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Il quinto passo è l’addio

è terzo romanzo di Sergio Atzeni, edito da Mondadori nel 1995. La pubblicazione da parte della più importante casa editrice italiana era un evento raro, in un’epoca storica in cui gli autori sardi erano pressoché sconosciuti nel panorama nazionale, oggi è normale sentir parlare di Niffoi, Murgia, Angioni, Fois o Soriga, allora no. La Sardegna intera, in quegli anni, era un oggetto sconosciuto. Non era iniziata quella stagione felice di produzione culturale che continua ancora oggi. Vent’anni dalla morte di Atzeni testimoniano altrettanti anni di costante maturazione artistica, letteraria, cinematografica, musicale, architettonica e di continua innovazione in tutti i campi. Un altro mondo quello odierno, che lo scrittore e poeta Sergio Atzeni, ha in parte contribuito a far nascere.

Atzeni è fin da subito uno scrittore straniero in casa propria, un alieno con i piedi ben saldati all’anima della terra natia. All’inizio non molto amato dai suoi conterranei, editori sardi in primis, e fu motivo di grande sofferenza. Come sardi abbiamo bisogno, più di altri, del riconoscimento della terra madre. La grande letteratura sarda era allora rappresentata solo dai nomi importanti come Deledda, Satta, Dessì, o dal mito di Padre padrone di Ledda, tutti ambientati nella Sardegna rurale, un modello di società legata a valori sociali che non esistevano più. Un contesto letterario che non rispondeva più alla vita reale.

Prima di essere un grande narratore, Atzeni cerca di essere un uomo, di riconoscere i propri limiti attraverso la scrittura. Sperimenta, immagina, crea poesie e racconta la cronaca dei suoi anni. La mescolanza tra la lingua italiana e locale, l’uso dello slang, i diversi piani di lettura. Inventò un linguaggio nuovo.
Atzeni, per i ragazzi sardi di quegli anni, e ancora oggi, rappresentava un luogo in cui finalmente riconoscersi. Offrì uno specchio cittadino in letteratura, dove poter dialogare con i personaggi, riconoscere i luoghi della quotidianità. Riusciva a far sentire il lettore protagonista, non solo spettatore della storia, ma perfettamente integrato nella grande letteratura. Cagliari era una città lontanissima dall’offerta culturale odierna. Non esistevano grandi teatri, festival letterari o musicali, l’abbandono urbanistico e architettonico fermava la città bianca in una dimensione temporale che non prevedeva cambiamenti. Sembrava tutto immobile, senza che gli uomini potessero farci nulla, e senza riconoscere un valore aggregante nella propria cultura. Il solito destino ineluttabile di millenaria memoria.
La magia della prosa di Atzeni aveva la capacità di farci riconoscere vivi, come sardi, italiani ed europei, e infine anche mediterranei.

Il quinto passo è l’addio

Atzeni si presenta come un umile osservatore, che mette in luce gli aspetti nascosti della società metropolitana. Finalmente uno scrittore che parlava della città! Delle sue storie e abitudini, di uomini e donne che non avevano una missione particolare, non erano chiamati dalla storia a dover compiere scelte definitive per la salvezza dell’umanità.
Uomini normali, come Ruggero Gunale, protagonista de Il quinto passo è l’addio, spinti dalla necessaria e sofferta ricerca di qualcosa che non trovano. Il libro parla della partenza dall’isola, una partenza che ha diversi significati, non solo una necessità materiale ma umana e spirituale. Il protagonista ha bisogno di abbandonare la parte di se stesso che non riconosce più, una fase di immobilismo che il viaggio, forse, contribuirà a superare. Il dialogo che il trentenne tiene con se stesso, già dalle prime righe suggerisce una sorta di “saudade” sarda, una nostalgia per qualcosa che ancora non conosce. Ciò che invece ha conosciuto lo racconta alla sua memoria durante il tragitto, sopra il ponte della nave che lo porterà sul continente guardando per l’ultima volta la città che si allontana. Un viaggio onirico, un sogno dove confonde i ricordi, passioni e speranze. Il racconto dura esattamente il tempo della traversata con la nave della Tirrenia, unico modo per lasciare l’isola in quegli anni. Il mare è parte integrante del viaggio, materia che unisce e divide l’isola dal resto del mondo. Partire via mare significava affrontare il distacco lentamente, e lentamente dimenticare tutto per ricominciare un’altra vita. Non è solo un allontanamento dalla città di Cagliari, che descrive con amore e rabbia:

