È evidente oggigiorno che tra i prodotti agricoli più fortunati ci sia il vino in testa alla classifica e grazie a ciò possiamo considerare che quando un’attività vitivinicola prende piede, se il produttore è genuinamente vocato al territorio, tutti gli altri comparti produttivi si giovano di una maggiore visibilità, grazie anche alla spinta dell’enoturismo e di un qualche miglioramento, con tutte le dovute eccezioni ed il rispetto di chi autonomamente fa il proprio mestiere e lo fa bene al di là di questa considerazione. Quel che è certo è che, soprattutto negli ultimi 30 anni, il mondo del vino è stato letteralmente catapultato nel jet set a tutti i livelli e gli enologi hanno assunto un ruolo di protagonismo, nonché una grandissima visibilità mediatica. Ci sono produzioni però che hanno un’importanza fondamentale per ricompattare paesaggi, territori, comunità rurali e un tessuto sociale che, oggi più che mai, necessità di sostenibilità economica ed una maggiore attenzione politica e mediatica: la produzione lattiero casearia.
Esattamente come l’enologo anche il mastro casaro ha un ruolo fondamentale, un ruolo che passa in sordina a causa dello scarso fattore mediatico e di una narrativa gastronomica decisamente distratta, se non disinteressata. Si pensi al confronto tra il fatturato del vino e della mozzarella nella sola Campania: 782 milioni di euro per il fermentato d’uva contro 1,2 miliardi di euro per il latticino.
Classe del ’66 e nativo di San Pietro Infine, in provincia di Caserta, è Giuseppe Iaconelli, fiero mastro casaro e imprenditore illuminato della filiera lattiero casearia, oltre che consulente di successo per altre aziende di questo settore decisamente importante per il made in Italy. È l’ultimo di 5 figli con una figura paterna di grande carisma, medico e appassionato di agricoltura.
Dopo il diploma di liceo scientifico, Giuseppe lascia la facoltà di giurisprudenza per il suo amore per il formaggio.
Il padre lo portava dai coloni, durante la potatura delle olive ed altre pratiche agresti. La sensibilità del padre, attento osservatore, lo portava a giustificare, se non approvare, le scelte di Giuseppe, dettate da grande motivazione e sincerità.
Devo suo padre, medico che dedicava alle piante e agli animali le stesse attenzioni e premure che riservava ai propri assistiti, ha ereditato qualcosa di molto più importante della vocazione alla medicina: l’umiltà e il rispetto, virtù, a parere di Giuseppe Iaconelli, necessarie per osservare con benevolenza le fascinose e a volte complicate dinamiche della Natura. Tra le citazioni più care a Peppe due in particolar modo le eredita sempre attraverso la figura paterna: “nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma”, come mantra per evitare che si sprecasse il cibo, gli avanzi e gli scarti, ed “la riconoscenza degli animali supera di gran lunga quella degli esseri umani”, come modo per celebrare il suo personale rapporto con la natura.
Inizia ad operare nel mondo del latte da assoluto autodidatta, convinto che ci fosse qualcosa di atavico, quasi di mistico, che avrebbe guidato il suo fare. E non è un caso se oggi ricopre il ruolo che gli compete e viene definito l’ideatore del caseificio diffuso.
Tra i suoi hobbies la lettura e il cinema, anche se per il poco tempo coltiva di più la passione per l’enogastronomia, andando alla ricerca di nuovi sapori e nuovi modelli di cucina, riscoprendo anche nuove produzioni e cantine. Qualcuno volò sul nido del cuculo e C’era una volta in America, sono le sue pellicole preferite e questo anche per quanto attiene ai registi e al cast di interpreti. Il libro dello chef Massimo Viglietti dal titolo “MeTe” gli è piaciuto un sacco per l’essere visionario, particolare ed autobiografico, assieme a “L’Anima dei Luoghi” di Carlo Truppi e James Hillman. Ama la musica in generale, purché sia buona e sfiori la sua sensibilità, non escludendo Fabrizio De André, Lucio Dalla e il Jazz. La vera attenzione e passione del suo tempo libero in realtà è tutta dedicata alla famiglia, specialmente ad Angelo e Beatrice, rispettivamente di 12 ed 8 anni.
