realtà, come sottolineava con forza Gino Strada ma prima di lui già Lev Tolstoj, è tutto contro l’umanità, non c’è nulla di umanitario. Si tratta di un avvenimento contrario alla natura e alla ragione umana. Un avvenimento che rapisce le due parti in conflitto in un vortice senza fine, un circolo vizioso che dalla violenza fa nascere vendetta e nuovo dolore.

Come ignorare, tuttavia, il fatto che le società tutte siano indissolubilmente legate nel loro sviluppo all’esistenza di conflitti che sollevano, o almeno dovrebbero, laddove non ci si limitasse alle chiacchiere da bar dello sport, domande fondamentali su cosa significhi essere umani e sulla natura della società. Ce lo ricorda Salvatore Quasimodo nella poesia “Uomo del mio tempo”, quando dice che l’uomo è rimasto quello della pietra, Caino che uccide Abele, fratello contro fratello. Sono cambiate le armi a disposizione dell’uomo, sono state migliorate, perfezionate e in tutto questo la tecnologia è stata veloce e precisa, ma l’uomo ha mantenuto il suo istinto primordiale e cioè di uccidere per avere sempre di più o per essere potente.
La guerra, dunque, accompagna l’uomo fin dall’inizio della sua esistenza. Rappresenta l’attività peculiare delle società che hanno abitato la Terra.

È vero che la guerra è camaleontica e la parola, la sua narrazione, è anch’essa camaleontica, può e sa cambiare colore per adattarsi all’occorrenza. Resta il fatto che ogni guerra è fatta di tre elementi in eterna dialettica: caso, politica e violenza, la cui combinazione è sempre cangiante certo, nel senso che dipende da circostanze e condizioni diverse. Ecco allora che le sembianze della guerra cambiano alla stregua del camaleonte e come elementi vecchi e nuovi interagiscono, eppure, malgrado il mutare di colore, il camaleonte resta tale. Così la guerra. Il linguaggio bellicista, tanto amaro quanto bizzarro non è incomprensibile. Guerra è un termine forte che sa imporsi sul linguaggio della pace, quello per così dire civile, perché indica lo stato di fatto esistenzialmente più rilevante. Ne sono una prova l’esistenza di una grande filosofia della guerra e l’inesistenza di una grande filosofia della pace.
Non diciamo nulla di nuovo se affermiamo che non sempre gli uomini sono buoni e generosi, spesso entrano in conflitto tra loro per diversi motivi e quando questi conflitti assumono grandi dimensioni e comportano violenza e atrocità inammissibili, si ha la guerra.

Checché ne dicano poeti, filosofi e cantori della guerra come “igiene del mondo”, la guerra è un inferno, come ha scritto M. Walzer. Un inferno per chi la combatte e muore o è ferito o mutilato; un inferno per i civili “innocenti” colpiti direttamente o indirettamente. Ed è proprio perché la guerra è un inferno ed è criminale iniziarle, che i leaders politici hanno da sempre cercato in qualche modo di “giustificarla”, per ottenere il consenso di chi doveva combatterla o di chi doveva sostenerla o subirne le conseguenze.

Dall’antichità a oggi gli uomini hanno provato a giustificare in diversi modi, regolare, controllare e addirittura codificare la guerra, hanno sacralizzato i metodi con cui veniva condotta o i fini per la quale veniva indotta o, al contrario, l’hanno vista come la nemica della civiltà. L’hanno invocata come fattore palingenetico o temuta per il suo carico di distruzione: ma non l’hanno mai potuta ignorare.
Per capire il comportamento tipico della nostra specie ritengo che non si debba studiare la nostra natura in base a ciò che “vorremmo essere”, ispirandoci a qualche costruzione ideale che poi assumiamo come vera solo perché opportuna o desiderabile; e nemmeno in base a miti, quali ad esempio quello del “buon selvaggio” che ci siamo inventati, senza un briciolo di prova, per esorcizzare gli eccessi di violenza di cui ci vediamo capaci. La natura umana di riferimento dovrebbe essere invece quella che emerge dal caleidoscopio di comportamenti effettivamente osservati nel corso della nostra storia evolutiva. Qualcosa che è dualistico, ma anche multiforme, qualcosa che varia a seconda della prospettiva da cui si guardano gli eventi.

Facciamo un esempio osservando il presente. Sappiamo che spesso sviluppiamo degli atteggiamenti ostili verso tutti coloro che riteniamo diversi da noi. Questo può dipendere dal fatto che parlano lingue incomprensibili oppure che hanno un aspetto insolito e altre abitudini. Il timore che possano crearci dei problemi può indurci a diventare aggressivi rispetto all’altro da noi. La diversità ci infastidisce, poco importa, se sia attribuibile al colore della pelle, alle preferenze sessuali, a uno status sociale, al credo religioso o all’ideologia politica, se non addirittura ai gusti alimentari. D’altro canto, a volte, mostriamo anche una propensione alla cooperazione e all’empatia. E questo significa che possediamo anche uno spirito di solidarietà. Va tuttavia osservato che tendiamo comunque a definire i confini fra “noi” e “l’altro”, fra coloro con cui ci identifichiamo e quelli che consideriamo altro da noi e nei casi più estremi come “i nostri nemici”, in maniera variabile a seconda delle circostanze.

