Il 10 settembre si è celebrata la “Giornata mondiale per la prevenzione del suicidio”, che l’Organizzazione mondiale per la sanità (Oms) e l’Associazione internazionale per la prevenzione del suicidio (Iasp) hanno istituito per richiamare l’attenzione su questo tema, e sulla necessità di correre ai ripari coinvolgendo le istituzioni europee e i governi nazionali e, al loro interno, i servizi sanitari, sociali e le strutture scolastiche, sollecitando azioni sinergiche efficaci.
In particolare, sono allarmanti i dati che riguardano i suicidi adolescenziali, sempre più legati ai disagi e alle sofferenze che scaturiscono dai modelli di perfezione e di idealizzazione del reale proposti dai social network. In Europa, secondo i dati UNICEF, la percentuale di problemi legati alla salute mentale per le ragazze e i ragazzi fra i 10 e i 19 anni, è del 16%, ovvero ne soffrirebbero circa 9 milioni di adolescenti, e si stima che circa 1.200 giovani nella stessa fascia di età pongano fine alle loro vite ogni anno. Il suicidio è, dopo gli incidenti stradali, la seconda causa di morte tra i giovani: tre suicidi in media al giorno.
Una realtà che si correda di una serie di comportamenti autolesionistici e intenzioni suicidarie che, anche se non conducono necessariamente a un esito nefasto, esprimono un profondo disagio sulle cui cause è necessario interrogarsi incessantemente, allo scopo di elaborare programmi di prevenzioni adeguati. Ne parliamo con Monica Petra, presidente di Telefono Amico Italia.
Quanti sono gli adolescenti che quotidianamente si rivolgono a Telefono Amico per manifestare intenzioni suicidarie?
“I giovani rappresentano il 50% dei nostri contatti. Mediamente negli ultimi anni, soprattutto dopo la pandemia, riceviamo circa 100mila contatti, dei quali una grossa parte viene raccolta telefonicamente, e una fetta in grande crescita è quella dedicata ai servizi scritti. I giovani ci contattano prevalentemente attraverso la chat whatsapp o la mail, mentre nel servizio telefonico rappresentano circa un quinto del totale, nei servizi scritti superano il 50%. Nell’arco del 2021, complessivamente abbiamo ricevuto circa seimila richieste di aiuto da parte di persone attraversate dal pensiero del suicidio, oppure preoccupate per i loro cari”.
Le segnalazioni relative all’autolesionismo?
“Questo tipo di segnalazioni, nei servizi scritti, si attestano intorno al 5%. L’autolesionismo, come tutte le altre esperienze di sofferenza, si inquadra all’interno di una narrazione più ampia, che ha a che fare con l’assenza di una visione, di una prospettiva futura e con sentimenti di dolore o anche confusione. All’interno della complessità della narrazione della sofferenza giovanile, l’autolesionismo si accompagna quasi sempre a fenomeni di ansia o depressione”.
Si tratta di propositi che vengono condotti sino ai gesti estremi o piuttosto di richieste di aiuto?
“Bisogna comprendere che chi sceglie, o anche solo chi pensa di suicidarsi, ha innanzitutto voglia di sottrarsi alla sofferenza che sta vivendo; il suicidio è inteso come un modo per venir fuori da quel dolore. Questo fa parte del nostro lavoro di prevenzione. L’obiettivo della nostra attività che, ricordo, è di volontariato, è di riuscire ad aiutare le persone che ci contattano, e in particolar modo gli adolescenti, a comprendere che esiste la possibilità di allargare la propria visione e lo spettro delle possibilità a disposizione. È un percorso che mira a ritrovare il desiderio d’origine, che è quello di star bene. Non sottrarsi alla vita, ma trovare un modo per sottrarsi alla sofferenza. Chi ci contatta è di solito una persona che ha voglia di dialogare, che si da la possibilità e il tempo di poter esplorare il dolore che sta vivendo, e le risorse e le strategie alternative al suicidio”.
C’è una particolare tipologia di adolescenti che vi contatta, in merito a estrazione sociale, condizioni economiche, fascia di età o varie forme di emarginazione sociale?