Quando hai realizzato per la prima volta che avresti fatto questo mestiere?
Non sono nato in questo mondo e non ho ereditato il patrimonio di sapienza che generalmente viene tramandato da padre in figlio. Il fardello, a volte pesante, della “tradizione di famiglia” me lo sono risparmiato.
Non esiste un momento zero o una folgorazione, la passione in me si è sedimentata nel tempo. Poter vedere pure il figlio di un colono armeggiare con attrezzi e guidare il trattore, era per me una forma eroica di vita e di saper fare cui anelavo, provavo ammirazione per quella manualità. Collaborare alla vita nella comunità rurale, vivere di queste cose e soprattutto poterlo fare all’aria aperta. Queste le primissime leve motivazionali.
Per me partecipare a tutto questo, poterci essere, era un privilegio e non una privazione, nella stessa misura in cui andare a pascolare le pecore era un premio e non una mortificazione, a mio avviso. La caseificazione quindi non l’ho mai vista come un lavoro, bensì come una scelta di vita appassionata che nel brevissimo tempo è diventata amore.
Questo accadeva oltre 40 anni fa, non era mica come oggi che si tende ad enfatizzare ogni cosa, piuttosto che andare alla ricerca di un recupero a tutti i costi, spesso montato ad arte dai soliti radical chic o rampolli di benestanti.
All’inizio non sono certo mancati quei pregiudizi e l’arroganza canzonatoria da parte di chi vedeva nel figlio di un medico che sceglie la pastorizia alla carriera come una sconfitta, però ho continuato ad andare per la mia strada, senza darmene troppa cura.
La realtà dei fatti ha provveduto a riportare tutto in un alveo di concretezza e realismo.
Quale è stata l’esperienza che ha costituito una svolta nella tua attività di mastro casaro?
Dall’attività di allevatore sapevo che dentro di me il passaggio successivo sarebbe stato quello di produrre formaggi. Ma nel ’92, dopo aver acquisito un buon patrimonio zootecnico, il mercato era decisamente diverso e, per necessità economiche, ho dovuto inizialmente vendere il latte.
Ero comunque un pioniere nell’ovino-caprino in quanto solo ad avere una sala di mungitura dedicata.
È andata avanti così per un po’, almeno fin quando decisi di investire in un piccolo laboratorio di produzione di formaggio, trasformando la metà del latte e vendendo l’altra. I risultati furono davvero incoraggianti e ricevetti anche un articolo di Luciana Squadrilli sul Gambero Rosso.
Quel riconoscimento fu, al di là dell’articolo, un motivo per alzare l’asticella e puntare sulla mia passione, benché da autodidatta.
Dopo i primi 2 anni di caseificazioni da un lato eroiche e dall’altro avanguardiste, ho deciso di investire tutto quello che potevo anche sulla formazione. Il fatto di non aver ereditato nessun tipo di conoscenza era il punto di forza per essere creativo ed indagare costantemente sui criteri di allevamento, sul ciclo biologico di ruminanti e sulle varie strategie di caseificazione, incidendo insomma sulla cosiddetta “tavola” intonsa e senza dover ricalcare su cose già scritte. Insomma una storia nuova.
Curioso e affamato di conoscenza, eravamo ancora negli anni ’90, inizio a viaggiare per andare a conoscere realtà similari che potessero ispirarmi e dalle quali potessi trarre dei modelli da plasmare nella mia azienda. Il Nord Italia e la Francia sono le mie mete più frequenti, senza trascurare la Sicilia, la Basilicata e il Cilento.
Assenza di tradizione come un vantaggio e non un deficit. Da queste esperienze modulo la mia filosofia di lavoro e invento la mia personale tradizione.
Cosa contraddistingue l’Italia nella produzione di formaggio e nella filosofia rispetto agli altri Paesi?