Allora, forse, vale la pena riflettere su come nasce questa abitudine umana di tracciare un confine, vario e variabile, fra individui. Si tratta solo di retaggi culturali, sociali ed economici, che possiamo combattere? O sono distinzioni che dipendono dalla nostra struttura genetica e da come funziona il nostro cervello? Secondo recenti studi (pubblicati sull’«Annual Review of Anthropology» alla fine del 2015) sembrerebbe che questo tratto dualistico della nostra natura sia fra i principali responsabili del nostro originario successo come specie. Eppure potrebbe trattarsi anche di una mina vagante, nella società multietnica e multiculturale in cui viviamo oggi. Vediamo perché.
Quando, 150 mila anni fa, abbiamo dovuto attraversare un periodo caratterizzato da improvvisi cambiamenti climatici, esistevano almeno quattro specie umane, che abitavano diverse aree del pianeta: i nostri antenati sapiens vivevano in Africa, i Neanderthal in Europa e in Asia occidentale, i denisoviani nell’Asia nord-orientale, e i minuscoli uomini di Flores (i cosiddetti Hobbit) nel Sud Est Asiatico. Vivendo in aree lontane e separate fra loro non c’erano allora molte occasioni di conflitto tra specie diverse; né eravamo ancora un pericolo per gli altri animali o per l’ambiente. A un certo punto, in Eurasia, il freddo e i ghiacciai cominciarono a espandersi. I Neanderthal si spinsero così verso l’Italia meridionale e la Spagna. L’Africa era invece devastata da ondate di siccità, che rendevano la savana sempre più brulla e ampliavano le aree deserte. Anche noi sapiens cercammo quindi di porci in salvo. Gli studi genetici e archeologici mostrano che in quell’occasione, nel tentativo di lasciare l’Africa, ci riducemmo considerevolmente di numero.

Le ricerche svolte negli ultimi anni ci rivelano tuttavia che gli ambienti costieri dell’Africa costituirono la salvezza per i nostri diretti antenati. Essi erano ricchi di cibi succulenti, molluschi e altri prodotti acquatici. Il nostro cervello si era ingrandito enormemente nei precedenti due milioni di anni. Ora si potevano selezionare le connessioni neuronali giuste per adeguarci alle mutate condizioni ambientali. Per sopravvivere e prosperare serviva formare, per la prima volta, bande di difesa territoriale. Nell’entroterra non era particolarmente utile coordinarsi in grandi gruppi, poiché il cibo era sparso, mobile, e non prevedibile. Le alleanze si limitavano a certe occasioni di caccia grossa, mentre il costo di presidiare ampi territori per impedire l’accesso ad altri era elevato. Sulle coste avevamo trovato invece un nutrimento di alta qualità, concentrato su un territorio da difendere. Inoltre potevamo programmare lo sfruttamento di tali risorse, poiché eravamo già in grado di comprendere il collegamento tra la luna e le maree.
Si calcola che nella parte meridionale del continente un individuo poteva facilmente raccogliere in un’ora molluschi equivalenti a 5.000 calorie. In un periodo di crisi ambientale si trattava di una risorsa preziosa per la sopravvivenza. Essa costituiva però anche occasione di conflitto tra gruppi diversi. Nascevano così la prima proprietà privata, anche se di gruppo, e le prime guerre territoriali. In questo modo si sarebbero selezionati individui con geni e connessioni cerebrali favorevoli alla collaborazione fra membri del proprio gruppo e alla competizione con individui identificabili come appartenenti a gruppi diversi. Da qui l’ambivalenza della nostra attuale natura cooperativa e competitiva.

Questi caratteri non sarebbero fra loro in antitesi ma al contrario parti integranti di uno stesso comportamento. A un certo punto, circa 70 mila anni fa, in Sudafrica, abbiamo inventato armi da lancio con punte molto sofisticate, ottenute riscaldando particolari tipi di pietra. Noi sapiens potemmo così uscire dall’Africa, diventando una forza inarrestabile. In poche migliaia di anni riuscimmo a dominare il pianeta, causando l’estinzione di tutte le altre specie umane e di moltissimi grandi animali del Pleistocene. Le nostre capacità distruttive, enormemente aumentate, sono da allora rivolte contro altri gruppi della nostra stessa specie.

