Sono trascorsi oltre quaranta anni da “Il fascino discreto della borghesia”, il film che ha simboleggiato in modo memorabile questa classe. Era il 1972 e il regista Luis Buñuel, spagnolo scomodo al regime franchista e irriverente verso ogni potere, primo fra tutti quello ecclesiastico, girò in Francia un film che ancora oggi mantiene inalterata la sua godibilità.
La trama surreale, come molte delle storie buñeliane, propone quasi come un vecchio disco rovinato che si inceppa e riparte la sequenza di un gruppo di commensali ben vestiti e di chiara estrazione sociale borghese che, attorno a una tavola imbandita, comincia a banchettare senza mai riuscire a portare a termine “l’impresa”.
Ogni tentativo di gustare le pietanze è interrotto da un imprevisto spesso incredibile (uno fra tutti: un attacco terroristico) che costringe i protagonisti ad abbandonare la scena per scappare senza portare a termine il pasto.
Le loro fughe, per quanto rocambolesche e precipitose, tra forze militari, terroristi, servitù, molta noia, sesso e morte, non fanno mai perdere loro l’aplomb così che, con l’eleganza che li contraddistingue, continuano a camminare sicuri e saldi su una strada asfaltata verso il niente.
L’immagine che ogni spettatore ricorda di questo film è soprattutto questa: una passeggiata verso l’ignoto simbolo, per Buñuel, di una classe falsa e vacua, senza passioni, per certi versi mostruosa, pronta anche a cambiar pelle e riciclarsi pur di sopravvivere.
Oppure anche ad annientarsi come mostra Marco Ferreri con il suo film grottesco “La Grande abbuffata” (1973) rappresentazione del senso di inutilità e di cupio dissolvi di questa classe.
Qui quattro amici si danno appuntamento in una lussuosa villa alla periferia di Parigi dove si riuniscono davanti ad una tavola luculliana per compiere l’estremo atto: suicidarsi facendo indigestione. Attraverso i quattro protagonisti Ferreri stigmatizza altrettanti prodotti borghesi: la giustizia, l’arte, il cibo e l’amore galante che, per la legge del contrappasso, nell’orgia gastronomica si “trasformeranno” in flatulenze, deiezioni e altre scene estreme di manifestazioni di bisogni e istinti primordiali. Ma mentre il film di Buñuel surreale e, per alcuni versi, criptico vinse l’Oscar come miglior film straniero, quello di Ferreri, feroce critica alla società del benessere e dei consumi dominante negli anni Sessanta, fu pesantemente contestato alla sua proiezione al festival di Cannes, salvo poi ottenere un grande successo di pubblico nelle sale.
Pochi anni prima (era il 1968) anche Pasolini con “Teorema” (film sequestrato per “oscenità e, nel contempo, insignito di un premio dalla Chiesa Cattolica) aveva dato il suo contributo alla rappresentazione di una classe difficile da decodificare.
In “Teorema” un giovane sconosciuto, bello come una rappresentazione iconografica, arrivava misteriosamente in una famiglia borghese di Milano seducendo tutti i suoi componenti. Il contatto sessuale dell’ospite con, nell’ordine, la domestica, la madre, la figlia, il figlio e, infine, il padre agiva da detonatore di energie represse prima di scomparire.
Tutti uscivano profondamente turbati dalla rivelazione che la “normalità” vissuta fino ad allora era solo una recita e, pur nella rivoluzionaria trasformazione personale (la madre finirà per concedersi al primo venuto, la figlia diventerà catatonica, il figlio abbandonerà la famiglia, il padre devolverà la fabbrica a propri operai…), a ciascuno era offerta l’occasione di esprimersi, forse per la prima volta, nella propria autenticità.
Tra il 1960 e il 1964 il regista di Ferrara Michelangelo Antonioni gira la sua celebre tetralogia “L’avventura”, “La notte”, “L’eclisse” e “Deserto rosso” con cui rappresenta personaggi di una classe in piena crisi di alienazione e incomunicabilità metafora del dissidio tra un “vecchio” che implode e un “nuovo” che fa paura ai quali faranno seguito, non a caso, film sulla contestazione e il sovvertimento della società dei consumi (“Zabriskie Point” del 1970) e sulla resa davanti alla impossibilità di penetrare la realtà (“Professione reporter” del 1975).
L’attuale panorama cinematografico non sembra offrire altrettante riflessioni su quella che ora, con un linguaggio più moderno, viene denominata classe media.
Oggi, anche a causa della crisi che attanaglia buona parte dell’Occidente, si parla ancora di proletariato e operai in grande difficoltà, ma la borghesia pare misteriosamente (o simbolicamente) essersi eclissata dagli schermi.
O forse no, forse come nel film di Buñuel, la classe media cammina per una strada parallela, senza senso o si è trasformata in un’altra “sostanza”, come nel film di Ferreri, per cambiare vita e “sorprenderci” come il poeta visionario Pasolini ha immaginato.
Ho da un pò l’immagine di un film, penso francese con Alain Delon, che inizia con il padre in ospedale accanito anticonformista cei fin di vita viene visitato dai suoi due figli Delon e una attrice francese di cui non ricordo il nome. Conrariamente al padre Delon è invece perfettamene inserito nella buona società borghese, se on ricordo male lavora nel mondo della finanza. Non riesco a dirti altro, ma vorrei tanto rivedere questo film di cui non ricordo il titolo. Puoi aiutarmi?
Ciao Luigi, dalle informazioni che mi fornisci non riesco a risalire al titolo del film. Proverò a cercare ancora ma il fatto che ci siano pochi degli elementi della trama e che Delon interpreti spesso personaggi fuori dalle righe non è di aiuto per una efficace ricerca per “tag” di questo film che ti ha tanto colpito.
Confido però ancora su Google e su qualche fortunata casualità.