Pazzi di Palermo
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di Laura Gatto

Avevo circa sette anni nel 1987 quando per la prima volta varcai la soglia di quel misterioso e grigio edificio. Ci andai con mia zia. Mentre aspettavamo non so chi, venne uno strano uomo. Vestito in uno strano modo, camicia azzurra e pantaloni di un azzurro più scuro tenuti su da un sottile filo di corda. Parlava in uno strano modo, non riusciva ad articolare bene le parole, quello che diceva si capiva a malapena. Camminava pure stranamente, quasi barcollando. Gli altri cercavano di non incontrare il suo sguardo, io invece lo guardai con diverse coloriture di emozioni miste a curiosità, paura e fascino fino a che non se ne andò.

Strinsi la mano di mia zia, forse per trovare il coraggio di guardarlo ancora, attirava così tanto la mia attenzione quell’uomo. E non gli staccai gli occhi di dosso neanche quando mi avvicinai a lui. Bussava ad una porta di ferro chiusa a chiave. Quella porta venne aperta dall’interno da un tizio vestito di bianco, mia zia si alzò e andò verso quella porta aperta farfugliando qualcosa ma neanche ascoltai perché adesso ero così vicina a quell’uomo che potevo guardarlo ad una distanza di pochi centimetri e tutto il resto era solo sfondo insignificante. A quanto pare comunque il tizio vestito di bianco disse a mia zia che dovevamo aspettare così chiamò quell’uomo strano per nome. Aveva ricevuto dai suoi parenti 10.000 £ e chiedeva di conservarglieli. Il tizio li prese e la porta si chiuse di nuovo, a chiave.

Andai via da quell’edificio e appena fuori ritornai la bambina spensierata di ogni giorno ma qualcosa dentro era cambiato ed era cambiato per sempre per fortuna e non solo per me ma anche per quell’uomo. Già la sera nel buio della notte, lontana dai giochi da bambina, ritornò tra i miei pensieri quell’edificio, quella sala d’attesa e quell’uomo vestito d’azzurro e dalla voce tremula priva di tonalità espressiva, egli iniziò a parlarmi con la dolcezza dei suoi occhi rimasti impressi nei miei in un istantaneo e casuale incontro. Mi parlò per sempre fino a che capì perché la gente evitava il suo sguardo. Era strano. Strano per chi non si sofferma neanche un attimo a vedere l’Uomo che c’è in lui.

Il caso volle che rivedessi quell’uomo e altri come lui, c’erano anche delle donne uguali a lui, persone di ogni età, storpi, sdentati, ma alla fine erano tutti uguali per via di quella pesante etichetta che portavano addosso: “pazzi”. Quando lo rividi non ero più la bambina che stringeva la mano alla zia, avevo undici anni, era il 1991, frequentavo la prima media e dalla finestra della mia aula si vedeva quel tremendo palazzo. Nel giardino che lo circondava ci ritornai per tre anni, la scuola usufruiva degli spazi all’aperto del “manicomio” per le attività di educazione fisica, il professore ci diceva: “siete pronti, andiamo al manicomio oggi, vi raccomando rimanete in fila e se qualche pazzo vi dice qualcosa fate finta di niente”.

Più tardi, in verità molti anni dopo e precisamente nel 2004, tornai al manicomio, ma questa volta non lo chiamarono così, mi dissero: “espleterai il tirocinio universitario in una comunità terapeutica assistita”. Allora capì tutto perché cercai di ricostruire l’ennesima disumanità compiuta dal genere umano.
1904. Istituzione delle strutture manicomiali. Uniche figure professionali: psichiatri ed infermieri. Visione rigorosamente organicista: il paziente subiva l’atto clinico, finalità dell’intervento psichiatrico il contenimento fisico, prospettive di cambiamento pressoché nulle.
Ecco perché quell’uomo appariva così strano, tanto strano da non riuscire ad incontrare gli sguardi degli altri: né lui né gli altri si conoscevano, non si erano mai incontrati prima e neanche interessati l’uno dell’altro.
Lui era così strano perché estraneo al mondo, perché recluso nell’orrore dell’isolamento e dell’alienazione fino a che un altro uomo scelse il rischio di restituirgli dignità umana, di liberarlo e di irrompere in quella chiusura disumanizzante.
Quest’altro uomo scelse la via dell’umanizzazione nel 1978. Franco Basaglia, psichiatra italiano, leader dell’antipsichiatria. Legge n. 180. Chiusura delle strutture manicomiali entro il 30 dicembre del 1996. Il pazzo malato di mente non è più un oggetto passivo dell’atto clinico, diventa uomo e attore del proprio processo riabilitativo. Il manicomio supera l’organizzazione e l’impostazione dell’Ospedale psichiatrico, nascono le Comunità Terapeutiche Assistite e le case-famiglia. Nasce lo scambio tra queste strutture e il tessuto sociale.
Avevo adesso ventiquattro anni e ritrovai quegli uomini, vestivano gli stessi abiti di una società che si era dimenticata di loro, vivevano in allegri e accoglienti spazi lontani da quegli enormi e strazianti cameroni privi di arredi in cui penosamente gli unici elementi di decoro erano anime recluse in un corpo recluso in un edificio recluso. Cameroni in cui giorno e notte non erano differenti, scanditi dalle cinture di contenzione o dalle camicie di forza. Dove gli unici scambi relazionali avvenivano con le proprie allucinazioni. Quegli uomini quelle donne strane adesso avevano la possibilità di vivere oltre quei cancelli di recinzione, di respirare l’aria, di guardare il cielo, di fare un giro per le strade del quartiere, di sentire il calore della vita oltre quell’edificio.

In quegli anni, dal 1987 al 2004, quell’uomo faticosamente stava imparando a stare al mondo inconsapevole che era stato uno dei miei più importanti maestri di umanità. Gli altri però continuavano ad evitare il suo sguardo e quello degli altri pazzi come lui. Era come un evitarli fisicamente ma soprattutto umanamente, come un creare ancora una volta un palazzo grigio, anzi tanti palazzi grigi, tanti manicomi personali in cui l’unica vera pazzia e l’unico vero manicomio era stato e continua ad essere la cecità del distacco. Come è possibile che ancora non ci si riesca ad evolvere culturalmente e umanamente fino a capire che quei pazzi sono persone e hanno un nome e che Lucia, Teresa, Giovanni, Michele, Salvatore e tutti gli altri hanno storie da raccontare e sono maestri di umanità?

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