Se quanto detto sopra fosse confermato, questa distinzione fra noi e loro farebbe quindi parte non solo delle nostre diverse culture, come sempre si dice, ma anche del nostro patrimonio genetico. Ovviamente, durante gli ultimi 10 mila anni, le aree da difendere o da conquistare sono proliferate: non solo le risorse alimentari ma anche la ricchezza già accumulata, e distribuita male, l’oro nero (il petrolio), l’oro blu (l’acqua), i mercati, le tecnologie, i diritti dei cittadini, lo stile di vita. Basterà conoscere la nostra natura più profonda per saperla imbrigliare? E impedire che questa distinzione fra “noi” e “loro”, inizialmente utile per la sopravvivenza, ci porti all’autodistruzione? Se veramente la guerra facesse parte del nostro patrimonio genetico, non basterebbe invocare una “rivoluzione culturale”, per salvarci; avremmo bisogno di una provvidenziale “mutazione”. Non ho gli strumenti necessari ad affermare che ci sia nella natura dell’uomo qualcosa che lo spinga a fare la guerra. Al contrario ciò che parrebbe appagare gli umani è lo stare insieme, il condividere. Tuttavia, come antropologa posso affermare come la propensione a fare la guerra sia, invece, insita nella nostra cultura o, quantomeno, sia intrisa con essa.
Resta il fatto che la guerra e i conflitti, hanno iniziato a far parte della vita umana all’epoca dei cacciatori-raccoglitori e non ci hanno più abbandonato. Combattiamo per il cibo. Per un compagno. Per un confine. Per il primato su un’altra popolazione. La capacità di scatenare una guerra o di vincere la pace albergano entrambe nell’uomo.

Da qualsiasi lato la si voglia osservare, la guerra resta un mistero di iniquità, sotto certi punti di vista, ma anche un mistero sulla natura più profonda dell’intimità umana. Perché, come ci ricorda il Premio Nobel per la Letteratura Svetlana Aleksevic ne “La guerra non ha un volto di donna” , la guerra “è sempre stata ed è ancora oggi uno dei grandi misteri dell’umanità”.

Al cambiare dei secoli, delle ere e delle aree del mondo, molto spesso il canovaccio della guerra non è cambiata. La storica britannica MacMillan segnala apertamente a chi abita nelle società del benessere contemporanee che la pace prolungata in cui esse vivono non è una condizione perenne, ma il più lungo, prolungato e opulento periodo di intervallo tra fasi belliche mai sperimentato nella storia umana. E che non è saggio rimuovere l’idea di guerra e di conflitto dalle società contemporanea, ponendola ai margini del discorso, edulcorandone la definizione (“missione di pace”, “polizia internazionale” e così via) e allontanando la storia dal presente.
La MacMillan arriva alla conclusione che la grande anomalia è l’epoca contemporanea. Un’epoca in cui l’uomo ha toccato le più alte vette di progresso scientifico, culturale, umano e i più profondi abissi di abiezione. Un’era in cui si sono susseguite le conferenze per la messa al bando delle armi chimiche, le convenzioni internazionali sul trattamento dei prigionieri, le codifiche del diritto internazionale e gli arbitrati e in cui sono state sperimentate le più devastanti forme di distruzione materiale, dirette indistintamente verso militari e civili. Un’era in cui le società hanno mitizzato e divinizzato il progresso e in cui regimi democratici e totalitarismi hanno sposato il mito della guerra totale. Fino a creare la situazione ibrida in cui la guerra si può portare nelle società democratiche fuori dal territorio nazionale – a patto di non chiamarla in tal modo. La nostra è l’era che aveva dimenticato la guerra.

Tornare a parlare di guerra è pertanto vitale per umanizzarla e non temerla. Perché la conoscenza del mestiere delle armi e della storia bellica è il vero antidoto contro il militarismo. Sgombrare il campo da superficialità in un senso e nell’altro dando, invece, forza a un senso di fedeltà a valori collettivi, a un medesimo sentire nazionale, a una comunità di destino. Accettare questa realtà di fatto non significa scivolare nel nazionalismo più esasperato, ma arrivare all’intimità più profonda della storia dell’evoluzione umana. Perché solo capendo la guerra e il suo ruolo nella storia umana si potranno porre le condizioni perché il suo ruolo nelle società odierne sia minimizzato. Minimizzato, badate bene, non annullato o eliminato. Potrà piacerci o meno, potremmo continuare a sfilare per i prossimi 2000 anni con le nostre colorate bandiere arcobaleno e quegli slogan che tutti abbiamo imparato a conoscere, ma, ritengo forse dovremmo farcene una ragione: la guerra non verrà mai ripudiata in modo definitivo.

Sapete, mi sembra quasi di sentirvi: “si, ma senza guerra, senza violenza, senza intolleranza, etc., vivremmo meglio”. È vero. Come ho detto all’inizio del mio discorso, lo sanno pure i muri che sarebbe meglio così (ma gli anni passano anche per me e oggi sono meno ottimista, è evidente).

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