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Fin troppe volte, sia dall’interno che dall’esterno dell’isola, si evoca con orgoglio nostalgico come la Sardegna sia stata un tempo il granaio di Roma, a testimoniare che qui c’è stata una produzione di eccellenza e di abbondanza di grano, tanta da sfamare tutta Roma e buona parte della penisola.

Si evoca così la storia per dire che solo a volerlo potremmo nuovamente essere un polo di riferimento nel mondo, di abbondanza cerealicola. Il settore agricolo è nel vivo di una profonda crisi che sembra non trovare vie di uscita, nonostante le PAC a sostegno dei produttori e nonostante la consapevolezza diffusa di una produzione di pani, paste e dolci tipici che possono essere motore trainante di ripresa nell’agroalimentare, costantemente oggetto di attenzione nelle politiche di promozione e tutela della cultura e dell’economia sarda.

Il mito del granaio di Roma è una distorsione prospettica della realtà che non aiuta a risolvere il problema e che crea dei presupposti concettuali e ideologici falsi per un modello di sviluppo agricolo fallimentare in modo persistente.

Un po’ di numeri intanto. La Sardegna è stata nominata granaio di Roma durante l’occupazione dell’impero romano, verso il 250 a.C. in qualità di una produzione di grano tale da soddisfare il fabbisogno di 250.000 abitanti. Numeri importanti e di abbondanza per quei tempi, talmente importanti da obbligare i romani a costruire nuovi granai, ma numeri di certo ridicoli per il mercato attuale.

Poi di fatto la Sardegna diventa nuovamente granaio di Roma sotto il periodo fascista, grazie anche a imponenti bonifiche di terreni insalubri e ora disponibili allo sfruttamento e grazie ad una consistente infrastrutturazione insieme a soluzioni innovative. I terreni coltivati raddoppiano e spesso triplicano la resa per ettaro. Si passa dagli 8-9 quintali ai 16-20 quintali di grano per ettaro. La Sardegna è nuovamente un punto di riferimento importante nella produzione di cereali, insieme principalmente alle regioni del sud, ovvero Sicilia, Puglia, Lucania. Mussolini punta all’autonomia produttiva, sia per la produzione di pane sia per la pasta.

Perciò la realtà storica del mito del granaio di Roma ci dice sostanzialmente due cose:
1) lo sfruttamento dell’isola su una delle sue principali economie. Il grano non era faccenda in mano ai sardi a cui non rimanevano che briciole e fieno.
2) la Sardegna ha una cultura agricola e di produzione del grano millenaria, con terreni particolarmente adatti e fertili, ovvero è una delle sue risorse naturali più preziose e importanti.

Il riferimento all’isola come granaio di Roma andrebbe usato solo per quest’ultimo motivo, la dimostrazione di una risorsa di eccellenza. Per il resto c’è poco da andare orgogliosi e di parlarne con nostalgia, come se si trattasse di bei tempi. Rievocare quelle condizioni, desiderarle nuovamente, è come chiedere di essere ancora in una condizione di sfruttamento esterno e che non tiene minimamente in considerazione gli interessi locali.

Situazione attuale 

Oggi è necessario ragionare con una prospettiva diversa e per farlo si deve cominciare ad avere una reale consapevolezza di sé e del territorio, in modo da valorizzarlo con beneficio concreto.
Per prima cosa significa fare i conti con la geografia dell’isola e con le sue caratteristiche, cioè conoscerne a fondo la sua frammentarietà e irregolarità, ma anche purtroppo la sua inaccessibilità in varie zone un tempo coltivabili, vuoi per le servitù militari, vuoi per inquinamento conseguente agli insediamenti industriali nel petrolchimico, vuoi per le nuove forme di energia avide di ettari.

In seconda istanza si deve tenere conto della realtà globale e della sua aggressività ed efficacia. Oggi la competizione sul mercato non è più con il resto d’Italia, ma con un resto del mondo particolarmente competitivo per quantità e qualità.