L’Italia detiene un patrimonio inestimabile di circa 500 formaggi tipici: essi testimoniano la nostra millenaria cultura gastronomica. Il nostro Paese vanta una conformazione geografica e una ricchezza di aree e micro aree assolutamente ineguagliabile, bagnata da due mari e attraversata da catene montuose imponenti, possiede una biodiversità unica. Tutto ciò determina un’entusiasmante varietà di formaggi di latte vaccino, latte pecorino, latte caprino e latte bufalino: paste pressate, paste molli, croste fiorite, formaggi erborinati, formaggi stagionati e le paste filate ne sono una lampante dimostrazione. Accade spesso che un formaggio prodotto in due realtà appartenenti allo stesso distretto abbiano caratteristiche aromatiche ed organolettiche diverse e che entrambi raccontino una piccola grande storia a modo loro.
Questa è la grandezza dei formaggi italiani.
Dell’estero posso soltanto dire che esistono delle aree a grandissima vocazione casearia, sicuramente con le loro peculiarità, ma neanche lontanamente con la stessa generosità con la quale Natura ci ha dispensato la materia prima ed i vari terroir. Certo va detto che non mancano le maestranze fuori dall’Italia e c’è una maniera di rispettare il capitale umano e di fare business che da noi purtroppo manca.
E la Campania dalle altre regioni?
La Campania è caratterizzata dalla produzione di paste filate e in questo scenario la Mozzarella di Bufala campana dop recita un ruolo da protagonista. Interessante e assolutamente rappresentativa è anche la produzione di paste filate stagionate come il Provolone del Monaco della Penisola Sorrentina e dei Monti Lattari, oltre che del Caciocavallo Podolico sia in provincia di Benevento, che di Caserta, Salerno e Avellino. Però la produzione di caciocavallo riguarda più in specificatamente l’Irpinia, l’area del Matese, il Cilento e parte del Sannio.
Come si è evoluto il mondo dei formaggi negli ultimi anni?
La mia esperienza di allevatore mi porta ad indagare con interesse e competenza i processi di filiera e la mia filosofia è che al centro del ragionamento ci sia il latte, quello fatto in campo prima che in stalla, quello munto da animali felici. Nel pieno rispetto di una grande materia prima i procedimenti di produzione sono all’insegna dell’assoluta artigianalità: latte, crudo possibilmente, caglio e sale gli ingredienti; tini, culle, vasche e braccia le attrezzature. Tutto ciò non deve trarre in inganno però: il concetto dell’artigianalità deve essere contestualizzato alle esigenze e alle legittime aspettative del mercato contemporaneo, perciò grande utilizzo di tutta quella tecnologia necessaria a monitorare il prodotto dall’inizio alla fine del processo.
In altre parole la “concretazione” per come la intendo, ossia l’esplicitazione di cosa voglia dire coniugare la tradizione con l’innovazione.
Oggi il mio intento è quello di rafforzare e strutturare sempre meglio il concetto di caseificio diffuso attraverso il quale selezionare solo il meglio delle produzioni: la stagionalità, lo stato fisiologico dell’animale, il periodo di lattazione, lo stato dei pascoli sono elementi essenziali per determinare caratteristiche del prodotto finale che esulano dall’immagine di qualità standard.
Per ottenerle, bisogna ricercarle ed andarle a prendere nel posto e nel momento giusto.
I vari accordi sanciti con alcune aziende di trasformazione vanno oltre il mero rapporto di Private Label e si fondano su azioni di assistenza e consulenza che riguardano tutto il processo di produzione, condividendo scelte e decisioni.
L’uomo è l’unico mammifero che consuma il latte dopo lo svezzamento, fa male, fa bene? Ultimamente poi si sta parlando molto del kefir e di biodisponibilità degli alimenti in generale, ma cosa comporta il consumo di formaggio? Ci sono categorie casearie più indicate delle altre?
La biodisponibilità può variare in relazione a numerosissimi fattori, dipendenti in parte dalla natura dell’alimento ed in parte dalle caratteristiche dell’organismo che lo assume. Non mi avventurerei in analisi troppo profonde, che peraltro esulano dalle mie competenze, però qualche considerazione generale la farei. In merito al beneficio di alcuni alimenti rispetto ad altri prenderei a prestito una delle espressioni più ricorrenti del mio amico prof. Michele Scognamiglio: “non esiste un alimento che, assunto singolarmente, faccia completamente bene o completamente male”.
