Già nel 1834, Vittorio Angius segnalò Su Nuraxi di Barumini come monumento «maggiore», che «merita di essere considerato». Non stupisce dunque che nel 1997, a più di un secolo e mezzo dalla notizia riportata nel dizionario storico-geografico di Goffredo Casalis, «il gigante abbattuto» – così lo definì Giovanni Lilliu, padre dell’archeologia sarda e figlio di Barumini, dove era nato nel 1914 – abbia ricevuto il prestigioso riconoscimento Unesco.
Le motivazioni addotte dall’Agenzia Onu preposta alla salvaguardia del patrimonio mondiale si richiamano all’unicità del monumento, capolavoro del genio creativo umano e eccezionale testimone di una civiltà scomparsa. I primi interventi di scavo nel sito di Barumini furono intrapresi nel 1940 per iniziativa di Lilliu e proseguirono, sempre sotto la sua direzione, fino alla metà degli anni Cinquanta.
Erano gli albori della scienza archeologica – la tecnica stratigrafica si sarebbe affermata solo una ventina di anni dopo – eppure riportare alla luce Su Nuraxi fu un’impresa memorabile, che diede alla Sardegna la misura della sua grandezza fra le terre del Mediterraneo antico.
Ancora oggi, nonostante scavi moderni abbiano messo in evidenza nuraghi imponenti quali l’Arrubiu di Orroli, quello di Barumini resta «il nuraghe» per antonomasia, simbolo arcaico e allo stesso tempo contemporaneo dell’Isola. Il «gigante» si articola in un bastione quadrilobato, dal quale svetta la torre centrale (mastio), di forma troncoconica e datata alla prima fase di costruzione del complesso architettonico (Bronzo medio avanzato: fine del XV sec. a.C. – inizi del XIII sec. a.C.).
Il mastio, il quale in origine doveva raggiungere un’altezza di circa 19 metri, si compone di tre camere sovrapposte, sormontate ciascuna da una volta ogivale, cosiddetta a tholos, mentre le torri laterali si sviluppavano su due piani ed erano dotate di due ordini di feritoie. Il bastione è a sua volta compreso all’interno di un antemurale, rinforzato da cinque torri e trasformato nel Bronzo recente (inizi XIII sec. a.C. – fine XII sec. a.C.) in recinto eptalobato.
Si tratta di una vera e propria «reggia», in cui la vita si districava tra scale, passaggi intramurari, ponti mobili per accessi sopraelevati e un cortile a pianta semi-ellittica con un pozzo di acqua sorgiva profondo 20 metri. La maestosità della costruzione si manifesta anche nell’uso di massi poliedrici di basalto, provenienti dalla vicina Giara di Gesturi e disposti a incastro. Ai piedi della «fortezza», si estende un vasto villaggio sorto nel Bronzo Finale (fine XII – inizi IX secolo a.C.): a questo periodo appartengono la capanna 135, che ha rivelato un rituale di fondazione, e la capanna 80, detta anche «del Consiglio».
Dotato di un sedile circolare e di nicchie alle pareti, questo spazio era probabilmente destinato a riunioni con valenze politiche e religiose. Il villaggio ebbe un ulteriore sviluppo nella prima età del Ferro (inizi IX sec. a.C.- inizi VIII sec. a.C.), fase nella quale è possibile intravvedere una «progettazione urbanistica». Compaiono, infatti, stradine e canalette di scolo per le acque; le case pluricellulari di tipo «a corte» si arricchiscono inoltre di un atrio centrale. In alcuni ambienti – possibili «capanne del sudore» – sono stati scoperti bacili attribuibili anche a un culto delle acque. Alla fine dell’età del Ferro, il villaggio subì una devastazione, per poi essere rioccupato nelle epoche punica e romana (V secolo a.C. – III sec. d.C.) a scopo insediativo, funerario e sacro. I rinvenimenti archeologici testimoniano una frequentazione sporadica anche nell’Alto Medioevo, tra V e VII sec. d.C.
