Susan Abulhawa
, Prima edizione ne “I Narratori” aprile 2011. Traduzione dall’inglese di Silvia Rota Sperti
“Quaranta generazioni di vite, ora spezzate. Quaranta generazioni di nascite e funerali, di matrimoni e danze, di preghiere e ginocchia sbucciate. Quaranta generazioni di peccati e carità, di cucina, duro lavoro e ozio, di amicizie, ostilità e accordi, di pioggia e corteggiamenti. Quaranta generazioni con i loro indelebili ricordi, segreti e scandali. Tutto spazzato via dal concetto di diritto acquisito di un altro popolo, che si sarebbe stabilito in quello spazio rimasto libero e l’avrebbero proclamato, con il suo patrimonio di architettura, frutteti, pozzi, fiori e fascino, retaggio di forestieri ebrei arrivati da Europa, Russia, Stati Uniti e altri angoli del mondo.”
Yaheya e Bassima, Hassan e Darwish, Dalia, Yussef e Isma’il, Fatima, Amal e Majid, Falastin e Sara. Sono loro i protagonisti di questo libro unico e indispensabile. Susan Abulhawa ha scritto un romanzo toccante e vero, che parla di terra, di esilio, di guerra, di famiglia, di amore, di perdono. Tra le sue pagine si alternano delle voci. Le voci delle generazioni colpite e afflitte da una guerra che non hanno voluto, che non vogliono, ma che non possono evitare. E queste voci raccontano i profumi, le atmosfere e i suoni di Jenin. Un’opera assolutamente femminile, in cui l’autrice si cala nel contesto di una famiglia che viene privata della sua quotidianità, decimata dalle ingiustizie. Le risate, i piante, i sogni, la paura vengono descritti da Susan con una semplicità e una purezza tali che pare di sentirli con le proprie orecchie e sulla propria pelle. “Ogni mattina a Jenin” è un romanzo toccante e passionale, che grazie all’intreccio storico sul quale è tessuta la trama, conduce il lettore alla conoscenza, alla riflessione, alla consapevolezza.
“La mattina dopo, i profughi si alzarono dalla loro inquietudine con la consapevolezza che stavano per essere lentamente cancellati dal mondo, dalla sua storia e dal suo futuro.”
Si, perché parla anche di un popolo che è stato sradicato dalla sua terra e un popolo che cerca una terra dove ritrovare la proprie radici.
“Possono portarti via la terra e tutto quello che c’è sopra, ma non potranno mai portarti via quello che sai o le cose che hai studiato.”
A partire dal 1941 intere famiglie palestinesi subiranno ingiustizie: Yehya non potrà più toccare le sue olive e la sua uva, Bassima dovrà rinunciare alle sue bellissime rose e Dalia, beduina ribelle, dovrà rinunciare al suo piccolo Isma’il, rapito per essere adottato da una famiglia israeliana. E attraverso i decenni la tragedia si ripete, più e più volte, ma non riuscirà mai a cancellare il ricordo della libertà e la speranza. La terra è un argomento importante per “Ogni mattina a Jenin” non solo per la tragedia del diritto di proprietà di un popolo sull’altro ma anche per l’amore delle proprie origini. Più di una volta ho sentito la voce di Amal che ripeteva “Non dimenticare mai chi sei e da dove vieni”. Altro tema centrale è quello della forza della cultura. Che eleva, elimina i pregiudizi, rende sensibili, apre la mente. Non a caso il razzismo trova terreno fertile dell’ignoranza ed è li che cova il suo germe fino a diventare odio e violenza.
Preludio
Amal avrebbe voluto guardare meglio negli occhi del soldato, ma la bocca del fucile automatico contro la fronte non glielo permetteva. Era sufficientemente vicina per vedere che portava le lenti a contatto. Si immaginò il soldato curvo su uno specchio che si infilava le lenti negli occhi prima di vestirsi e andare a uccidere. Che strano, pensò, quello che ti viene in mente tra la vita e la morte. Si domandò se i soldati si sarebbero dichiarati pentiti dell’uccisione “accidentale” di una cittadina americana. O se la sua vita sarebbe semplicemente finita nel marasma del “danno collaterale”. Una solitaria goccia di sudore scese lungo il volto del soldato. L’uomo batté le palpebre, più volte. Lo sguardo fisso di Amal lo metteva a disagio. Aveva già ucciso altre volte, ma mai guardando la vittima negli occhi. Amal lo capì, e avvertì la sua inquietudine in mezzo alla carneficina che li circondava.
Quarta di copertina
Attraverso la voce di Amal, la brillante nipotina del patriarca della famiglia Abulheja, viviamo l’abbandono della casa dei suoi antenati di ‘Ain Hod, nel 1948, per il campo profughi di Jenin. Assistiamo alle drammatiche vicende dei suoi due fratelli, costretti a diventare nemici: il primo rapito da neonato e diventato un soldato israeliano, il secondo che invece consacra la sua esistenza alla causa palestinese. E, in parallelo, si snoda la storia di Amal: l’infanzia, gli amori, i lutti, il matrimonio, la maternità e, infine, il suo bisogno di condividere questa storia con la figlia, per preservare il suo più grande amore.
La storia della Palestina, intrecciata alle vicende di una famiglia che diventa simbolo delle famiglie palestinesi, si snoda nell’arco di quasi sessant’anni, attraverso gli episodi che hanno segnato la nascita di uno stato e la fine di un altro. In primo piano c’è la tragedia dell’esilio, la guerra, la perdita della terra e degli affetti, la vita nei campi profughi, come rifugiati, condannati a sopravvivere in attesa di una svolta. L’autrice non cerca i colpevoli tra gli israeliani, che anzi descrive con pietà, rispetto e consapevolezza, racconta invece la storia di tante vittime capaci di andare avanti solo grazie all’amore.
Susan Abulhawa è una cittadina americana che nasce da una famiglia palestinese in fuga dopo la “Guerra dei Sei Giorni”. Trascorre i suoi primi anni di vita in un orfanotrofio di Gerusalemme e i successivi in paesi diversi (tra questi Kuwait e Giordania). All’Università del South Carolina si laurea in Scienze Biomediche e seguì una brillante carriera nel settore medico. Attualmente vive in Pennsylvania e grazie ai suoi numerosi saggi, alle sue partecipazioni a convegni e alla sua attività in ambito umanitario è conosciuta in tutto il mondo. Ha fondato l’associazione Playgrounds for Palestine, che si occupa soprattutto dei bambini dei Territori Occupati. I suoi articoli sulla situazione palestinese sono apparsi su numerose riviste, tra le quali «New York Daily News», «Chicago Tribune», «Christian Science Monitor» e «Philadelphia Inquirer». Nel 2006 Sperling & Kupfer pubblica il suo romanzo “Nel segno di David”, nel 2011 esce per Feltrinelli lo stesso romanzo con il titolo di “Ogni mattina a Jenin”, e nel 2015 “Nel blu tra cielo e mare”, sempre per Feltrinelli.