Posto l’assoluto buon senso di tale affermazione, direi, relativamente all’assunzione di latte in età adulta, che se possibile lo ridurrei. Per quanto riguarda invece i formaggi, largamente e diffusamente demonizzati, riporterei il focus del ragionamento su più considerazioni, possibilmente meglio ponderate.
Ad esempio, Il profilo lipidico del latte di capra è particolarmente interessante: le molecole di grasso del latte di capra sono più piccole e più “aggredibili” dalle nostre lipasi, cioè gli enzimi che digeriscono i grassi. In più, il latte di capra contiene una maggior quantità di acidi grassi a corta e media catena: tali molecole non hanno bisogno di una predigestione in quanto possono essere assorbite direttamente a livello dell’intestino e inviate al fegato.
Inoltre, a seconda dell’alimentazione degli animali, il latte di capra può avere un più alto contenuto di acido linoleico coniugato, che sembra avere un’azione anticancerogena, antitrombotica e immunomodulatoria. Per quanto riguarda la concentrazione di minerali e vitamine, il latte di capra presenta un elevato contenuto in potassio, calcio, magnesio, fosforo e riboflavina, mentre la quantità di selenio, utile per un buon funzionamento del sistema immunitario, è simile a quella del latte materno. Un altro aspetto positivo è la ricchezza di aminoacidi solforati, in particolare la taurina, cruciale per la funzionalità del sistema nervoso.
Un ulteriore vantaggio del latte di capra è che viene secreto con un processo simile alla secrezione del latte materno. Il latte viene prodotto formando goccioline contenenti proteine, lattosio, minerali e vitamine all’interno delle cellule nella ghiandola mammaria e viene secreto sia attraverso la secrezione merocrina (le cellule che producono latte rilasciano le gocce di latte senza la perdita di altri elementi cellulari), che attraverso la secrezione apocrina, in cui insieme alla secrezione delle gocce di latte vengono rilasciate anche altre componenti cellulari. Quest’ultimo processo è maggiormente presente nelle capre rispetto a quanto si verifichi nelle vacche e sembra che per tale motivo, il latte di capra, come il latte materno, contenga numerose particelle citoplasmatiche. Si pensa che proprio queste particelle citoplasmatiche conferiscano al latte di capra e al latte materno numerose componenti cellulari come nucleotidi e aminoacidi liberi.
Questo breve excursus per rappresentare quanto la conoscenza possa orientare scelte consapevoli e responsabili, prediligendo una certa materia prima o comunque prodotti che scaturiscono da eccellenti fermentazioni e stagionature.
Parlaci della tua personale filosofia dal pascolo alla produzione fino all’affinamento, soprattutto cosa si intende per “caseificio diffuso”?
Clima, Terroir, Animale e Uomo, contaminazioni di intercultura, interreligione, altre biodiversità, senza scalfire il nostro patrimonio ma esaltarlo e proporlo sotto una luce nuova e inedita. Manutenere l’eredità della terra con piccoli cambiamenti per materiali o immateriali che siano, in maniera inclusiva e sostenibile. Ben intenso che la sostenibilità sia anche sociale ed economica, oltre che ambientale. È la voglia di guardare oltre e superare con nuovi stimoli ad alternative scioccamente immutabili. Oltretutto caseificio diffuso per me significa salvaguardia di paesaggio e comunità rurali, in un’ottica di competenze ed economie circolari che partono dall’analisi del suolo al filo d’erba, fino alla mungitura, con la consapevolezza di cosa l’alimentazione del rumine apporti nel latte possibilmente.
Un formaggio che ami produrre e che ami mangiare…
Amo produrre ciò che mangio e amo mangiare ciò che produco. Non ho una predilezione specifica e ciò non significa che io non sia selettivo, semplicemente, come per il vino, esiste un formaggio per ogni giorno e tutti meritano di essere valorizzati a proprio modo, con la consapevolezza di ciò che stiamo mangiando.
