Ogni volta che entriamo in relazione con noi stessi e con il mondo che ci circonda, lo facciamo tramite un atto comunicativo che altro non è che un comportamento. Sotto questo aspetto, le abilità comunicative influiscono enormemente sulle capacità di integrazione sociale di una persona, nonché di relazionarsi correttamente con gli altri individui.
Ma l’uomo inizia il processo di comunicazione, e dunque di socializzazione, nel momento in cui, dopo la nascita, si rapporta con i suoi simili cominciando ad agire secondo quello che la società si aspetta da lui. Le aspettative di efficienza da parte del gruppo sociale e culturale a cui egli fa parte, dunque, determinano o limitano il suo ruolo sociale.
È probabilmente in questo senso che intendiamo e distinguiamo l’abilità dalla disabilità, ed è da questa, in parte, falsa partenza che dovremmo cominciare a riflettere su cosa realmente accade (o potrebbe non accadere) agli esseri umani quando si trovano a vivere una relazione costruttiva o distruttiva con l’ambiente sociale circostante.
Le richieste da parte di quest’ultimo, si sa, inducono ad una continua modifica delle abilità da parte di tutti: giovani e meno giovani. Prendendo in esame il vissuto di abili e disabili dagli 11 ai 16 anni, possiamo riflettere non solo sull’azione che l’ambiente sociale esercita sulle loro multiple capacità o incapacità, ma anche il contrario.
È tutt’oggi ancora vero che in questa fase della cosiddetta terza adolescenza, tutti gli interessi e le energie sono rivolti principalmente verso il mondo esterno e dunque l’abilità espressa dovrebbe essere quella della socializzazione. Questa richiede un progressivo tentativo di allontanamento dalla famiglia a favore di un’interazione attiva con i coetanei. L’inserimento sociale è un passo fondamentale per la strutturazione della personalità e, dunque, l’espressione autentica di chi si è verso l’esterno. In tutto questo è il linguaggio ad avere una valenza estremamente comunicativa sociale, e non dimentichiamo che comunicare (dal latino communis: che appartiene a tutti) vuol dire proprio condividere, mettere qualcosa in comune con gli altri.
Verso l’attuale generazione di ragazzi il mondo esterno sta aumentando le proprie richieste anche per quanto riguarda la comunicazione. Le informazioni e la loro modalità di espressione generano quotidianamente una sovrabbondanza a volte difficile da gestire e, in casi particolari, persino ridondante. “Condividere” molto spesso vuol dire “mettersi in vetrina” con foto di scene di vita quotidiana ed intima; comunicare i propri stati d’animo attraverso frasi preconfezionate e pronte all’uso grazie alle semplici opzioni offerte dalla digitalizzazione degli stessi. Nel mondo attuale della comunicazione digitale e virtuale, gli assiomi della comunicazione efficace espressi da Watzlawich, Beavin e Jackson (1971) sembrerebbero sopravvivere ancora. Anche la funzione emotiva (o espressiva) individuata da Jacobson sembrerebbe essere stata rispettata. Ma forse solo a metà, perché mentre vediamo i giovani, cosiddetti normodotati, esprimere i loro stati d’animo attraverso emoticon più o meno artisticamente soddisfacenti, non possiamo fare a meno di udire l’elevazione o la modulazione del loro tono di voce, del ritmo e della velocità. Dov’è il non-verbale che abbiamo espresso, o tentato di soffocare, in innumerevoli colloqui di lavoro o in incontri importanti? Dove finiscono, negli spazi bianchi e con cursore lampeggiante dei social networks, le modalità comunicative del paraverbale e del non verbale? La conformazione fisica, l’importanza della postura, dell’espressione del volto sembrano rimanere “condizionanti” al buon esito di un’azione solo a coloro che hanno delle importanti disabilità fisiche; così come il contatto fisico e la gestualità, il grido e il bisbiglio.