Il Canada su tutti comanda il mercato del grano duro. Favorito da terreni piatti come un tavolo di biliardo e estesi oltre l’orizzonte riesce a dare vita a produzioni elevate mantenendo uno standard di valori qualitativi alto e costante. Significa, in poche parole, che nei suoi campi si riesce ad ottenere una resa di anche 100 quintali per ettaro di grano con proteine costanti sopra il 13% e un valore basso o quasi nullo di chicchi bianconati.

Tali condizioni preventive di eccellenza permettono al Canada di essere un punto di riferimento a livello mondiale e di imporre sul mercato il prezzo più alto. Ma questi risultati sono stati raggiunti anche e soprattutto grazie ad una politica agricola virtuosa, dove le migliori tecnologie sono a disposizione di ogni coltivatore, a prescindere dalle dimensioni della sua attività. Ogni raccolto viene analizzato e classificato in base alla sua qualità. Tutte queste misure hanno permesso al Canada di immettere sul mercato un cereale di qualità differenti e certificate con prezzi commisurati. Nella maggior parte delle produzioni di sfarinati di grano duro il cereale canadese è spesso irrinunciabile per ottenere miscele di macinazione stabili e di livello con il mercato della panificazione e pastificazione sempre più esigente.

A questo si devono aggiungere gli altri paesi, a partire dalla Francia, uno dei riferimenti internazionali sul grano duro, per quantità di produzione e qualità media. Grecia, Spagna, Ucraina, Messico, sono solo alcuni dei grandi produttori di grano. Tradotto vuol dire enormi quantità di grano duro sul mercato con prezzi insostenibili per il mercato della Sardegna.

Se questo è il quadro generale per la Sardegna il compito è a dir poco arduo. Non si può pensare all’isola come ad un luogo capace di competere con i numeri di produzione, non sarà mai possibile tirare fuori un prezzo di mercato competitivo e al tempo stesso vantaggioso per la filiera basandosi semplicemente sulle rese. Il rapporto tra costi e rese produttive sarà sempre sfavorevole rispetto alla diretta concorrenza.

In Sardegna, a parte il Campidano e una porzione del nord in Anglona e nella Nurra, spesso le coltivazioni sono di pochi ettari e distanti una dall’altra, su zone collinari. La disomogeneità dei terreni non gioca a favore dell’isola. Spesso le rese di queste coltivazioni sono di 20 quintali per ettaro e ovviamente non riescono ad essere competitive con le rese di 80 quintali per ettaro di altre zone ad altro sfruttamento.

Ciò non toglie che la coltivazione del grano duro in Sardegna ha numeri globali significativi e che sta conoscendo pure una timida ripresa, se è vero che le statistiche ci dicono che nell’annata 2008/2009 gli ettari coltivati sono stati 26.000, nel 2010 sono arrivati a 37.000 e attualmente ci si assesta intorno ai 40.000 ettari. Le rese medie isolane si attestano intorno ai 25/30 quintali per ettaro. Nel 2010, per far parlare ancora le statistiche, i produttori interessati sono stati 7.000 quelli specializzati nella cerealicoltura e 8.000 quelli in ambito zootecnico-cerealicolo.

Numeri che evidenziano una realtà ricca ma anche profondamente frammentata, con poco potere contrattuale. Spesso i costi che sostengono sono tali da dover vendere i propri raccolti ad un prezzo superiore del grano (migliore come qualità proteica e costanza di prodotto) che arriva direttamente dall’estero franco arrivo o che, in alternativa, si ritrovano a vendere sotto costo.

L’intervento principale che si è sempre cercato di mettere in attuazione, al fine di promuovere e tutelare il comparto del grano duro in Sardegna, è stato quello di definire una filiera diretta e chiusa che partisse dalla produzione, passasse per la prima e la seconda trasformazione e arrivasse così al consumatore finale. Tutti questi tentativi di filiera (le OP – Organizzazioni dei Produttori – ne sono esempio) hanno sempre riscosso scarsi risultati, per il semplice fatto di voler imporre dei prezzi fissi garantiti ai coltivatori, trovando di conseguenza l’ostruzione degli altri anelli della catena.

