Benjamin Malaussène è stato uno degli amici immaginari della mia infanzia. Primogenito di una bizzarra tribù familiare, è un giovane che, nonostante la sua cultura accademica, non arriva mai ad avere un impiego fisso, almeno finché non diventa capro espiatorio per professione. Mentre da bambina leggevo di questo giovane uomo buono e gentile, perennemente accusato di colpe non sue, che suscitava in me un grande senso di empatica pietà, non potevo immaginare che un giorno mi sarei trovata ad intervistare il suo creatore: il geniale romanziere, drammaturgo e attore Daniel Pennac.
Dopo aver assistito al suo ultimo spettacolo teatrale Dal sogno alla scena, realizzato con la regista argentina Clara Bauer e con Pako Ioffredo, attore napoletano che compare in scena insieme allo stesso autore e all’attrice Demi Licata, mi sono ritrovata a chiacchierare con Pennac nella tranquillità conviviale di un ristorante. Il progetto, nato quando l’autore, in piena pandemia, sognò la morte di Maradona, che dopo qualche giorno avvenne davvero, ha come tema proprio il sogno.
Una mise en espace immaginifica in cui i sogni prendono forma e storie e personaggi si sostanziano grazie agli interpreti, che sono tali non solo in quanto traducono in scena le parole dello scrittore francese, dando vita a uno spettacolo trilingue, napoletano compreso, ma anche perché ne incarnano le fantasie oniriche.
“Quando sogniamo – afferma l’autore – il nostro cervello produce delle immagini che si trasformano in sensazioni bellissime, se ricordiamo i sogni come meravigliosi, terribili, se li definiamo incubi al nostro risveglio. Immagini e sensazioni non possono essere spiegate per come sono, abbiamo bisogno di utilizzare la parola. Nel momento che ci affidiamo alle parole, immagini e sensazioni non saranno più le stesse, la nostra intelligenza diurna le reinterpreterà, così nasce il racconto”.
Le parole assumono significati diversi a seconda che vengano fissate su carta o declamate su un palcoscenico. Se prese in prestito da un attore, subiscono – soprattutto nel teatro contemporaneo – un’appropriazione, e necessariamente si trasformano nella rinascita. Nei lavori teatrali di Pennac, gli attori si fanno persino autori. La loro libertà espressiva è tale che a un certo punto sentono il bisogno di incastonare all’interno del testo originario frammenti dei loro scritti, facendoli rivivere in un contesto nuovo.
E così i defunti vivono, attraverso il teatro, un’esistenza ritrovata. Come accade al fratello di Pennac, morto molti anni fa e tornato a farsi vivo in sogno. Nella pièce sono presenti alcuni estratti, raccolti nel monologo Bartleby-Mon frère, del racconto preesistente Mio fratello. Lo scrittore racconta che le parole gli si bloccarono in gola dopo la morte di suo fratello, ma che tornarono a scorrergli nella penna solo dopo averlo sognato. Il sogno che, ad occhi aperti, diventa anche viatico di rimembranza reverenziale. È il caso del passaggio dedicato al cinema di Fellini, di cui è sempre stato grande estimatore, in cui raccoglie testi tratti da La legge del sognatore, Storia di un corpo, Grazie e L’avventura teatrale – Le mie italiane.
Ma c’è anche un altro protagonista silenzioso, quando si recita, mi rivela Pennac.
Quando si è in scena – precisa – si ha di fronte la sala, che è un’entità in continuo divenire, nuova e diversa ogni sera, fatta di creature viventi in grado di donare uno spettacolo imprevisto. Novità e, allo stesso tempo specchio dell’eternità, è il teatro, rimasto sin dai tempi di Sofocle immutabile e immortale, un genere destinato a sopravvivere a tutto in quanto “miracolo laico della reincarnazione”. L’attore incarna ogni sera un personaggio, e questi rivive, si reincarna superando persino i limiti della morte. Ciò che non cambia mai – aggiunge, ridendo – è che è deficitario, non produce soldi: “non si corre il rischio di diventare miliardari, facendo teatro”.
Nel testo, Pennac ricorda l’affermazione paradossale di Nabokov che sosteneva che il caso, le hazard, è il personaggio principale, sia pur occulto, di tutta la letteratura da sempre e ovunque prodotta. Ciò che il grande scrittore russo amava del caso era legato a un aneddoto richiamato nella pièce:
Immaginate un uomo, su una nave, nella notte, che attraversa l´oceano ed è sul ponte. Pensa e sogna, appoggiato alla balaustra. Due gemelli gli chiudono i polsi della camicia, fatti di diamanti, platino, oro: li ha ereditato da suoi antenati. L´uomo tiene a questi gemelli come alla propria vita. Egli è lì, appoggiato che sogna, ma ha freddo, starnutisce e i gemelli, zac, gli cadono in mare. Nel mezzo dell´Oceano Pacifico, vanno a fondo. Sei mesi dopo, lo stesso uomo, va a New York, nel miglior ristorante degli Stati Uniti in cui si cucinano specialità di pesce. Ordina un pesce d´alto mare, glielo portano su un piatto meraviglioso. Prende il coltello, la forchetta, apre il pesce. E i gemelli non ci sono.
Non posso infine non chiedere al Maestro cosa si possa fare, a suo parere, per permettere alla parola di sopravvivere in un’epoca sempre più multimediale e sempre meno verbale. “Il fatto che soltanto questa sera fossimo circa 700 – mi risponde divertito – significa che la situazione non è poi così disperata!”. E qual è il rapporto fra la lettura e il pensiero critico, gli chiedo ancora, considerato il fatto che i giovani leggono sempre meno e sono sempre più soggetti a una manipolazione imperante. Secondo Pennac, in un romanzo il pensiero critico dovrebbe essere implicito. Soltanto in una conversazione tra amici ci si può permettere di esplicitarlo. Uno scrittore non deve educare o fare la morale: l’instillazione del pensiero critico deve scorrere subliminalmente fra le pieghe del discorso come una corrente sotterranea.
E non è forse questo un bell’insegnamento per un’umile scrittrice che incontra uno dei suoi miti letterari?