“I giovani che ci contattano con più frequenza sono quelli compresi nella fascia dai 15 ai 19 anni, e sono quasi sempre studenti. Noi garantiamo alle persone l’anonimato, quindi ci sono dei dati che non chiediamo, a meno che non emergano spontaneamente. Evidentemente, se non vengono raccontati all’interno della propria narrazione, non sono considerati importanti dalla persona che vive un disagio, come possono essere i dati relativi all’estrazione sociale o alla localizzazione geografica”.
Qual è invece l’aspetto che emerge con più evidenza?
“Direi l’aspetto delle relazioni familiari. Quasi sempre la difficoltà dei ragazzi che ci contattano è legata all’esistenza di relazioni che non trovano soddisfacenti, o all’interno delle quali non riescono ad esprimere ciò che sentono, e nelle quali non si sentono riconosciuti come individui autonomi”.
Qual è il legame fra queste richieste d’aiuto e la rete?
“La rete è uno strumento, e come tutti i mezzi, dipende dall’uso che se ne fa. È sicuramente diventato un elemento particolarmente rilevante negli ultimi due anni. Durante il periodo pandemico, dal punto di vista psicologico, i giovani sono stati quelli che hanno maggiormente risentito delle conseguenze legate al lockdown in merito all’assenza di relazioni sociali, proprio in un periodo della vita in cui si costruisce la capacità di essere in relazione con gli altri. La rete è diventata l’unico strumento di intermediazione e di creazione di relazioni, con tutti i limiti e le difficoltà che questo può comportare. Se i giovani non hanno avuto l’opportunità di sedersi su un muretto e chiacchierare con un compagno, è stato nella comunicazione virtuale che hanno misurato le loro forze e le loro fragilità, ma in una maniera più “incompetente”, perché privati degli strumenti per sviluppare le competenze relazionali. Del resto, non essendo nativi digitali, neanche noi adulti abbiamo le competenze da trasmettere ai nostri ragazzi, per cui a volte diventa difficile trasmettere una consapevolezza dell’uso corretto che si deve fare di questo mezzo”.
Telefono Amico cosa fa per aiutare i giovani a sviluppare queste competenze?
“Come associazione lavoriamo molto con le scuole, proprio perché i ragazzi imparino ad ascoltarsi reciprocamente, a riconoscere nel compagno di banco non un oggetto ma una persona, portatrice quindi di pensieri e di emozioni che non sono identiche le une alle altre, ma che li rendono allo stesso modo umani. L’intermediazione del video, rende un po’ più difficile l’umanizzazione dell’altro, la comprensione che dall’altra parte c’è una persona che respira, suda, piange, vive, proprio come noi”.
Esiste una correlazione tra il disagio giovanile e i modelli di perfezione proposti dai social network?
“Molto spesso i ragazzi si mettono in confronto con quello che vedono. Se le uniche immagini con le quali si confrontano sono quelle abbellite, perfezionate per essere rese pubbliche, ovviamente questo può essere un modello sbagliato. Nella rete, in pochi si mostrano nelle loro imperfezioni. In particolare, sui social si trasmette un’idea di grande felicità e di uno stato costante di benessere. Bisognerebbe aiutare i ragazzi ad apprendere che il benessere non è uno stato costante, ma che richiede un continuo esercizio. Tra l’altro siamo più noi adulti che tendiamo ad abbellire la nostra immagine. I ragazzi sono più inclini a mostrarsi nella loro semplicità, per questo dobbiamo stare attenti a non proporre loro modelli troppo artefatti”.
I giovani sono notoriamente restii a esprimere i loro sentimenti. Con voi riescono a parlare e a tirare fuori i problemi?