Ruggero Gunale guarda con occhi umidi e impietriti la città che si allontana: la croce d’oro sulla cupola della cattedrale e attorno a corona digradando i palazzi color catarro dei nobili ispanici decaduti, circondati da bastioni pietrosi invalicabili a piede d’uomo, dove pendono chiome di capperi al vento, di un verde che ride. Guarda i quartieri moderni fuori le mura scendere dai colli al mare oleoso e verde cupo, i bei palazzi e portici dei tempi di Baccaredda (scrittore e sindaco, amato e carogna) e il lascito architettonico di quest’epoca ai futuri: il cubo luttuoso e vitreo che nasconde i vicoli del porto e offende il municipio bianco e danzante cui si è affiancato con protervia da funzionario viceregio d’altri tempi (non è escluso che i futuri decidano di amarlo e cantarlo… o lo smonteranno vetrata per vetrata e lo sposteranno in campagna oltre Palli e invece delle nere geometrie che spengono la luce e l’allegria vedranno panchine, fontane, palme e jacarandas?).

Pensa al carattere della sua città, alle persone che ha conosciuto, a quelle con cui ha condiviso bellezza e miseria: “Ruggero Gunale guarda la città che si allontana. Saluta torri pisane e campanili. Sillaba a se stesso: “La mitezza non incute rispetto né suscita vero compatimento. Anzi: godono a schiacciarti.”

E ancora, una descrizione multientica e universale della capitale sarda, legata alle millenarie stratificazioni culturali: “La nave bianca si allontana e dietro un dente alto e bianco di calcare sparisce l’antica fortezza vedetta dei Fenici, l’avamposto d’Europa al respiro dell’Africa e d’Oriente alle porte d’Occidente, popolato da una scura genia parente di Annibale, adocchiato da predoni scalzi, battuto da tutti i venti, abitato da tutti i profumi e i fetori e da ogni genere d’ingegno e vizio e da qualche virtù, come ovunque siano uomini. Ruggero conosce i venti, i profumi, i predoni. Si crede principe di antica stirpe, è figlio di un fabbro e di una bruscia, è ignobile e folle come un muflone.

E’ un luogo comune quello che vede l’invidia come male principale dei sardi, perché è un difetto che appartiene all’umanità. Quello che Atzeni rimprovera è la nostra eccessiva vena polemica, incapace di costruire, anche sbagliando, anche rischiando di perdere tutto, ma capace di avanzare di un passo verso una società migliore. Quello che cerca di fare con i suoi articoli, contribuendo ad un dibattito continuo, con le disamine sulla società del malessere o nel sottolineare la voragine in cui precipitavano i dibattiti sull’identità e sulla lingua, oggi non ancora risolti. Possiamo leggere tutto in questo pezzo lucidissimo pubblicato il 7 maggio del 1995 dall’Unione Sarda

Ruggero Gunale si trova in una condizione di impossibilità di agire, governato dalla contraddizione, metafora della società sarda. Gunale vuole allontanarsi, dalla città che nella sua mente diventa grande e tragica. La sua esistenza è governata dalla contraddizione:

Crede che la sua testa sia la sala comandi di un mezzo di trasporto, abitata da presenze, o per meglio dire, entità. Cinque entità: lettore, nauta, scimmia, cacciatore e inquisitore che vagano e blaterano senza sosta e mai concordano su nulla, eccetto il comandamento: non uccidere”.

L’ultima entità è forse quella della maturità, incapace di dialogare, con l’assoluta certezza della morale che condanna tutti. La battaglia interiore e la voglia di sperimentare stili e linguaggi che parlavano al mondo, permettono allo scrittore di dialogare con Pasolini e Amado, ama Borges e Fante, torna in Sardegna per rievocare Bandinu, Satta e Gramsci.
Uno scrittore che inventò il concetto di “glocal”, globali a partire dal locale, mai il contrario. Descriveva una civiltà dinamica, una storia in movimento. Un libro questo che parla d’amore, non quello stereotipato, dalla linea regolare. Una passione senza futuro, una maledetta relazione incapace di costruire una casa comune. Squallore e poesia si accompagnano nel ritmo degli eventi, evocazioni colte e dialogo diretto, senza filtri semantici. Tensione emotiva, morale e culturale si avvicendano nello snodarsi della storia di Gunale. Una storia qualunque, un ragazzo si strada, pieno di sogni infranti e pronto a far morire quella parte di se che non procede, abbandonato alle onde del mare che lo porterà senza tanta convinzione verso altre esperienze. Quasi a riprendere la sua stessa vita…

Bisognerebbe ricordarlo in questo modo Sergio Atzeni, magari dedicandogli una via sul mare. Mare che permette alle civiltà come quella sarda di non morire, mette in guardia dalla strenua difesa di un’identità pura, invece frutto di secoli di stratificazioni, contro i nazionalisti di ogni latitudine che vogliono far credere di essere i migliori agli allocchi che vogliono abboccare.viasergioatzeni

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