Una tua giornata tipo…
È la tipica giornata di 32 ore. Il desiderio di avere più tempo a disposizione, con la consapevolezza che bisogna estromettere ogni delirio di plasmare il tempo. Oggi è fatta di organizzazione e programmazione, di pubbliche relazioni. La levataccia è tale da essere a Roma già alle 6:30, un poco come quando seguivo la stalla e tutti i processi. Seguo sempre la filiera. Bisogna comprendere l’attività ed accettare che non esistono orari specifici. La giornata tipo ha una dimensione piuttosto fluttuante insomma.
Il tuo ultimo successo?
È stato un onore e un privilegio essere diventato con la mia linea casearia fornitore della Casa Pontificia. Sicuramente un riconoscimento molto lusinghiero, consolidato grazie alla qualità dei formaggi.
Marino Brocco, responsabile commerciale non posso non ringraziarlo, in quanto a persona di valore e corresponsabile di questo ulteriore traguardo.
Ho anche un deposito con una rete distributiva molto articolata su Roma. Da poco abbiamo acquisito un’azienda agricola che dovrebbe preludere un passo avanti della Optimum Sancti Petri con performance con una maggiore strutturazione sul mercato, frutto di una programmazione che agli inizi poteva sembrare utopistica fino ad assumere connotati di fattibilità e quindi realizzazione. Ci fanno guardare avanti con ottimismo.
Cosa ti ha persuaso a diventare partner di Mosaico per Procida e cosa ti ha dato esserne parte?
L’interesse su un’iniziativa come quella del Mosaico per Procida è assolutamente contigua a quanto ci siamo detti finora e al concetto di inclusione di cui il caseificio diffuso è parte. Ho amato il tentativo coraggioso, tra l’altro ben riuscito, di rompere gli schemi con intelligenza divergente, eversione e buon senso, contento che il dialogo di Mosaico abbia creato un perimetro più largo, una visione che esprime bene ciò che io intendo Umanesimo, novità e rigenerazione, traguardo comune. Mosaico ha rappresentato una visione molto simile a quella che adotto nel mio lavoro e che ha messo assieme areali, uomini, realtà produttive, disegni, sogni e menti, in un prodotto unico nel suo genere, nell’etichetta, nella forma e nel contenuto. Mi ha donato un’esperienza umana di spessore assoluto, di partecipazione e possibilità di frequentare palcoscenici diversi e di grande prestigio, di sentirmi veicolato come azienda e come persona in un contenitore importante come quello di Procida Capitale. Tutto questo ha consentito a me di avere una forza di dialogo nelle relazioni tra amici e partner che mi hanno portato alla realizzazione del Piatto per Procida, per non parlare dell’esperienza significativa di portare InCanto diVino a Sua Santità.
Al di là della figura paterna e delle tante persone operose che hai incontrato sul tuo cammino c’è qualcuno in particolare?
Di persone e anche personaggi ne ho incontrati davvero tanti sulla mia strada e ne incontro ancora tanti anche oggi, anche importanti e utili alla mia formazione di uomo e professionista, ma quelli che ricordo sempre con maggiore empatia, su cui spesso mi ci applico nel tentativo di creare sinergie e da cui assorbo entusiasmo e ottimismo, sono giovani coraggiosi, sconosciuti ai più, che hanno scelto di resistere.
Cosa desideri di più per il futuro e cosa suggerisci ad un giovane che vuole avviarsi nel percorso di mastro casaro?
Auspico che questo settore della trasformazione lattiero casearia viva una primavera di rinnovamento fatto di gente appassionata, pregna di operatori consapevoli e di una politica più oculata. Sogno di portare il settore lattiero caseario al prestigio del settore enologico e sono certo che il tipo di azioni serva molto a far sì che i giovani che oggi guardano a questo mondo, anziché in maniera dubbiosa, in modo fiducioso. Il formaggio è stato troppo vilipeso. Un giovane deve avere amore e non passione, la passione è estemporanea e non dura, l’amore invece lo vivi giorno dopo giorno, ricordandoci che i giovani rappresentano il presente e non il futuro, perché sono già venuti al mondo. Studiare, studiare, studiare, mai aver paura di coniugare il termine cultura con un ambito che solo per gli stolti ritengono non abbia nulla a che vedere con la cultura e la professionalità. Vivere le scelte con coraggio e convinzione. Lavorare, lavorare, lavorare.