La visione protezionistica dell’anello più debole non trova efficace riuscita per la pretesta di porsi al di fuori del mercato agendo però all’interno dello stesso, esponendo gli altri elementi della filiera (molini, pastifici e panifici) in una condizione di rischio non sostenibile. Molti sono gli esempi di filiere che si sono realizzate nell’isola, nel tentativo di creare vere e proprie reti d’impresa dove i diversi attori agiscono nella visione comune di mettere a disposizione del consumatore prodotti che garantiscono qualità e produzioni interamente sarde, nel rispetto della tradizione e della cultura. Tutte realtà di nicchia che spesso hanno conosciuto anche vita breve.

Futuri possibili

La prima questione

che in realtà bisogna porsi è se la Sardegna gode di specificità sul grano per cui è in una posizione di vantaggio rispetto alla concorrenza e che la può inserire nel mercato globale con dei parametri di forza e di competitività. In caso contrario rischia di essere una battaglia persa in partenza e che segna il passo dei tempi. Sarebbe come pretendere di competere in una gara stando su una bici contro le auto. Per fortuna questa specificità esiste ed è dovuta al mix dei suoi terreni con il clima.

L’ isola ha la caratteristica che ha Cuba con i sigari: produce un grano con un sapore e qualità organolettiche unici al mondo, forse il migliore del mondo, cosa altresì riconosciuta in molta letteratura specializzata. Questo di certo deve essere il parametro su cui basare un nuovo modello di sviluppo della filiera del grano duro ed è su questa forza naturale che i sardi devono costruirsi attorno un impianto strutturale di efficienza ed innovazione.

Il secondo punto di indiscutibile forza della filiera del grano duro e nella realizzazione di prodotti alimentari tradizionali di grande interesse mondiale e che sono un patrimonio unicamente sardo. Il pane carasau e le sue varianti, il pane fresa, il pistoccu, il civraxiu, il pane di tricu, la spianata, i malloreddus, i culurgiones, le panada sono tutti esempi di prodotti esclusivi che non hanno similari nel resto del globo e che riscuotono un profondo interesse nei diversi mercati interni ed esterni all’isola.

Viene da sé che tali prodotti offrono un risultato completamente diverso, nell’esperienza gastronomica, quando sono realizzati nel pieno rispetto della tradizione e con farine ottenute dalla macinazione di grani sardi. Due simili punti di forza (il grano più saporito del mondo e prodotti alimentari unici soggetti ad una richiesta globale) hanno il dovere di essere la base di un’economia di successo e ricchezza, non una filiera in profonda e perpetua crisi.
campo di grano
A fronte di questa realtà è necessario arrivare alla realizzazione di una filiera sarda che venga riconosciuta globalmente di assoluta qualità e ai vertici. Per raggiungere questo risultato sono necessari diversi interventi. Il processo da avviare deve prevedere innovazione tecnologica a disposizione di tutti i produttori, con un affiancamento specializzato costante durante tutto il ciclo, dalla semina fino al raccolto. Deve essere fatta una classificazione dei raccolti, per tipologia e qualità, in modo da effettuare uno stoccaggio selezionato e immettere nel mercato dei molini grani di livelli qualitativi certi e stabili.

È necessario stimolare in modo diffuso la coltivazione di semenze che garantiscono una buona resa quantitativa ed una eccellente qualità nei parametri delle proteine, del glutine secco, del colore e del peso specifico. Al fine di ottenere risultati di tale fatta è indispensabile il trattamento ottimale dei campi, con la concimazione e con tutti i trattamenti previsti per favorire risultati di assoluta eccellenza. Capita spesso che tali trattamenti, come il nutrimento a base di azoto dei campi, venga tradito a causa di un alto costo che compromette definitivamente la possibilità di ricavi e di conseguenza il produttore vi rinuncia.