È all’interno di questo mondo reale, paradossalmente esistente a fianco di quello virtuale e considerato dai più come“sano”, che è possibile toccare con mano l’esistenza di altri tipi di social networks. Nati per sovvenire alle carenze del Welfare State, le rete sociali di quartiere si sono presentate, poco alla volta, come nuovo modello di utilizzo delle risorse delle reti informali dello spazio nel quale si vive. Laddove potrebbe venir creato spazio di disagio ed emarginazione, viene estratto tutto il potenziale per ricostruire relazioni significative. Scuole, famiglie, agenzie extrascolastiche e servizi territoriali vengono messi “in rete”, ossia fatti concretamente interagire nella quotidianità reale del disabile.
In un soggetto con handicap (sia mentale che fisico) la problematica di costruire e mantenere relazioni può essere indubbiamente svantaggiata o sfavorita dall’ambiente fisico e sociale che lo circonda. Eppure, abbiamo esempi lampanti che dimostrano che la sanità fisica non è necessariamente indice di benessere e la malattia fisica può essere vissuta in modo diverso, al variare di queste condizioni. Non si può non comunicare, in quanto qualsiasi comportamento (le parole o i silenzi, l’attività e l’inattività) ha valore di messaggio. Lo sanno bene tutti quei disabili che, giorno per giorno, tentano di attuare uno scambio comunicativo molto complementare, soprattutto quando interagiscono con i cosiddetti “abili”. In questi casi, le differenze tra i comunicanti sono molto più accentuate ma entrambi – ognuno nella propria diversità – hanno la possibilità di relazionarsi aprendo un grosso squarcio utile alla creatività e alla ricettività sia dell’uni che degli altri.
Tra gli strumenti che spesso i disabili utilizzano per esprimersi e porsi in comunicazione con il mondo degli abili vi è l’Arte, in tutte le sue categorie: pittura, scultura, danza, canto e – perché no – anche l’ “arte di arrangiarsi”: ideare nuovi metodi di comunicazione anche laddove gli arti dormiranno per sempre, come ci dimostra il caso di Jean-Dominique Bauby, giornalista francese che riuscì a dettare la scrittura del proprio romanzo attraverso un battito di ciglio, unico movimento concessogli dalla sindrome locked-in da cui era affetto. La loro abilità, in tutti questi casi, non sarà nell’estetica finale del prodotto (anche se, è vero, esistono veri e propri capolavori) ma nel mettersi in gioco e in discussione e, guidati o meno, tuffarsi nell’oceano del web concretamente utile: quello che fa conoscere queste realtà e possibilità; quello che diffonde risorse didattiche utili ai terapisti o, ancora, quello che organizza delle vere e proprie mostre virtuali online. Sono numerosi i siti web, soprattutto statunitensi, che ci aprono una finestra sull’incoraggiante visuale di un mondo fatto di sofferenza, disagio ma anche enorme coraggio.
I modi di comunicare sono vari e numerosi. Ce lo ha insegnato la Teoria della Comunicazione Efficace e continuano a dimostrarcelo giovani pittori disabili come Ping Lian Yeak (15 anni, autistico) e Amanda Lamunyion (12, con sindrome di Asperger). Stereotipi e pregiudizi, ma anche categorizzazioni buoniste, ci portano spesso a conformarci a stili e modalità condivise di pensiero che ci impediscono di vedere e conoscere l’altro così come egli è. Ogni individuo è diverso, quindi anche ogni disabile è diverso. È necessario operare un processo di “decostruzione”, di smantellamento di opinioni, pregiudizi e stereotipi. Non tutti i disabili che dipingono, danzano o suonano arriveranno mai ai livelli di un Petrucciani, ma – attraverso la comunicazione – avranno comunque attivato, di fronte alla società, un esempio di approccio coraggioso all’accettazione e all’espressione di sé stessi.
Davanti a tutto questo, poi, anche noi dovremmo trovare il coraggio di riconoscere che la vera abilità è nient’altro che quella in cui l’uomo (in salute o meno) comunica con gli altri per avere consapevolezza di sé e – all’interno della sfera relazionale – poter esprimere la propria identità. I disabili ci ricordano quotidianamente, per chi vive a stretto contatto con loro, che all’interno dei gruppi sociali, la comunicazione è (e deve essere) un processo autenticamente interattivo, informativo e trasformativo.
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