Dopo le indagini stratigrafiche condotte da Giovanni Ugas negli anni Ottanta del secolo scorso e nel 2003-2004 e 2007-2008 da Vincenzo Santoni, nel villaggio di Barumini è attualmente in corso una nuova campagna di scavi, diretta da Riccardo Cicilloni – ricercatore e docente dell’Università di Cagliari – in collaborazione con Giacomo Paglietti, assegnista di ricerca presso la medesima Istituzione.
L’esame del prezioso archivio fotografico di Giovanni Lilliu, scomparso nel 2012 all’età di novantotto anni, ha infatti permesso di individuare un’area ancora non «toccata» dagli scavi di Lilliu. Gli studiosi dell’Ateneo cagliaritano hanno proceduto all’esplorazione di una capanna, denominata 197, dove è stato individuato un pozzetto votivo legato a rituali di fondazione, elemento già riscontrato nella capanna adiacente, la 135. All’interno del pozzetto giacevano ancora un recipiente per scaldare i cibi (vaso calefattoio), una ciotola, ceneri, ossa di animali, carboni e semi: una cospicua dote di informazioni da analizzare con tecniche ancora non in uso mezzo secolo fa. L’analisi dei dati sta impegnando una trentina di studenti delle Università di Cagliari e Roma, e alcuni dottorandi sardi che effettuano – anche sotto la supervisione di Cicilloni – i propri studi a Granada.
La finalità didattica dello scavo non è un obiettivo secondario e il Comune di Barumini sostiene la formazione sul campo dei giovani archeologi offrendo vitto e alloggio, oltre che mettendo a disposizione dell’équipe attrezzi di lavoro e un fondo per restauri d’urgenza. Al Comune si affianca la Fondazione Barumini, ente che può contare su una sessantina di dipendenti, di cui cinquanta in pianta stabile e per la maggior parte baruminiensi. Sotto l’egida del Presidente – il sindaco Emanuele Lilliu – vengono gestiti il sito nuragico e un centro servizi. Dalla Fondazione dipende anche «Casa Zapata», dimora della nobile famiglia aragonese giunta in Sardegna nel XVI secolo al seguito dell’Infante Alfonso.
Il Palazzo fu costruito sopra il nuraghe Nuraxi‘e Cresia: le rovine del monumento riemersero negli anni Novanta durante i lavori di ristrutturazione dell’edificio, nel quale è stato allestito il Museo Archeologico di Barumini. Qui si trovano in mostra oltre centottanta oggetti – ceramici, litici, metallici, osteologici – molti dei quali affidati alle cure del locale laboratorio di restauro, dei quali è stato pubblicato di recente il catalogo. Tra i reperti spicca l’importante frammento di trave di olivastro ritrovato all’interno della torre principale de Su Nuraxi, che ha consentito la datazione della struttura al Carbonio 14; notevole anche il modellino di un nuraghe in calcare proveniente dalla «Capanna delle riunioni», che offre interessanti spunti per lo studio della forma originaria dei nuraghi. Il sito archeologico di Barumini conta decine di migliaia di visitatori l’anno.
Ma mentre ne ammiriamo la solidità delle «radici», ci auguriamo che esse possano espandersi e racchiudere in futuro la rete dei nuraghi sardi. Finora sull’isola ne sono stati recensiti circa settemila, la maggior parte dei quali lasciati al destino dei venti. Il numero elevatissimo di torri nuragiche sparse sul territorio rende problematica la loro gestione «globale» e l’assenza di fondi atti a conservarli li espone a degrado e scavi clandestini. Per questo la proposta di includerli simbolicamente nella lista del patrimonio mondiale assieme a Barumini sarebbe un primo passo per valorizzare la memoria di una civiltà tanto sconosciuta quanto sorprendente. Dal remoto passato, i nuraghi svettano nel presente, ancora un po’ chiusi nel loro mistero ma aperti alla conoscenza. Sentinelle del passato dell’Isola, ci ricordano che, malgrado il peso delle pietre, «passavamo sulla terra leggeri».
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