Altri interventi mirati ad un miglioramento complessivo della qualità riguardano la prima e seconda trasformazione. Ad esempio è certo che in questo processo devono inserirsi i molini, realizzando degli sfarinati di grano duro di qualità e cominciare a concepire linee di produzione specializzate per i prodotti tipici isolani. Sardegna Ricerche, qualche anno fa, ha realizzato due progetti Cluster di grande interesse, uno sulla panificazione ed un altro sugli sfarinati.

In particolare quello sugli sfarinati ha visto la collaborazione di diversi molini della Sardegna (a cui non hanno partecipato le due più grosse aziende del settore, chissà perché), dove si è studiato in laboratorio il comportamento dei diversi sfarinati con i diversi prodotti tipici di panificazione. Perciò ne è venuto fuori che alcuni sfarinati si comportano meglio nella realizzazione del pane carasau piuttosto che per la spianata di Ozieri e viceversa.

Per farla breve, i risultati sono stati di grande interesse perché hanno mostrato come sia possibile realizzare degli sfarinati particolarmente indicati nella produzioni dei prodotti regionali tradizionali. Sarebbe necessario avviare nuovi progetti di ricerca orientati proprio verso lo studio di farine di qualità per la migliore resa finale del prodotto in mano al consumatore.

L’ultimo elemento della catena di trasformazione, ovvero pastifici e panifici, devono contribuire ad inserire nel mercato dei prodotti di qualità e di forte personalità tradizionale, caratterizzando il più possibile la tipicità.

In un mercato globale dal quale non si può sfuggire e la cui natura è particolarmente aggressiva, l’unica soluzione è quella di non uniformarsi verso prodotti standard e globali ma esaltare le peculiarità dei prodotti isolani, evidenziandone le specificità, che sono poi quelle che destano una domanda molto forte nel mercato stesso. Il problema più evidente è la realtà commerciale delle strutture sarde, nella maggioranza a conduzione familiare e con una forza economica svantaggiosa rispetto ai colossi della Grande Distribuzione. La necessità di fare rete tra i diversi protagonisti della filiera è una necessità imprescindibile per porsi nel mercato come soggetto di pari dignità e non finire sotto una condizione di sfruttamento o addirittura di annientamento.

Di certo la filiera del grano duro in Sardegna, al pari di molte altre produzioni agro-alimentari tipiche, deve uscire fuori da una logica di mera assistenza e di puro individualismo d’impresa e inserirsi nel mercato come soggetto autorevole, deve cioè presentarsi al mercato come soggetto di rete unico a cui i produttori devono aderire.

La politica, all’interno di questo complesso processo di modernizzazione e competitività, ha un compito strategico e di azione ineludibile, fino ad oggi gravemente disatteso, nonostante diverse iniziative che spesso sono risultate logiche di conservazione di lobby di potere e di sussistenze sindacali.

Le azioni che la politica deve e può mettere in atto sono sia a livello di promozione dei prodotti di eccellenza dell’isola, sia la loro tutela, in modo da compensare e contrastare la inevitabile arroganza economica di grandi gruppi industriali dell’alimentazione. In questo senso negli ultimi anni ci sono state diverse proposte interessanti, come ad esempio obbligare i centri di distribuzione a dedicare una percentuale stabilita ai prodotti locali sugli scaffali di vendita. Irrinunciabile da parte della politica è intervenire su prodotti sardi dall’origine fino alla destinazione finale, garantendo su tutto il processo produttivo.

Ma su questo aspetto bisogna anche garantire l’equazione prodotto sardo = prodotto di alta qualità, cosa spesso non vera, per cui il consumatore preferisce acquistare un prodotto di diversa produzione non garantita come intera filiera locale ma di qualità oggettivamente superiore.

Molte sono le azioni che si possono fare per realizzare una filiera del grano duro che si ponga nel centro del Mediterraneo come polo di eccellenza qualitativa e la direzione può essere solo quella di creare le condizioni che permettono che permettono ai diversi attori della filiera di essere competitivi e di non vivere più secondo una logica di mera sussistenza.

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