“Imparano a farlo un po’ alla volta. Succede spesso che i ragazzi che ci contattano “testino” i nostri volontari. A volte dopo un primo approccio conoscitivo, ci ricontattano dopo qualche giorno e si aprono di più. In ogni caso, prediligono il servizio mail o chat, nel quale non hanno il contatto diretto con un altro individuo respirante, e passano solo successivamente alla comunicazione verbale. Si tratta di costruire un rapporto di fiducia. Quando si è in un momento di sofferenza si ha una maggiore ritrosia nei confronti dell’esterno, soprattutto per i ragazzi che non sono abituati a raccontarsi, allora la costruzione di un rapporto di fiducia richiede più tempo. Anche per noi adulti l’ascolto è un percorso che richiede tempo e competenze: si apprende a stare vicino agli altri, a riconoscerne le sofferenze, a rispettarne opinioni, idee, valori che possono essere anche diversi dai nostri, e si apprende a costruire un linguaggio in modo che ciò che si racconta di se stessi possa venire accolto con pienezza da parte di chi ci ascolta. Si cerca anche, soprattutto con la nostra presenza nelle scuole, di incentivare il processo inverso, ossia di imparare ad ascoltare, e ad ascoltarsi tra pari. Non è sempre necessario rivolgersi a un adulto che ha un ruolo istituzionale, a volte una comprensione maggiore può arrivare da un amico o un compagno, se si riesce ad entrare in una relazione empatica, di ascolto fra persone che hanno problemi analoghi”.
Una volta che i ragazzi si aprono, quali sono i sentimenti prevalenti che emergono?
“Un po’ trasformativi. L’emozione di partenza è l’ansia, che è un’emozione dominante, soprattutto negli ultimi anni, un po’ perché indotta da fenomeni esterni, un po’ perché conseguente alla sensazione di non riuscire a comprendere e a gestire il mondo che abbiamo intorno e a renderlo confacente alle nostre esigenze. Nei fenomeni di autolesionismo, ma anche nei disturbi alimentari adolescenziali, l’ansia, la depressione, gli attacchi di panico sono esperienze molto frequenti nelle vite dei ragazzi che ci contattano. I nostri volontari sono preparati, e spesso nel corso delle conversazioni queste emozioni trovano spazio per essere raccontate e riordinate. Verbalizzare, dare un nome a un’emozione aiuta già di per sé a risistemarla, e di conseguenza a comprendere di avere gli strumenti per gestirla e trasformarla in qualcos’altro”.
Ritiene che, oltre a servizi essenziali come Telefono Amico, le reti sociali di supporto a una richiesta crescente d’aiuto debbano essere potenziate e collegate alla scuola?
“Ritengo assolutamente che debbano essere potenziate. Introdurre la consapevolezza che l’ascolto reciproco sia un elemento di apprendimento. In questo senso stiamo facendo tanto. Lo scorso giugno, la Camera dei Deputati ha approvato una mozione che riconosce il suicidio come un problema di salute pubblica. Il governo si impegna ad agire con una serie di attività e di linee guida in diversi settori dove questo fenomeno si manifesta con maggiore evidenza e frequenza. Uno degli ambiti di intervento individuati è proprio quello della scuola. La scuola, così come tutte le comunità che hanno a che fare con l’educazione, con l’istruzione e con la cultura, è proprio l’ambito dove possiamo comprendere come parlare del nostro disagio e come confrontarci con gli altri, e scoprire insieme in che modo agire per poter cambiare il nostro stato d’animo e riportarci in una situazione di benessere”.
Crede che la politica abbia sufficientemente a cuore i giovani?
“Comprendo che la politica abbia tante preoccupazioni. Ma la preoccupazione dei giovani deve necessariamente essere dominante, da due punti di vista. Innanzitutto perché, per una generazione come la mia, i giovani saranno coloro che dovranno occuparsi delle nostre sorti di anziani, e in generale saranno coloro che decideranno del futuro del Paese. Secondo, non è pensabile escludere una fetta così grande della popolazione dalle scelte che riguardano il futuro. Mi sembra che negli ultimi anni l’attenzione alle tematiche di prospettiva, per esempio anche l’ambiente, sia in crescita. Mi auguro che questa tappa elettorale ma, in generale, la politica in senso più alto, quella fatta di progettualità che guarda oltre la contingenza del momento storico, possa farsi carico di una visione che offra anche ai più giovani la serenità e la gioia di affrontare il futuro con tutte le sue incognite, ma anche con tutte le sue promesse di felicità”.